L’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo

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(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: D.lgs. n. 159/2011, art. 80)

Il fatto

Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 12 gennaio 2018 rigettava l’istanza di riesame, proposta nell’interesse di L. S., avverso il decreto emesso il 20 novembre 2017, con il quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo, ai fini della confisca diretta, del 50% di un immobile ubicato in Bologna e, ai fini della confisca di valore, di somme di denaro depositate su conti correnti, di beni immobili e quote societarie fino alla concorrenza dell’importo di oltre 391.000 euro, il tutto riconducibile allo S., indagato del reato di cui all’art. 76, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 (condotta già prevista come reato dall’art. 31, legge n. 646 del 1982), per inottemperanza all’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, gravante su soggetto destinatario di un provvedimento di prevenzione definitivo come previsto dal successivo articolo 80 del medesimo d.lgs. n. 159 (già art. 30, legge n. 646 del 1982).

I fatti oggetto di provvisoria incolpazione sarebbero avvenuti in dieci occasioni collocate entro un arco temporale compreso tra il 2012 e il 2017 (in particolare, il 21 ottobre 2012; 25 giugno 2012; 31 gennaio 2012; 31 gennaio 2013; 31 gennaio 2014; 31 gennaio 2015; 31 gennaio 2016; 9 luglio 2016; 31 gennaio 2017) e correlate ad operazioni economiche poste in essere dallo S. e soggette, secondo l’ipotesi accusatoria, all’obbligo di comunicazione stante l’applicazione nei suoi confronti della misura di prevenzione personale con qualificazione di pericolosità semplice (ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, con riferimento alla categoria dei soggetti dediti a traffici delittuosi), divenuta definitiva il 4 luglio 2008 a seguito di sentenza n. 31931/2008, emessa dalla Prima Sezione penale della Corte di Cassazione ed avendo egli provveduto a dare tardivamente comunicazione, il 27 febbraio 2017, di una soltanto di tali operazioni, effettuata il 9 giugno 2016.

Nell’ordinanza impugnata i giudici del riesame evidenziavano, in primo luogo, che, sebbene l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 30 legge n. 646 del 1982 fosse vigente soltanto per prevenuti indiziati di appartenere a organizzazioni mafiose quando il decreto di assoggettamento dello S. alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale era divenuto definitivo nondimeno egli aveva commesso il delitto di cui si discute poiché, quando avevano avuto luogo le transazioni ‘incriminate‘, pure lui era stato assoggettato a tale obbligo, così aderendosi a quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale, con riferimento ad analoga questione (Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, omissis, Rv. 264137), aveva specificato che l’introduzione, ad opera della legge n. 136 del 2010, di ulteriori reati da cui deriva l’obbligo, determina la vigenza del medesimo (e della conseguente responsabilità in caso di violazione) anche in ipotesi di condanna divenuta definitiva prima della modifica legislativa a condizione, però, che i beni siano entrati nel patrimonio del soggetto in data successiva.

Il Tribunale, applicando il principio al caso sottoposto al suo esame, collegava quindi temporalmente l’introduzione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali alla vigenza della legge n. 136 del 13 agosto 2010 (posteriore alla definitività della misura di prevenzione) con la quale venne innovato il testo dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 ripristinando l’applicabilità della «clausola estensiva generale» di cui all’art. 19 della legge n. 152 del 22 maggio 1975 volta ad assoggettare a tale obbligo tutti i destinatari di misure di prevenzione personali.

Conseguentemente, osservavano i giudici del riesame, a far data dal 2010, tali disposizioni erano produttive di effetti anche nei confronti dell’indagato.

In secondo luogo, l’ordinanza del Tribunale escludeva la dedotta carenza dell’elemento soggettivo del dolo, ovvero la sussistenza di una condizione di ignoranza inevitabile della legge penale così come individuata dall’art. 5 cod. pen. a seguito della sentenza 364/1988 della Corte costituzionale e ciò in quanto veniva ravvisata, al momento della conclusione delle transazioni incriminate, la violazione di un obbligo di doverosa informazione circa le conseguenze dei suoi trascorsi giudiziari considerando, altresì, che, per la configurabilità del reato contestato, è richiesto il dolo generico rispetto al quale risulta ininfluente la tardiva, parziale comunicazione giustificata dal fatto di essere venuto a conoscenza, attraverso la stampa, di analogo provvedimento di sequestro emesso in danno di altra persona unitamente alla quale era stato imputato per i fatti che avevano dato poi luogo all’applicazione della misura di prevenzione.

