Legittimazione dell’offeso all’impugnazione dell’ordinanza

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Quando la persona offesa non è legittimata ad impugnare l’ordinanza emessa nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona

Indice

  1. Il fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite
  4. Conclusioni

1. Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti, in accoglimento della richiesta del Pubblico ministero, sostituiva la misura cautelare degli arresti domiciliari con quelle dell’obbligo di dimora presso il Comune di dimora abituale e del divieto di avvicinamento alla persona offesa.

Avverso il provvedimento di sostituzione della misura degli arresti domiciliari proponeva ricorso per Cassazione il difensore della persona offesa.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

La Sesta Sezione penale della Corte di cassazione, assegnataria del ricorso, lo rimetteva alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla legittimazione della persona offesa, nei procedimenti per reati commessi con violenza contro la persona, ad impugnare, per mezzo del ricorso per Cassazione, l’ordinanza di cui all’art. 299 c.p.p..

Difatti, nell’ordinanza di rimessione, si evidenziava che, secondo un primo indirizzo interpretativo, la persona offesa non è legittimata al ricorso per Cassazione perché le disposizioni in tema di impugnazione cautelare non la annoverano tra i titolari del potere, rilevandosi al contempo che il ricorso per Cassazione, peraltro, si atteggerebbe quale ricorso per saltum dato che contro i provvedimenti di sostituzione o revoca è previsto l’appello e il ricorso per saltum è ammesso unicamente contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge nonché, ex art. 568, comma 2, c.p.p., contro i provvedimenti concernenti lo status libertatis non altrimenti impugnabili (Sez. 5, n. 54319 del 17/05/2017; Sez. 5, n. 35735 del 31/03/2015).

Ciò posto, sempre nell’ordinanza succitata, si segnalava anche un opposto orientamento, espresso da plurime decisioni.

In particolare, la Sez. 6, nella decisione n. 6717 del 05/02/2015, ha puntualizzato che l’inammissibilità della richiesta per omessa notificazione alla persona offesa è rilevabile anche per mezzo della impugnazione e ha ritenuto la legittimazione della persona offesa all’impugnazione mediante ricorso per Cassazione così come, allo stesso modo, hanno deciso, individuando nella legittimazione al ricorso per Cassazione il necessario rimedio alla violazione delle prerogative della persona offesa, Sez. 5, n. 7404 del 20/09/2016, Sez. 1, n. 51402 del 28/06/2016, e Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, fermo restando che la prima delle sentenze appena citate ha chiarito che, invece, non sono esperibili dalla persona offesa i rimedi del ricorso per saltum, le cui ipotesi sono tassativamente previste, e dell’appello ex art. 310 c.p.p., riservato espressamente ai soggetti ivi indicate.


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3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, dopo avere circoscritto la questione sottoposto al suo vaglio giudiziale (così individuata: “se, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, sia impugnabile con ricorso per cassazione, da parte della persona offesa, l’ordinanza con cui il giudice abbia disposto la revoca o la sostituzione di misura cautelare coercitiva, diversa da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, senza attendere il decorso del termine di due giorni previsto per l’eventuale memoria della stessa persona offesa”) e compiuto un breve excursus della normativa di riferimento, evidenziavano il contrasto giurisprudenziale in atto, riproponendo, anch’essi, i due diversi orientamenti richiamati nell’ordinanza di rimessione.

Una volta fatto ciò, il Supremo Consesso riteneva di dovere aderire all’indirizzo interpretativo minoritario che nega alla vittima dei reati commessi con violenza alla persona il potere di impugnare il provvedimento con cui il giudice decide su una richiesta di revoca o di sostituzione di una misura cautelare, tanto nel caso di omessa notifica della richiesta quanto in quello di inosservanza del termine dilatorio di due giorni, accordato per presentare memorie ai sensi dell’art. 121 c.p.p..

