Le poli-tossicomanie nella criminologia svizzera

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Droghe e (pre)giudizi sociali.

 

Giuristi, Medici, paramedici ed assistenti sociali, anche in Svizzera, valutano sovente il tossicomane sulla base di inutili pregiudizi ed è raro che un Operatore del Diritto o della Medicina si affranchi totalmente da Teorie troppo rigide e fondate su pericolose dis-percezioni sociali. Il poli-tossicodipendente dovrebbe piuttosto essere giudicato, difeso e curato in conformità a parametri assolutamente e completamente tecnici e scientifici, in tanto in quanto ciascun soggetto costituisce un caso singolo, con aspetti negativi ed aspetti positivi personali ed irripetibili. Il criminologo reca il dovere professionale di << costruire una visione critica della dinamica sganciata dalle rappresentazioni sociali e connessa alla soggettività di ciascun individuo [ deviante ] >> (CARROLL 1995). Uscire dall’immagine populista del “ negro drogato, sporco, violento e delinquente “ è importante per un Giurista, per un Criminologo e per un Medico Forense, giacché << le rappresentazioni sociali negative finiscono per avere un influsso sulla stigmatizzazione dei tossicomani e mettono un freno alla loro ri-socializzazione >> (MERTON 1997).

Secondo la maggior parte dei Dottrinari della Criminologia elvetica, il primo problema da affrontare consta nel binomio << tossicodipendente – società >>, ovverosia nel difficile rapporto di incontro-scontro tra il deviante e la realtà quotidiana, dalla quale l’individuo cerca di fuggire rifugiandosi nel fasullo conforto chimico-biologico procurato dall’alcool e dalle altre sostanze d’abuso. Colui o colei che decide di entrare in contatto con le droghe possiede valori erronei, nel senso che mette in atto comportamenti distaccati dalla realtà oggettiva (LEYENS & YZERBYT 2002). Il tossicomane non è moralmente desertificato, bensì qualifica male il modo di vivere di tutti i giorni e la conseguenza è un’auto-esclusione dalla società normo-dotata. Secondo il parere di LEYENS & YZERBYT (ibidem), << il comportamento possiede tre componenti: quella cognitiva, quella affettiva e quella comportamentale … La tossicomania genera dei comportamenti negativi che toccano valori profondi come l’auto-controllo, l’integrità del proprio corpo e la normalità >>. Specularmente, anche i Giuristi sviluppano una qualificazione negativa (rectius. troppo negativa) che aggrava ancor di più lo stato di emarginazione e di isolamento affliggente i consumatori di sostanze illecite o semi-illecite, come i vini, le birre e i liquori (McLAUGHLIN & LONG 1996).