Osservava infine il Tribunale, quanto alla inoffensività della condotta, pure oggetto di deduzione difensiva, che una tale evenienza avrebbe potuto ravvisarsi solo nel caso in cui, non verificatosi nella fattispecie, il Nucleo di Polizia Tributaria, entro i termini previsti per l’effettuazione delle comunicazioni delle variazioni patrimoniali, fosse comunque venuto a conoscenza delle transazioni riferibili all’indagato.

Volume

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale pronuncia G. S. proponeva ricorso per cassazione, tramite i propri difensori di fiducia, Avv. M. L. e Avv. R. B., articolando le doglianze in quattro distinti motivi cosi strutturati: 1) violazione di legge e assenza di motivazione, quanto alla riconosciuta sussistenza del fumus del reato oggetto di provvisoria incolpazione, con riferimento all’elemento psicologico, stante il fatto che il Tribunale non avrebbe considerato i contenuti della documentazione prodotta in udienza dalla quale sarebbe emerso che le diverse transazioni, comunque tracciabili, sarebbero state effettuate senza alcuna finalità elusiva con la conseguenza che l’omissione di tale dovuta disamina avrebbe determinato la mera apparenza della motivazione specie in rapporto alla particolare fattispecie incriminatrice – di natura formale e di pura creazione legislativa – posta a base del provvedimento di sequestro; inoltre, a sostegno della fondatezza di siffatta doglianza, si richiamava la lettura della disposizione incriminatrice offerta dalla giurisprudenza di legittimità con la quale viene posto in evidenza come la natura di reato omissivo di pura creazione legislativa della fattispecie incriminatrice, storicamente riferita a specifici destinatari, quali gli indiziati di appartenenza ad organizzazioni mafiose e solo in un secondo tempo esteso ai destinatari di misure di prevenzione in quanto tali, richieda una approfondita verifica dell’elemento psicologico la cui sussistenza avrebbe dovuto essere esclusa, nel caso specifico, in ragione della tardiva comunicazione conseguente alla conoscenza di vicenda analoga, indicativa, quanto alle precedenti condotte, dell’assenza di consapevolezza e volontà di violare il precetto penale; 2) assenza di motivazione e violazione di legge in tema di inescusabilità dell’ignoranza del precetto penale osservandosi a tal riguardo come l’estensione, ai soggetti destinatari di misure di prevenzione per pericolosità non mafiosa, degli obblighi di comunicazione delle variazione patrimoniali introdotti dalla legge n. 646 del 1982, fosse conseguenza di plurimi e complessi interventi normativi e come lo stesso Tribunale avesse, nel suo caso, espressamente riconosciuto che tale obbligo non era vigente quando la misura di prevenzione applicatagli era divenuta definitiva pervenendo tuttavia all’attribuzione di un onere di informazione che riversa sul destinatario di una misura di prevenzione per pericolosità generica un dovere irragionevole finalizzato al superamento della condizione di assoluta oscurità della disposizione incriminatrice; oltre a ciò, si assumeva che i giudici del riesame, ragionando in termini del tutto astratti e senza considerare la particolarità del caso, non avrebbero osservato le fondamentali indicazioni fornite dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale in tema di ignoranza della legge penale dal momento che, all’atto della sottoposizione alla misura di prevenzione, il ricorrente non era stato posto a conoscenza dell’obbligo e che questi, secondo quanto ritenuto dal Tribunale, avrebbe dovuto assolvere all’onere di informazione dopo la cessazione della misura della sorveglianza speciale; 3) violazione dell’art. 2 cod. pen. in relazione alla ritenuta applicabilità, nel caso di specie, degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 dato che il Tribunale avrebbe seguito, in maniera del tutto assertiva, un orientamento sulla individuazione del periodo di vigenza della norma incriminatrice che non può, però, ritenersi pacifico, in quanto confutato da una sentenza della Cassazione (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, omissis, Rv. 256137) rilevandosi al contempo che, tenuto conto di quanto affermato dalla citata pronuncia, dovrebbe considerarsi che egli è stato destinatario della misura di prevenzione nel dicembre 2006 e che essa era cessata di diritto al termine della sua durata biennale, in epoca quindi antecedente all’entrata in vigore sia della legge n. 136 del 2010 che del d.lgs. n. 159 del 2011 e che, ricorrendo, dunque, le condizioni dell’art. 30, il «termine di dieci anni», il quale decorre, nella vicenda in esame, dal decreto del Tribunale (2006) ovvero dalla sua irrevocabilità (2008), è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria in quanto integra e delimita l’ambito temporale “di sospetto e di attenzione” che il legislatore, nella sua discrezionalità tecnica, ha voluto precisare e definire, in funzione di un controllo pluriennale sulle variazioni di rilievo, nell’entità e nella composizione del patrimonio, soltanto di una cerchia determinata di persone di cui egli non faceva parte nei periodi indicati; tal che se ne faceva conseguire che l’applicazione retroattiva, da parte del Tribunale, in violazione del generale divieto di retroattività delle norme incriminatrici, di una tale disposizione non vigente né all’atto della definitività della decisione sulla misura di prevenzione (2008) né, tanto meno, al momento della sottoposizione, successiva alla decisione di primo grado (2006), avrebbe comportato la violazione del canone della prevedibilità delle conseguenze sfavorevoli di una condotta; 4) mancanza di motivazione e violazione di legge sotto il profilo della concreta offensività della condotta in quanto, richiamandosi quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 99 del 2017, la quale promuove la valorizzazione – nel momento applicativo – del canone interpretativo della concreta offensività della condotta omissiva, si sosteneva come la comunicazione del febbraio del 2017, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, fosse del tutto idonea a consentire l’esercizio dei poteri di controllo sulle variazioni patrimoniali, di fatto eliminando l’offensività delle condotte antecedenti.