Dirimente, per la Suprema Corte, è il profilo soggettivo del principio di tassatività delle impugnazioni in quanto la legge (art. 568 c.p.p.) non si limita a rivendicare a sé la determinazione dei casi nei quali i provvedimenti sono soggetti ad impugnazione e di indicare il mezzo con cui possono essere impugnati; ma aggiunge, ed è questo il dato che qui soprattutto interessa, che “il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce”, per poi immediatamente dopo specificare che “se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse”.

Il senso di queste disposizioni, quindi, per gli Ermellini, è chiaro: la legge può attribuire il diritto di impugnazione anche a soggetti che non sono parti, ma ciò deve fare espressamente e, quindi, con previsione che non si presta ad interpretazioni estensive e meno che mai ad applicazioni analogiche. Generalmente, invece, il diritto di impugnazione spetta alle parti, tanto che, nel silenzio della legge sui legittimati, deve ritenersi che esso spetti a ciascuna di esse.

Tal che se ne faceva discendere che, sulla base di queste cogenti precisazioni, non può che rilevarsi l’assenza della persona offesa tra i soggetti legittimati all’impugnazione dei provvedimenti adottati sulle richieste di revoca o di sostituzione delle misure cautelari.

L’art. 310 c.p.p., in particolare, dispone che l’appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali spetta al pubblico ministero, all’imputato e al suo difensore e non può allora meritare considerazione la tesi, che si è detto essere stata sostenuta sia pure incidentalmente, da un precedente (Sez. 5, n. 35735 del 31/03/2015) secondo cui l’ordinanza ex art. 299 c.p.p., se emessa in violazione delle disposizioni che consentono l’intervento della persona offesa, può essere appellata dinnanzi al tribunale.

Ciò posto, il successivo art. 311 c.p.p., a sua volta, prevede la possibilità, sempre per gli stessi soggetti, di proporre ricorso per Cassazione contro le ordinanze emesse, nella stessa materia, in sede di appello, riservando il ricorso diretto per Cassazione, unicamente contro le ordinanze di applicazione delle misure coercitive, all’imputato e al suo difensore, legittimati all’alternativo strumento della richiesta di riesame.

Da ciò la Corte di legittimità concludeva nel senso che andava pertanto escluso un potere di ricorso per saltum contro le ordinanze di rigetto della richiesta di revoca o di sostituzione della misura cautelare e non solo per la persona offesa, rilevandosi al contempo che non si può nemmeno fare richiamo, per eludere la puntuale indicazione dei soggetti legittimati, al disposto dell’art. 111, comma 7, Cost., come invece sostenuto da Sez. 5, n. 7404 del 20/09/2016, perché la previsione costituzionale assicura la garanzia oggettiva del controllo di legittimità su ogni provvedimento in materia di libertà personale, ma non in favore di qualsivoglia soggetto: essa non si occupa in alcun modo del tema dei legittimati al ricorso e non può dunque essere utilizzata per ampliarne, in difformità alle previsioni di legge, la platea.

Precisato ciò, i giudici di piazza Cavour evidenziavano oltre tutto che alla mancanza di una previsione espressa non può rimediarsi assegnando alla persona offesa la qualifica di parte del procedimento cautelare dal momento che, se anche si giungesse a tale risultato, occorrerebbe prendere atto che le disposizioni codicistiche di diretto interesse indicano espressamente le parti aventi diritto all’impugnazione, e ciò non consente di ampliare il numero dei legittimati per l’ovvia ragione che la legge li ha espressamente individuati, impedendo che operi la previsione, prima richiamata, secondo cui, “se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse”.