Sotto il profilo comportamentale, il tossicodipendente ha reazioni corporee, movimenti, ideazioni, parole che, come nel caso di ogni individuo, sono << acquisiti o ereditari / coscienti o istintivi / volontari o involontari / automatici o controllati >> (LEYENS & YZERBYT, idem). Ciò premesso, se è vero, come è vero, che << il comportamento è uno strumento di comunicazione >> (THALMANN 2002), ne consegue che l’anti-socialità del drogato provoca diffidenza, il suo isolamento provoca rifiuto, la sua devianza provoca l’intervento retribuzionista del Diritto ed il suo mancato rispetto per le comuni regole sociali provoca l’adizione delle Autorità costituite. Detto con altri lemmi, la negatività valoriale del tossicomane aumenta le reazioni collettive altrettanto negative, come chiamare senza riflettere la Polizia, utilizzare mezzi punitivi quali il carcere e predisporre luoghi tipici come l’ospedale e / o le comunità di recupero semi-detentive. Con espressioni troppo rigide, i seguaci di Durkheim, nel Novecento, parlavano di << rappresentazioni collettive [ della droga ] che sono il senso comune, i modi di pensare in pratica, i modi di comunicare, di comprendere, di saper inquadrare i fenomeni sociali, materiali e ideali >> (JODELET 1997). Svariati decenni fa, MOSCOVICI (1961), pur psicologizzando eccessivamente i fenomeni sociali, ammetteva che un deviante che abusa di sostanze psicotrope si lascia giudicare e viene giudicato in modo negativo nella misura in cui la società intera giudica le tossicodipendenze. In effetti, nella Criminologia degli Anni Duemila, la diffusione giovanile ormai nazional-popolare delle << droghe da discoteca >> ha attenuato e ridotto i pregiudizi, alla luce della crescita esponenziale del numero di assuntori reputati << normali >> dalle famiglie, dal mondo scolastico e da quello lavorativo. E’inevitabile che il tossicodipendente venga valutato male o meno bene, poiché << le rappresentazioni sociali fanno parte integrante della visione di ciascuno. Esse consentono una facilitazione nella comprensione del mondo. Le rappresentazioni sociali agevolano un adattamento più rapido e creano un sistema meno complicato per l’identificazione ed il trattamento [ del tossicomane ] >> (GOFFMAN 1973) In qualunque società, il tossicodipendente non sarà mai apprezzato nei propri lati positivi, perché egli, benché deviante, rimane pur sempre un consociato, anche se si è auto-escluso dal mondo del lavoro e dal mondo delle ordinarie relazioni affettive familiari. Il drogato e l’alcoolista acuto recano sempre e comunque << una facciata sociale che tende ad istituzionalizzarsi. La facciata diviene una rappresentazione collettiva e un fatto oggettivo >> (GOFFMAN, ibidem). Al Giurista ed al Criminologo spetta il difficile compito di fornire << giudizi >> anziché << pregiudizi >>, quindi di oggettivizzare anziché soggettivizzare il problema delle sostanze d’abuso.

 

Criminologia elvetica e sostanze d’abuso.

 

Nella Criminologia svizzera non esiste una definizione autentica del lemma << droga >>. E’a-tecnico parlare di sostanze << psicoattive >>, in tanto in quanto esistono anche effetti psicotropi, stupefacenti ed allucinatori. Senz’altro, ogni sostanza, persino un innocente caffè, stimola il sistema nervoso centrale, provocando una reazione chimica euforizzante o ansiolitica. La nicotina e la caffeina costituiscono principi attivi deboli e perfettamente leciti, mentre le bevande alcooliche, i farmaci psicoattivi ed il THC sono oggetto di severe limitazioni. Dagli Anni Duemila, la Giurisprudenza del Tribunale Penale Federale ha cessato di qualificare la cannabis come << droga leggera >>, in tanto in quanto, sotto il profilo medico-forense, il THC, nel lungo periodo, provoca danni devastanti al cervello. Altrettanto giusto ed opportuno è il proibizionismo giuridico e criminologico nei confronti delle << droghe pesanti >>, come l’acido lisergico, le amfetamine, l’ecstasy, il GHB, gli oppiacei (morfina ed eroina) e la cocaina. Purtroppo, sino agli Anni Novanta del Novecento, anche il Bundesgericht svizzero aveva commesso il grave errore di definire <<leggere >> alcune sostanze, il che rappresenta un grave fraintendimento, come successivamente dimostrato dalla Medicina tossicologica. La legalizzazione e l’anti-proibizionismo, a parere della maggior parte dei Dottrinari, costituisce un colossale non-senso, giacché il proibizionismo rimane oggi la via più auspicabile e più ragionevole, anche nei confronti dell’apparentemente innocua canapa c.d. <<spaccatesta>> coltivata con sofisticate tecniche indoor. Con lodevole lungimiranza, CABALLERO (1989) sottolineava che << la distinzione tra droghe dolci e droghe dure non è riconosciuta nemmeno dal Diritto Internazionale >> e, del pari, non v’è motivo di reputare innocue le sostanze di origine vegetale. Nessuna tolleranza e nessuna legalizzazione è ammissibile. P.e., nel 1999, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato come << pericolose >> le bevande alcooliche. Siffatto asserto è dimostrato dai contesti poli-tossicomaniacali. Basti pensare al dramma degli incidenti stradali mortali giovanili registrabili nelle notti tra il Sabato e al Domenica. La posizione categorica e salutistica di chi redige è confermata da ROBINSON & BERRIDGE (2002), i quali definiscono << erronea >> la presunta inoffensività del THC, delle Benzodiazepine e di tutte le cc.dd. << droghe leggere >>, aventi effetti distruttivi sull’equilibrio ordinario della dopamina e della serotonina. Nel lungo periodo, nulla è innocuo, nemmeno il tabacco, pur se oggi non è politicamente corretto opporsi all’uso di preparati leciti o semi-leciti, come i super-alcoolici, le birre e gli aperitivi. Nel 2009, il DSM IV definiva la tossicodipendenza come << uno stato di intossicazione cronica periodica provocata dal consumo ripetuto di una droga naturale o sintetica >>. Il tossicomane, una volta uncinato, incentra il proprio vivere quotidiano sulla sostanza e in vista della sostanza, nei confronti della quale egli manifesta una dipendenza psico-fisica difficilmente reversibile. La Polizia Federale elvetica e l’Ufficio Federale di Statistica di Neuchatel hanno censito, attualmente, più di 400.000 individui affetti da tossicodipendenza acuta in tutta la Svizzera. Con grande amarezza, LOWENSTEIN & TAROT & PHAN & SIMON (2005) hanno affermato che << paradossalmente, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche sulla materia ha reso la tossicomania più familiare agli occhi del grande pubblico, ma non ha ridotto i pregiudizi concernenti le persone dipendenti dalle droghe. Essi vanno inesorabilmente incontro ad un’esclusione dalla società >>