Sul punto:”Misure di prevenzione: la Corte Costituzionale ne dichiara l’illegittimità parziale”

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

Posto che il ricorso veniva assegnato alla Prima Sezione penale la quale, rilevata la sussistenza di un contrasto interpretativo, lo rimetteva alle Sezioni Unite, va osservato che la Sezione rimettente aveva posto in luce la sussistenza di due differenti linee interpretative di cui la prima delle quali (sostenuta da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, omissis, Rv. 256137) evidenzia come il presupposto che determina l’insorgenza dell’obbligo di comunicazione della variazione patrimoniale e, cioè, la definitività della “decisione fonte“, debba necessariamente verificarsi dopo l’entrata in vigore della disposizione che amplia la fattispecie incriminatrice determinandosi, in caso contrario, la violazione del generale divieto di retroattività delle norme incriminatrici di cui all’art. 25, comma 2, Cost., mentre la seconda ritiene detto obbligo sussistente e penalmente rilevante anche qualora la condanna definitiva per il nuovo delitto presupposto sia antecedente alla modifica legislativa e sempreché i beni siano entrati nel patrimonio del soggetto in data successiva (si indicavano, come orientate in tal senso, Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, omissis, Rv. 253538; Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, omissis, Rv. 264137).

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite rilevavano prima di tutto come la questione di diritto per la quale il ricorso era stato rimesso alle Sezioni fosse configurabile nei seguenti termini: “se l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applichi anche quando il provvedimento che ha disposto la misura sia divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo“.

Premesso ciò, gli ermellini rilevavano come la soluzione della questione prospettata richiedesse la previa illustrazione delle disposizioni succedutesi nel tempo evidenziandosi a tal proposito che: a) nel caso in esame la misura di prevenzione era stata applicata in forza dell’art. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e che la legge 22 maggio 1975, n. 152, con l’art. 19, aveva esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956; b) l’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella sua originaria formulazione, stabiliva che le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall’articolo 416-bis cod. pen., sono tenuti a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad un certo importo (stabilendo, altresì, un obbligo di comunicazione entro il 31 gennaio per le variazioni intervenute nell’anno precedente concernenti elementi di valore non inferiore ad un determinato limite e con esclusione dei beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani); c) il termine decennale decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna mentre gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione; d) l’omessa comunicazione è sanzionata dall’art. 31 della stessa legge.

Posto ciò, i giudici di piazza Cavour facevano presente come l’ambito di operatività della disposizione fosse stato originariamente limitato ai soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso come si deduce dal fatto che il legislatore individua, quale soggetto destinatario delle comunicazioni concernenti le variazioni patrimoniali, il «nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575»; articolo questo che, dal canto suo, era stato introdotto dall’art. 14 della legge n. 646 del 1982 e faceva riferimento, nella sua prima stesura, alle «persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall’articolo 1» e, successivamente, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990, ai «soggetti indicati all’articolo 1 nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno» fermo restando che l’art. 1 riguardava a sua volta, originariamente, «gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» e tale generico richiamo veniva successivamente puntualizzato mediante un più dettagliato riferimento agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» (modifica apportata dalla legge n. 646 del 1982).