Del resto, al di là di codesto profilo di criticità, vi era, per le Sezioni Unite, un ulteriore rilievo centrale, vale a dire che l’attribuzione della qualifica di parte non può costituire la premessa per il riconoscimento del potere di impugnazione, ma deve essere il risultato di un attento esame della fisionomia normativa dei poteri e delle facoltà del soggetto, e ciò in ragione del fatto che sarebbe inficiato da un evidente vizio logico l’argomento che pretendesse di assegnare la qualità di parte in ragione della rafforzata tutela della posizione della vittima, che certo il legislatore della novella del 2013 ha inteso introdurre nel sistema con specifico riguardo al sub-procedimento cautelare iniziato da una richiesta di revoca o di sostituzione, per poi trarre la conclusione in punto di poteri d’impugnazione mentre occorre piuttosto esaminare compiutamente le norme che tracciano il profilo e il ruolo della persona offesa e solo dopo, e conseguentemente, valutare quale sia la qualifica più confacente.

Orbene, con lo sguardo al procedimento cautelare, ad avviso del Supremo Consesso, non poteva che rilevarsi l’assenza di un ruolo partecipativo ad ampio spettro.

La persona offesa, invero, non è presente nel momento applicativo delle misure, neanche con poteri meramente sollecitatori dell’iniziativa del pubblico ministero, che invece la qualificano in altri momenti, specificamente in materia di incidente probatorio; e non ha alcuno spazio di interlocuzione ove i provvedimenti di revoca o di sostituzione siano adottati per iniziativa officiosa del giudice all’esito dell’interrogatorio cd. di garanzia, in sede di decisione sulla richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari o di assunzione dell’incidente probatorio ovvero, ancora, quando il giudice procede all’udienza preliminare o al giudizio (art. 299, comma 3, ultimo periodo, c.p.p.).

La persona offesa, ancora, non è interpellata in altre situazioni che conducono alla cessazione dello stato di restrizione cautelare, come è quello della perdita di efficacia delle misure, che può essere imputata a varie cause, dal mancato rispetto del termine di legge per l’espletamento dell’interrogatorio cd. di garanzia o per la decisione sulla richiesta di riesame al decorso dei termini massimi di legge, così come non interviene nelle vicende modificative connesse all’impugnazione del titolo cautelare, fermo restando che a tal proposito si è correttamente chiarito che “l’obbligo di notifica alla persona offesa dell’istanza sulla libertà proposta dall’imputato, previsto dall’art. 299 c.p.p., non si estende all’appello che egli abbia proposto, ex art. 310 c.p.p., avverso il rigetto della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, trattandosi di onere non previsto da alcuna norma di legge” (Sez. 2, n. 33627 del 11/06/2021; Sez. 5, n. 33909 del 20/06/2018).

Lo spazio che le viene attribuito è quindi, per la Corte, episodico, non espressivo cioè di una posizione di interesse che possa giustificare iniziative ben più incisive.

Del resto, la cautela legislativa può trovare giustificazione nella dubbia accettabilità di situazioni in cui le limitazioni alla libertà personale, anche se nei confronti di soggetti già raggiunti da restrizioni cautelari, possano essere conseguenza di iniziative non riconducibili alla parte pubblica.

Il rilievo, già articolato nella giurisprudenza di legittimità per dare conto della compatibilità sistematica della mancanza del diritto all’impugnazione in capo alla persona offesa avverso il provvedimento ex art. 299 c.p.p. assunto in violazione del suo diritto di intervento (Sez. 5, n. 54319 del 17/05/2017), quindi, per la Suprema Corte, concorre utilmente a motivare l’impossibilità di attribuzione alla persona offesa del ruolo di parte del procedimento cautelare.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che la persona offesa non è parte neanche nel processo principale.

Le disposizioni codicistiche, come modificate dal D.Lgs. n. 212 del 2015 che ha attuato la Direttiva 2012/29/UE, in effetti, le conferiscono in via principale il diritto di presentare memorie e la facoltà, con l’esclusione del giudizio di cassazione, di indicare elementi di prova; e individuano come deroghe a questa generale configurazione l’espressa attribuzione, in determinati momenti procedimentali, di diritti e facoltà aggiuntivi (art. 90 c.p.p.).