Da circa una ventina d’anni, nella Criminologia elvetica, e non solo elvetica, si parla di poli-tossicomanie, in tanto in quanto, a differenza di quanto accadeva nella prima metà del Novecento, gli assuntori odierni consumano simultaneamente più di un principio attivo, auto-provocando vere e proprie catastrofi sanitarie di matrice corporale e mentale. L’eroinomane degli anni Duemila, infatti, è spesso anche cocainomane. Dopodiché, il momento << down >> viene edulcorato con notevoli quantità di Benzodiazepine, unite, a loro volta, alle bevande alcooliche ed alla cannabis. LOWENSTEIN & GOURARIER & COPPEL & LEBEAU & HEFEZ (1995) hanno rilevato che << l’uso disfunzionale cronico tange principalmente la popolazione dei vecchi consumatori di eroina e di cocaina. Essi non provano più piacere perché hanno sviluppato una tolleranza alle sostanze troppo elevata. Per cui, cercano nelle Benzodiazepine una sensazione più stimolante. Oppure, presso gli adolescenti, si assiste ad un consumo mescolato di sostanze psico-attive, come Benzodiazepine, amfetamine, allucinogeni, alcool, cannabis, colla e solventi chimici >>.

 

L’interpretazione criminologica delle (poli)tossicodipendenze.

 

Una prima griglia interpretativa in tema di droghe ed alcoolismo è l’<< interazionismo simbolico >>, nato nella Criminologia statunitense degli Anni Trenta del Novecento. In una prima fase, gli interazionisti psico-analizzavano la percezione interiore della realtà circostante, mentre, in una seconda fase successiva, si intendeva rimarcare che ogni esegesi individuale è necessariamente congiunta al pensiero collettivo predominante. Gli interazionisti più vicini all’epoca odierna (DE QUIEROS & ZIOLKOWSKI 1994) hanno sostenuto che anche il tossicodipendente possiede regole personali, giuste o sbagliate che siano, per interpretare la realtà esterna. In secondo luogo, chi usa droghe pensa ed agisce interagendo con gli altri consociati. In terzo luogo, chi vive interpreta, ma interpreta adattando senza sosta il proprio pensiero, che è dinamico e non statico, poiché dipende dalle manifestazioni mutevoli della realtà e/o dei soggetti. Ne consegue, in buona sostanza, che il tossico possiede una propria logica, benché le sue ideazioni siano anti-sociali ed anti-giuridiche. Il nodo pedagogico, dunque, è aiutare il tossicomane a valutare se stesso e gli altri più concretamente, anziché estraniandosi dal reale e dall’oggettivo attraverso gli effetti dispercettivi delle varie droghe, legali e non.