Si evidenziava però al contempo come le ulteriori successive modifiche a tale disposizione non rilevassero nel caso di specie in quanto la legge 19 marzo 1990, n. 55, con l’art. 11, ha sostituito il comma 1 dell’art. 30, legge n. 646 del 1982 indicando come soggette all’obbligo di comunicazione «le persone condannate con sentenza definitiva per il reato di cui all’articolo 416-bis del codice penale o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall’articolo 1 di tale legge» e di conseguenza, a quel tempo, detto obbligo veniva quindi chiaramente limitato, quanto ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione, a quelli raggiunti da un provvedimento definitivo, specificando, altresì, che la misura considerata è quella applicata agli indiziati di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso trattandosi per l’appunto di una puntualizzazione che aveva individuato espressamente quei soggetti, destinatari degli obblighi di comunicazione, che già l’originaria stesura dell’articolo 30 consentiva di determinare attraverso i richiami alle altre disposizioni menzionate in precedenza.

Proseguendo la disamina di questo excursus normativo, i giudici di legittimità ordinaria denotavano inoltre che un’ulteriore modifica del comma 1 dell’art. 30 fosse stata apportata dall’art. 7, comma 1, lett. b) della legge 13 agosto 2010 n. 136 prevedendo l’obbligo di comunicazione non soltanto per i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965, ma anche alle persone condannate, con sentenza definitiva, per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. ovvero per il delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.

Di conseguenza si osservava che, estendendone l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 30 veniva dunque adeguato ai contenuti del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e della legge 15 luglio 2009, n. 94, che avevano ampliato il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione apportando modifiche all’art. 1 della legge n. 575 del 1965 fermo restando che la stessa legge n. 136 del 2010 conferiva anche una delega al Governo per l’emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione cui veniva data attuazione mediante il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 che, a sua volta, aveva abrogato, con l’art. 120, le leggi n. 1423 del 1956 e 575 del 1965, lasciando intatta la legge n. 646 del 1982 (fatta eccezione per l’art. 16), e ciò in ragione del fatto che l’art. 80 del citato decreto legislativo ha fatto salvo quanto già previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982 stabilendo che «le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria (ora nucleo di polizia economico finanziaria ai sensi dell’art. 35, comma 8, lett. a), d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, n.d.r.) del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata».

Chiarito ciò, si sottolineava che se le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo sono stabilite dall’art. 76, comma 7 del medesimo decreto, l’introduzione del menzionato art. 80 ha determinato però uno scorporo dell’originaria fattispecie la quale, per ciò che concerne i soggetti sottoposti a misura di prevenzione, è stata trasfusa nel decreto legislativo (artt. 80 e 76, comma 7) restando invece intatta negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 relativamente ai soggetti condannati con sentenza definitiva.

Dalla disamina delle richiamate disposizioni se ne faceva discendere, dunque, che, fino all’intervento modificativo apportato dalla legge n. 136 del 2010 (entrata in vigore il 7 settembre 2010), l’ambito di operatività dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 era limitato ai soli soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e solo successivamente era stata estesa agli altri soggetti.

Si precisava a tale proposito come, nell’ordinanza di rimessione, si affermasse, non condividendosi quanto sostenuto dal Tribunale di Bologna nel provvedimento impugnato, che l’intervento modificativo ad opera della legge n. 136 del 2010 – pur avendo accresciuto i «reati/fonte» a seguito dell’abolizione della precisazione, circa la correlazione tra imposizione dell’obbligo e indizio di appartenenza alla organizzazione mafiosa, apportata dal legislatore del 1990 – avrebbe lasciato comunque intatto il testo dell’articolo 30, vigente tra il 2010 e il 2011, il quale continuava a fare riferimento ai destinatari di misura di prevenzione applicata ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 con la conseguenza che ciò non avrebbe autorizzato una interpretazione ampliativa (pur agganciata alla riemersa vigenza, dopo il decreto legge 92 del 23 maggio 2008, del testo originario dell’art. 19 legge n. 152 del 1975 in tema di applicabilità ai pericolosi semplici di talune disposizioni della legge n. 575 del 1965) stante il generale principio di tassatività e la tecnica descrittiva del presupposto di incriminazione.