La persona offesa deve essere informata in merito ai suoi diritti e facoltà e alle modalità con cui esercitarli e reagire in caso di violazione (art. 90-bis c.p.p.); ha diritto ad essere informata dei provvedimenti di scarcerazione o di cessazione della misura di sicurezza detentiva e, ancora, dell’eventuale evasione dell’imputato o del condannato o della sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza, e ciò, ancora una volta, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, se ne ha fatto previamente richiesta (art. 90-ter, comma 1, c.p.p.) e, pur senza previa richiesta, se il procedimento ha ad oggetto reati specificamente elencati (art. 90-ter, comma 1-bis, c.p.p.), nonché il diritto di ricevere l’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.), la richiesta di proroga del termine di indagine (art. 406 c.p.p.), l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei procedimenti per il delitto di maltrattamenti in famiglia e per il delitto di atti persecutori (art. 415-bis, comma 1, c.p.p.).

Il diritto all’informazione e il diritto alla presentazione di memorie e di indicazione di elementi di prova non strutturano un ruolo di parte, ma – come affermato da Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, espressamente richiamata da Sez. U, n. 17156 del 30/09/2021, dep. 2022, cit. di “soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale”.

Ebbene, a fronte di ciò, per gli Ermellini, tale affermazione non è messa in crisi dalla considerazione di facoltà e diritti aggiuntivi in determinati momenti del procedimento.

Si pensi, ad esempio, al diritto di assistere ad alcune operazioni probatorie, dalla perizia che richieda il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale (art. 224-bis c.p.p.) all’accertamento tecnico irripetibile (art. 360 c.p.p.) o, ancora, ai più ricchi poteri che le spettano nell’incidente probatorio tenuto conto che, in tale ultimo ambito, la vittima può sollecitare al pubblico ministero la relativa richiesta (art. 394 c.p.p.), ha il diritto alla notifica dell’avviso di udienza per l’assunzione della prova (art. 398, comma 3, c.p.p.), e il diritto a prendere parte, per mezzo del suo difensore, all’udienza (art. 401, comma 1, c.p.p.), oltre che il diritto di assistere all’udienza ove si esamini un testimone o un’altra persona o, negli altri casi, previa autorizzazione del giudice (art. 401, comma 3, c.p.p.), e infine il diritto, per il tramite del suo difensore, di chiedere al giudice di rivolgere domande alle persone sottoposte all’esame (art. 401, comma 5, c.p.p.).

Detto questo, i giudici di piazza Cavour rilevavano come ancora più intensi siano i poteri che le spettano all’interno del procedimento di archiviazione.

Anzitutto, la persona offesa del reato ha il diritto di essere informata della proposizione della richiesta: in generale, se ha previamente dichiarato di voler essere informata, e in ogni caso se il procedimento ha ad oggetto un delitto commesso con violenza alla persona o il delitto di cui all’art. 624-bis c.p. (art. 408, commi 2, 3 e 3-bis, c.p.p.) o, ancora, se la richiesta è stata formulata per la particolare tenuità del fatto (art. 411, comma 1-bis, c.p.p.), potendo poi prendere visione degli atti e proporre opposizione (artt. 410 e 411 c.p.p.), oltre ad avere anche il diritto di prendere parte all’udienza fissata in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, che si svolge nelle forme dell’art. 127 c.p.p. (art. 409, comma 2, c.p.p.)

Inoltre, la vittima ha il diritto di reclamo dinnanzi al Tribunale in composizione monocratica nei casi di nullità del decreto di archiviazione, che ricorre nei seguenti casi: quando è emesso senza previa notifica della richiesta o senza attendere che sia decorso il termine per proporre opposizione; oppure, se, proposta l’opposizione, il giudice ometta di pronunciarsi sulla ammissibilità della stessa o la dichiari inammissibile, fuori dei casi in cui l’opposizione non contenga l’indicazione dell’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova (art. 410-bis c.p.p.).