MERTON (1997) è più pragmatico ed afferma che << la previsione originaria comincia con una qualificazione falsa della situazione, ma poi si genera un nuovo comportamento che rende veritiero il concetto personale >>. MERTON (ibidem) ed i propri seguaci degli Anni Sessanta del Novecento, intendono dire, in ultima analisi, che il tossicodipendente, all’inizio, valuta erroneamente il mondo esterno, ma la propria ri-socializzazione comincia quando egli ammette i propri errori e sviluppa altre modalità valutative corrette, ma senza l’intervento di un Operatore sociale, di un Educatore oppure di un Familiare, chi utilizza sostanze d’abuso non riuscirà mai a liberarsi da disvalori malsani auto-lesivi ed anti-giuridici. Il Pedagogo (al limite il Genitore) deve accompagnare il tossico verso una via d’uscita che lo ricolleghi alla realtà esterna e che lo riappacifichi con la collettività. Quest’ultima, a sua volta, ha il dovere, troppo dimenticato, di essere inclusiva e libera da pregiudizi per poter accogliere l’ex assuntore una volta disintossicato.

TROUILLOUD & SARRAZIN (2003) nonché PONSAR & VIBERT (2003), nel solco delle Teorie pedagogiche novecentesche di Rosenthal, hanno sperimentalmente dimostrato che l’educazione (rectius: la ri-educazione) dipende non soltanto dalle capacità personali del tossicomane, ma anche dalla fiducia collettiva e dalle attese sociali create intorno al deviante utilizzatore di sostanze d’abuso. Se i consociati e gli educatori inculcano nel tossico un senso di inferiorità, egli sarà demotivato e non realizzerà alcun progresso. Nella Pedagogia, è indispensabile l’elemento dell’(auto) motivazione interiore, nel senso che un soggetto travolto da pregiudizi e disprezzo manifesterà una bassa auto-stima e non raggiungerà la meta prefissata. L’uso di droghe ed alcool dev’essere socialmente e criminologicamente percepito come reversibile. All’opposto, il tossicodipendente si adatterà ai pregiudizi sociali e non si sforzerà. La ri-educazione del deviante presuppone un duplice impegno: quello dell’educando, ma, specularmente, quello dei Pedagoghi e degli Operatori sociali, che recano l’onere professionale di incentivare il recupero dell’anti-socialità e dell’anti-giuridicità. Questo presupposto, del resto, vale anche nell’ambito dell’esecuzione penitenziaria.