Si assumeva, in definitiva, che, per quanto riguarda le misure di prevenzione, l’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali sarebbe avvenuta nel 2011 con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 rilevandosi al contempo che, come suesposto anche prima, l’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 30 rispondeva ad un esigenza di adeguamento della norma all’incremento, operato dal c.d. pacchetto sicurezza, dei possibili destinatari delle misure di prevenzione poiché, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 10, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e dall’art. 2, comma 4, della legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 1 della legge 575/1965 stabiliva che le misure di prevenzione, disposte dalla medesima legge 575/1965, potessero essere applicate – oltre che agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso – anche ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e dall’art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 306/1992 (trasferimento fraudolento di valori) e dunque, con l’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, per effetto delle modifiche apportate, era stato realizzato uno stabile coordinamento tra le diverse disposizioni.

Detto questo, una volta considerata, nei termini appena visti, la successione delle varie modifiche che avevano interessato le richiamate disposizioni, la Suprema Corte reputava altresì necessario stimare i contenuti dei diversi orientamenti, segnalati dall’ordinanza di rimessione, circa l’incidenza dell’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali trattandosi di considerazioni che la giurisprudenza aveva espresso con riferimento all’incremento del novero dei reati per i quali è richiesta la condanna definitiva ma che, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, assumono rilievo anche riguardo al corrispondente ampliamento delle ipotesi in cui è possibile l’applicazione delle misure di prevenzione.

Chiarito ciò, si rilevava la sussistenza di un primo orientamento (espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, omissis, Rv. 256137) il quale ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 31 della legge n. 646 del 1982 nel caso in cui la condanna per il delitto presupposto (nella fattispecie, quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. 152/06, ora 452-quaterdecies cod. pen., introdotto ex novo dall’art. 7, comma primo, lett. b) della legge n. 136 del 2010) sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 136 ritenendo altresì non rilevante il fatto che i beni e le disponibilità oggetto dell’omessa comunicazione siano entrati nel patrimonio del condannato per il delitto presupposto in data successiva alla predetta normativa del 2010; in particolare, in questa decisione, si assumeva che, in presenza delle condizioni di cui all’art. 30 della legge n. 646 del 1982, il termine decennale, decorrente, nel caso esaminato in quell’occasione, dalla sentenza definitiva di condanna, è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria in quanto integra e delimita l’ambito temporale «di sospetto e di attenzione» che il legislatore ha individuato nella sua discrezionalità tecnica al fine di consentire un quadro dinamico ed aggiornato di controllo sulle variazioni patrimoniali, oltre un certo rilievo, soltanto di determinati soggetti (coloro i quali abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo delle violazioni del suindicato art. 30) con la conseguenza che esso deve essere accertato, nella sua sussistenza, al tempo dell’entrata in vigore della norma penale che stabilisce la sanzione (7 settembre 2010, data dalla quale la violazione dell’art. 260 d.lgs. 152/06 era stata inserita nel novero dei reati presupposto).

Da ciò se ne faceva discendere come fosse conseguentemente ritenuto contrastante con il disposto dell’art. 2 cod. pen. e dell’art. 25, comma secondo, Cost. il diverso orientamento, prospettato nel provvedimento poi annullato, ove veniva valorizzato il fatto che gli obblighi di comunicazione avrebbero dovuto comunque essere adempiuti dalla data di entrata in vigore della norma incriminatrice, tanto che, nella fattispecie, si erano considerati soltanto i movimenti patrimoniali successivi a tale data (anche Sez. 6, n. 6744 del 7/11/2013, dep. 2014, omissis, Rv 258991 qualifica l’art. 30 della legge 646/82 quale norma integratrice del precetto penale, ancorché la sanzione per la sua violazione sia contenuta nel successivo art. 31).