Infine, la persona offesa ha diritto di reclamo nel caso di nullità dell’ordinanza di archiviazione, configurabile ove non sia stato dato avviso dell’udienza ovvero se all’udienza il soggetto avvisato, regolarmente comparso, non sia stato sentito o, infine, se l’udienza non sia stata rinviata pur in presenza di un legittimo impedimento.

La persona offesa ha dunque il potere di impugnazione mediante reclamo per il caso in cui sia stato violato il suo diritto di intervento nel procedimento.

Ebbene, per le Sezioni Unite, se ciò potrebbe far ritenere che questo modulo sia trasferibile ad ogni altra evenienza, come quella di diretto interesse, in cui le sia impedito di intervenire sia pure solo con la presentazione di una memoria, l’applicazione analogica di una disposizione di tal fatta, a loro avviso, non sarebbe però operazione corretta atteso che la legge definisce in generale un ruolo che si segnala per diritti di informazione e di intervento meramente sollecitatorio per mezzo di memorie e, al contempo, chiarisce che quanto di volta in volta previsto aggiuntivamente per determinate scansioni procedimentali è oggetto di riconoscimenti espressi e come tali non estensibili a situazioni ritenute simili o analoghe.

Lo stesso preclusivo rilievo impedisce, sempre secondo la Corte di legittimità, di fare riferimento al potere di impugnazione che è riconosciuto nei confronti della sentenza di non luogo a procedere, che può essere appellata dalla persona offesa, ma solo per far valere la nullità derivante dalla omessa notificazione dell’avviso dell’udienza preliminare (art. 428, comma 2, e art. 419, comma 7, c.p.p.).

Per di più, si evidenziava che, in senso contrario alla tesi ampliativa, la limitazione delle ragioni dell’impugnazione alla sola violazione del diritto di partecipazione e di intervento in udienza è un altro segnale che si è di fronte a previsioni che non autorizzano l’attribuzione di parte.

Invero, la persona offesa, diventa parte, soltanto con la costituzione di parte civile, perché, facendo valere l’interesse risarcitorio/restitutorio, che pure non è elemento indefettibile della sua natura di titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, assume poteri di incidenza sulla progressione processuale, in quanto può esercitare il diritto alla prova e poi quello di impugnazione delle statuizioni che riguardano la sua azione e, quindi, il tema della responsabilità civile.

Per il resto, come ricordato da Corte Cost., sent. n. 353 del 1991, alla titolarità dell’interesse protetto dalla norma penale si collegano plurimi diritti o facoltà, in “una sfera di azione” che se certamente “non può in alcun modo, restare subordinata alla rilevanza di pretese di natura extra penale, tende a realizzare, mediante forme di ‘adesione all’attività del pubblico ministero ovvero di ‘controllò su di essa, una sorta di contributo all’esercizio dell’azione penale, secondo un principio puntualmente ricavabile dall’art. 2, n. 2 e n. 51 della legge-delega” (così la Relazione al progetto preliminare, pag. 41)”.

L’esclusione del potere di impugnazione non pone quindi il sistema in frizione con la normativa sovranazionale che negli ultimi anni ha rafforzato ed ampliato il corredo di diritti e facoltà della persona offesa.

La Direttiva 2012/29/UE, invero, si limita ad osservare che “le vittime dovrebbero essere informate in merito all’eventuale diritto di presentare ricorso avverso una decisione di scarcerazione dell’autore del reato, se tale diritto esiste nell’ordinamento nazionale” (Considerando 33) e, dunque, ha rimesso alla scelta dei singoli ordinamenti nazionali l’attribuzione del diritto all’impugnazione del provvedimento in materia di libertà personale, che non si impone come requisito minimo di garanzia delle ragioni della vittima.