Pure GOFFMAN (1973) reputa devastante, sotto il profilo rieducativo, creare bassa autostima nel deviante tossicodipendente, in tanto in quanto le rappresentazioni sociali condizionano poi l’impegno o, viceversa, il non impegno dell’individuo border line. GOFFMAN (ibidem) afferma che << la stigmatizzazione è un’alterazione che crea un profondo discredito. Una persona stigmatizzata non è più un essere umano. Questa rappresentazione induce la società a rigettare l’individuo stigmatizzato, che diventa inferiore agli altri. Questo meccanismo di pensiero – assimilabile ad un meccanismo di difesa – è appellabile come “ ideologia delle stigmate “ >>. Nel corso della propria produzione dottrinaria criminologica, GOFFMAN (1975) distingue, ai fini del recupero del tossicomane, tra << identità virtuale >> ed << identità reale >>, ovverosia << l’identità virtuale è costruita dal giudizio della società sull’individuo. Viceversa, l’identità reale è forgiata dall’idea che l’individuo si forma da se stesso in funzione delle proprie qualità e delle proprie capacità effettive. Sussiste il rischio di una stigmatizzazione allorquando l’individuo interiorizza e fa propria un’identità virtuale negativa, identità alla quale egli si adatta anziché far emergere la propria identità reale >>. GOFMANN (1973; 1975) individua almeno tre fonti di stigmatizzazione: le disabilità corporee, gli handicaps mentali e le << stigmate tribali >>, come l’origine sociale, il colore della pelle, la religione professata e lo stato sociale di appartenenza. Alcuni seguaci di GOFFMAN (ibidem; ibidem), verso la fine degli Anni Ottanta del Novecento, hanno parlato di una << quarta stigmata >>, ossia l’AIDS, che portava e porta all’esclusione dalla collettività degli eroinomani infettati a causa dello scambio di siringhe. Ognimmodo, al tossicodipendente sono sempre attribuite tre deficienze: quelle fisiche, quelle mentali e quelle sociali. Anzi, giustamente BOVET & RABOUD (2004) sottolineano che l’alcoolista ed il drogato recano una vera e propria disabilità che potremmo definire estetica e comportamentale, in tanto in quanto essi sono soliti vivere malvestiti ai margini delle strade, delle piazze, delle stazioni ferroviarie, non si lavano, hanno necrosi, croste, ematomi, barba lunga. Inoltre, il tossicodipendente è socialmente stigmatizzato perché percepito come incline al furto ed allo scippo, violento, stupratore, pericoloso e portatore di malattie ed infezioni contagiose. Secondo LACAZE (2006), nel caso del deviante che abusa di sostanze illecite o semi-lecite, << la stigmatizzazione psichiatrica è quella più grave. Esiste una reazione pubblica negativa nei confronti delle persone che soffrono di turbe mentali >>. In effetti, non manca, soprattutto nel neo-retribuzionismo statunitense e nel populismo criminologico, chi reputa inguaribile l’assuntore di alcool e di stupefacenti, il quale viene considerato come un rifiuto sociale per metà patologico e per metà consapevolmente reo di crimini anti-sociali e violenti. Assai simile ed interessante è pure la <<labelling theory >> [ teoria dell’etichettamento ], secondo la quale le Istituzioni, massimamente il carcere e la Polizia, identificano il tossicodipendente con un marchio psico-patologico-forense che lo priva di qualsivoglia futura possibilità di riscatto sociale e sanitario. L’uso di droghe viene assolutizzato e si trasforma in un imperdonabile oltraggio alla vita normodotata, ma l’aspetto più grave consiste nel chiudere e negare ogni possibile via d’uscita, non soltanto etichettando il deviante, ma anche condannandolo ad inutili pene detentive, intese come annullamento tanto fisico quanto etico.

 

Conclusioni e prospettive future.

 

In tutta onestà, i tossicodipendenti godono di pessima fama in Occidente. Essi sono stati definiti, in uno Studio condotto nell’Irlanda del Nord, << astuti e manipolatori >> e non è facile per nessun Criminologo approcciare un tossico e trovare soluzioni idonee (McLAUGHLIN & McKENNA & LESLIE & MOORE & ROBINSON 2006). In California, HENDERSON & STACEY & DOHAN (2008) hanno intervistato più di 300 Operatori socio-sanitari. Ne è emerso un quadro desolante e, anzi, preoccupante. Chi fa uso cronico di droghe è troppo lassista con se stesso, non collabora con il Personale, è aggressivo, si lamenta di tutto e di tutti, non si contiene il più possibile nell’astinenza e simula spesso il pianto per ottenere i farmaci sostitutivi che più gradisce. Dunque, la cura della tossicomania non è certo un’allegra passeggiata professionale e, per conseguenza, anche la Criminologia presenta dubbi, lacune e difficoltà pratiche. FORD & BAMMER & BECKER (2008) confermano, in tutto il mondo anglofono contemporaneo, che capire e curare un tossicomane può recare nella trappola di credere a veri e propri mentitori patologici, che assumono alcool e/o stupefacenti per fini voluttuari e che non sono sinceri nemmeno quando l’esperienza del carcere li costringe a far finta di voler disintossicarsi per uscire e riprendere di nuovo una vita disordinata. Alcuni Autori statunitensi ed australiani sono giunti al punto di affermare che il trattamento di una patologia mentale è preferibile al contatto con chi usa sostanze d’abuso.

