Licenziamento precluso se non viene data prova del possibile impiego in mansioni inferiori. Un possibile contrasto giurisprudenziale?

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Il giustificato motivo oggettivo è quello che attiene ai licenziamenti comminati per motivi economici aziendali.

In ragione dell’art. 3 della legge 604/1966, anche nella nuova formulazione prospettata dalla legge 92/2012 (Legge Fornero), “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

Tuttavia, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sul datore di lavoro incombe l’obbligo del cd. repechage, vale a dire che lo stesso, in ottemperanza al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, abbia prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un’utilizzazione in mansioni inferiori. In assenza di una siffatta offerta, il licenziamento deve ritenersi illegittimo.

E’ quanto di recente stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4509, del 8.03.2016.

La stessa fa un ampio excursus in merito alla possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti ovvero inferiori, se tale rimedio risulta necessario ad evitare l’estromissione del lavoratore dal contesto lavorativo, partendo proprio dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 7755/1998.

La vicenda giudiziaria prende le mosse dal ricorso proposto dal lavoratore avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminato dalla ditta datrice.

Sosteneva il ricorrente che lo stesso doveva ritenersi illegittimo in virtù del fatto che, dopo il provvedimento espulsivo che aveva interessato lo stesso, la ditta datrice avrebbe assunto altro personale, a tempo indeterminato e a tempo determinato.

Ciò posto, chiedeva venisse dichiarata l’illiceità del licenziamento, siccome privo del dedotto giustificato motivo oggettivo nonché per violazione dell’obbligo di repechage, con la conseguente reintegra nel posto di lavoro e la condanna al risarcimento del danno fino alla effettiva reintegrazione.

Resisteva in giudizio la società datrice di lavoro e, all’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, accoglieva il ricorso.

Sull’impugnazione proposta dalla ditta datrice la Corte d’Appello di Napoli, riformava totalmente la sentenza di primo grado.

A sostegno della opposta decisione il giudice di secondo grado osservava che il posto al quale era stato adibito il ricorrente, a cagione della crisi economica della ditta datrice, era stato effettivamente soppresso.

Che risultava pur vero che la stessa società, in epoca successiva al licenziamento, aveva operato delle nuove assunzioni, avvalendosi di contratti a termine o di somministrazione per sopperire a momentanee esigenze produttive ma che, tuttavia, all’epoca dei fatti che portarono al licenziamento non vi erano posizioni lavorative di contenuto equivalente a quelle nelle quali il ricorrente stesso era impiegato, pertanto, detta circostanza era da ritenersi satisfattiva dell’obbligo di repechage da parte dell’azienda.

Né risultava manifestata, da parte del lavoratore, la volontà di essere ricollocato in mansioni inferiori, al fine di evitare la definitiva estromissione dello stesso dal contesto lavorativo.

Avverso l’anzidetta sfavorevole decisione proponeva ricorso per cassazione il dipendente, affidando lo stesso a due motivi, tra cui, la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della Legge n. 604/66 e dell’art.18 della Legge n. 300/70.

La Corte, prima di entrare nel merito della questione, ricorda come la risalente giurisprudenza della stessa, ha ripetutamente sostenuto che la modifica in peius delle mansioni del lavoratore, ex art. 2013 c.c. (nella formulazione precedente alla legge di riforma portata dal cd. Jobs Act: http://www.studiocataldi.it/articoli/18642-cambia-l-art-2103-cc-il-lavoratore-puo-essere-adibito-a-mansioni-diverse-anche-inferiori-e-con-retribuzione-ridotta.asp), è da ritenersi illegittima, tranne nel caso in cui vi è il consenso dell’interessato e che l’anzidetta misura sia necessitata dalla salvaguardia del posto di lavoro, quale alternativa al licenziamento.

Ricorda altresì anche l’intervento delle Sezioni Unite (Cass., S.U. n. 7755/1998), necessitato dal contrasto giurisprudenziale creatosi all’interno delle sezioni semplici, che hanno stabilito come il licenziamento – da intendersi quale extrema ratio – doveva essere ritenuto legittimo non solo in assenza “dell’eseguibilità dell’attività svolta in concreto dal prestatore”, ma anche dalla possibilità di adibire ad altre mansioni equivalenti ovvero inferiori il lavoratore, senza che ciò comportasse ostacoli  all’organizzazione aziendale.

Ciò posto, osserva la Corte di Cassazione nella sentenza in commento, che affinché il lavoratore possa essere messo in condizioni di esprimere l’eventuale consenso all’adibizione a mansioni inferiori, occorre che il datore di lavoro, in ottemperanza del principio di buona fede che deve necessariamente permeare l’esecuzione del contratto, debba pur sempre prospettargli una tale possibilità, laddove risulti compatibile con il bagaglio professionale dello stesso e con il mutato assetto aziendale, pertanto “in tal senso si palesa l’erroneità della statuizione impugnata, che nessun accertamento ha svolto sul punto, argomentando esclusivamente in ordine alla omessa manifestazione da parte del lavoratore, di una volontà intesa alla stipula di un “patto di demansionamento”, in contrasto con i dicta giurisprudenziali ai quali si è fatto richiamo ed ai quali si intende dare continuità”.

La sentenza, pertanto, viene cassata e il giudizio rinviato alla Corte d’Appello di Napoli per l’applicazione del seguente principio di diritto: “in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione dì lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni inferiori siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore” (Cass. civ., Sez. Lav., 8.03.2016, n. 4509).

Un tale principio deve essere tuttavia coordinato con quanto affermato dalla medesima Corte, in due recenti decisioni, che sembrano <<alleggerire>> il rigore probatorio emerso dalla sentenza in commento, se non proprio a porsi in contrasto, addossando in qualche maniera sul medesimo lavoratore un dovere di cooperazione nella ricerca di una possibile alternativa lavorativa.

Ed invero è stato ritenuto che: “Con riguardo al recesso per giustificato motivo oggettivo per ragioni tecniche, organizzative e produttive compete al giudice – il quale non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, che costituiscono espressione della libertà di iniziativa economica tutelata ex art. 41 Cost. – il controllo sull’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale egli deve provare, anche con elementi presuntivi e indiziari, l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle sinora svolte; tale prova non va intesa in modo rigido, ricadendo sul lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, a ciò conseguendo l’onere del datore di provare la non utilizzabilità nei posti predetti” (Cass. civ., Sez. Lav., 23.09.2015, n. 18780. Nello stesso senso: Cass. civ., Sez. Lav., 15.07.2015, n. 14807).

Sentenza collegata

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Avv. Accoti Paolo

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