Allo stesso modo, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, cd. Convenzione di Istanbul, dell’11 maggio 2011, sottoscritta dall’Italia il 27 settembre 2012 (autorizzazione alla ratifica con la L. 27 giugno 2013, n. 77) fa carico agli Stati di adottare le misure necessarie a garantire alle vittime non solo di essere ascoltate, di poter fornire elementi di prova e di presentare le loro opinioni, esigenze e preoccupazioni, ma anche che “i loro pareri siano esaminati e presi in considerazione” fermo restando che quest’ultimo ulteriore presidio, che rafforza il diritto all’ascolto e all’intervento informativo, non si traduce per necessità nella previsione del potere di impugnazione, ben potendo trovare negli ordinamenti statuali altre forme di concretizzazione.

Oltre tutto, per gli Ermellini, non può neanche dubitarsi della compatibilità costituzionale della soluzione accolta poiché la scelta di non assegnare alla persona offesa il potere di impugnazione delle ordinanze emesse ai sensi dell’art. 299 c.p.p. è frutto di una insindacabile discrezionalità legislativa perché i modi e le forme con cui realizzare la tutela della posizione della vittima devono coniugarsi con l’esigenza di riservare alla parte pubblica l’iniziativa per l’assunzione di decisioni che comprimano il bene fondamentale della libertà personale.

D’altronde, nell’ordinamento interno, lo strumento processuale, per garantire alla persona offesa che le sue deduzioni in ordine alla restrizione cautelare dell’indagato siano prese in considerazione, si rinviene nella disposizione dell’art. 572 c.p.p., a norma del quale sia la parte civile che la persona offesa non costituita parte civile – oltre che gli enti e le associazioni intervenuti ai sensi degli artt. 93 e 94 stesso codice – possono proporre al pubblico ministero richiesta motivata di impugnazione ad ogni effetto penale.

Se il Giudice quindi decide in violazione del diritto della persona offesa di intervenire prospettando fatti e argomenti meritevoli di considerazione ai fini della decisione sulla richiesta di revoca o di sostituzione della misura cautelare, il pubblico ministero, a tal fine sollecitato, può impugnare, con gli ordinari mezzi previsti dalla legge, l’ordinanza facendo valere, ora, l’inammissibilità della richiesta se non previamente notificata alla persona offesa, ora, eventuali carenze del merito decisorio rilevabili alla luce delle prospettazioni della memoria pretermessa.

Invece, per il caso in cui ritenga di non raccogliere la sollecitazione, deve spiegarne le ragioni con decreto motivato – come previsto dallo stesso art. 572 c.p.p. -, e in tal modo soddisfa l’esigenza, di cui anche le fonti sovranazionali dicono, che sia data contezza dell’effettivo esame del contributo della persona offesa.

Infine, si osservava conclusivamente che una più intensa protezione del diritto di intervento di quest’ultima non può che essere rimessa alla discrezionalità legislativa a cui spetta ogni valutazione in ordine alla sufficienza o meno di uno strumento di reazione alle violazioni procedimentali di cui la persona offesa non ha diretta disponibilità, dovendosi affidare necessariamente alla mediazione della parte pubblica.

Le Sezioni Unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, formulavano il seguente principio di diritto: “La persona offesa non è legittimata ad impugnare, neanche con il ricorso per cassazione, l’ordinanza che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, disponga la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole dall’art. 299, comma 3, c.p.p., ma può chiedere al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 572 c.p.p., di proporre impugnazione”.

4. Conclusioni

Nella decisione qui in esame, le Sezioni Unite, componendo un pregresso contrasto giurisprudenziale, affermano il principio di diritto secondo cui la persona offesa non è legittimata ad impugnare, neanche con il ricorso per cassazione, l’ordinanza che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, disponga la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole dall’art. 299, comma 3, c.p.p., ma può chiedere al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 572 c.p.p., di proporre impugnazione.

Di conseguenza, alla stregua di tale arresto giurisprudenziale, è inammissibile, per la persona offesa, impugnare l’ordinanza che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, disponga la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole dall’art. 299, comma 3, c.p.p., mentre le è consentito chiedere al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 572 c.p.p., di proporre impugnazione.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta sia emesso un provvedimento di questo genere.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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