Malaugurevolmente, HENDERSON & STACEY & DOHAN (2008) sono costretti a concludere il loro Censimento criminologico asserendo che << l’arrivo di una persona tossicodipendente in un servizio di cura causa gravi lacune nella comunicazione e nell’individuazione dei reali problemi del paziente. I dati mostrano che una gran parte delle decisioni mediche è influenzata dal giudizio sociale sfavorevole dei professionisti>>. Si assiste ad un vero e proprio rigetto socio-lavorativo di chi fa uso cronico di droghe e di bevande alcooliche, giacché i problemi connessi alle poli-tossicomanie risultano mal gestibili a causa della demotivazione nonché della scarsa collaborazione manifestata dal tossicomane. Nelle civiltà anglo-americane (FORD & BAMMER & BECKER 2008 nonché McLAUGHLIN & McKENNA & LESLIE & MOORE & ROBINSON 2006) la quasi totalità degli Operatori auspica che chi assume sostanze d’abuso trovi specialisti a pagamento per cure extra-ospedaliere. In alcuni casi, la stigmatizzazione è elevata e diffusa al punto che viene rifiutato il ricovero, tranne nel caso estremo di overdose o di pericoli fisici irreversibili. Tuttavia, le Ricerche criminologiche americane, australiane ed irlandesi sottolineano che il tossico, più che essere emarginato, si auto-emargina da se stesso, in tanto in quanto egli è privo di auto-controllo e di una volontà di curarsi autenticamente sincera. Nel 2007, sono reperibili soltanto un paio di Studi anglofoni nei quali si sostiene che più aumenta la preparazione tecnica e l’esperienza del Personale, più il deviante poli-tossicomanico è o, meglio, sarebbe accettato con tutti i suoi innumerevoli e complicati problemi comportamentali e sanitari. Comunque, i tossicodipendenti maggiormente intrattabili e refrattari alle terapie sono, in genere, quelli che fanno uso di oppiacei iniettati per via endovenosa.

Una piaga da estirpare è senz’altro la scarsa preparazione tecnica dei medici e degli assistenti sociali, che sono privi di una specializzazione tanto teorica e culturale quanto pratica e fattuale. I maggiori ostacoli si trovano nell’approccio degli eroinomani reclusi. In tal caso, il carcere, unito alla eroinomania, crea situazioni orribili, all’interno delle quali si crea una vera e propria ripugnanza professionale verso chi consuma droghe. AHERN & STUBER & GALEA (2007) sottolineano che << nella vita di tutti i giorni, le persone tossicodipendenti ricevono molte discriminazioni dovute alla stigmatizzazione. Il 16 % di loro non ha accesso ad un alloggio, il 24 % ha ricevuto un salario ridotto dopo l’ospedalizzazione, il 6 % ha perso il lavoro, il 37 % sente che chi sta intorno non si fida … la gente li crede pericolosi, li considera cattivi, non degni di confidenza >>. La poli-tossicomania genera nel deviante una notevole tendenza a mentire per essere meno escluso, soprattutto a livello di vita lavorativa. L’isolamento sociale è inevitabile e questo crea nel tossico rabbia, ansia, sensi di colpa e, specialmente, gravi forme di depressione che richiedono ulteriori e pesanti cure farmacologiche

 

 

B   I   B   L   I   O   G   R   A   F   I   A

 

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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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