Un secondo indirizzo interpretativo pone, invece, in evidenza la natura di reato omissivo istantaneo del delitto in esame la cui consumazione deve essere collocata nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni delle variazioni patrimoniali vanno effettuate poiché ciò che rileva è la condotta omissiva di colui che, nel momento in cui non provvede alla comunicazione, si trovi nelle condizioni soggettive ed oggettive richieste dalla legge (Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, omissis, Rv. 253538. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, omissis, Rv. 264137, ove viene dato conto del diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 41113/2013) fermo restando che la natura di reato omissivo istantaneo della violazione in esame è stata d’altronde già affermata in precedenti occasioni (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 264164. V. anche Sez. 5, n. 3079 del 17/01/2005, omissis, Rv. 231417) e in uno specifico caso (Sez. 1, n. 2440 del 20/12/2007, dep. 2008, omissis, Rv. 239209), richiamandosi analoghe conclusioni cui si era pervenuti in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali (Sez. 1, n. 6850 del 04/12/1997, dep. 1998, omissis, Rv. 209538; Sez. 3, n. 3985 del 24/11/2000, dep. 2001, omissis, Rv. 218321).

Una volta illustrati questi due diversi indirizzi nomofilattici, la Cassazione osservava come la natura del reato in esame fosse stata presa in considerazione più volte dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che: I) è stato affermato che la legge 22 maggio 1975, n. 152 estendendo, con l’art. 19, l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956, ha operato una completa equiparazione tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi da cui traggono, almeno in parte, i mezzi di vita attraverso l’estensione a questi ultimi della disciplina introdotta per i primi (lo ricorda, in particolare, Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, omissis, Rv. 272311, richiamando i principi precedentemente espressi da Sez. 5, n. 38 del 12/01/1999, omissis, Rv. 212341; Sez. 1, n. 950 del 23/02/1994, omissis, Rv. 196838; Sez. 1, n. 5166 del 29/11/1993, dep. 1994, omissis, Rv. 196098); II) è stato chiarito (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, omissis, Rv. 256137) che la condotta sanzionata, concernente la violazione dell’obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali da parte di persone condannate per uno dei delitti indicati nell’art. 30, non costituisce una pena accessoria del reato presupposto stante la sua autonomia rispetto a quest’ultimo richiamandone la natura «sanzionatoria», ovvero «pregiudizievole», o ancora, configurabile alla stregua di una «conseguenza giuridica negativa», dell’imposizione di comunicare ogni variazione patrimoniale che consegue di diritto alla condanna per il delitto di associazione mafiosa e dall’altro che detto obbligo risponde ad esigenze di tutela e ad interessi del tutto analoghi a quelli posti a base dell’incriminazione cui è riferita la condanna a tale fine rilevante; III) è stato individuato il bene giuridico tutelato nell’ordine pubblico (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 264164; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, omissis, Rv. 234248; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, omissis, Rv. 220377); IV) è stato sostenuto, quanto all’elemento soggettivo del reato, (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, omissis, Rv. 264666) che il delitto in esame è integrato dal semplice dolo generico sicché non è richiesto che l’autore agisca allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l’obbligo imposto si riferisce (conf. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 269074; Sez. 5, n. 38098 del 29/5/2015, omissis, Rv. 264998; Sez. 6, n. 33590 del 15/6/2012, omissis, Rv. 253199; Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, omissis, Rv. 247570; Sez. 2, n. 27196 del 18/05/2010, omissis, Rv. 247842) rilevandosi a tal proposito come sia ormai consolidato l’orientamento secondo il quale il dolo non può escludersi in caso di variazioni patrimoniali documentate da atti pubblici (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003, omissis, Rv. 224379; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, omissis, Rv. 234248; Sez. 1, n. 12433 del 17/02/2009, omissis, Rv. 243486; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, omissis, Rv. 246398; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, omissis, Rv. 254387; Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, omissis, Rv. 256655) rispetto a quello che lo escludeva (Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, omissis, Rv. 221494; Sez. 6, n. 11398 del 05/02/2003, omissis, Rv. 224007) specificandosi, peraltro, che l’incertezza derivante da tali contrastanti arresti giurisprudenziali non consente di invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale poiché, al contrario, tale situazione deve indurre ad un atteggiamento più attento fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 269074. V. anche Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, omissis, Rv. 253200; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, omissis, Rv. 258991); V) è stato qualificato questo illecito penale come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, omissis, Rv. 256655) e, ricordando la differenza intercorrente con i reati omissivi propri «naturali», si è preso in considerazione l’elemento soggettivo evidenziando come l’accertamento della coscienza e volontà della condotta debba effettuarsi considerando lo specifico contesto in cui il comportamento omissivo, meramente «formale», si è concretamente realizzato e le peculiarità scaturenti dagli specifici connotati che caratterizzano l’inosservanza dell’obbligo di fare imposto e rimasto inadempiuto, giungendo, sulla base di tali considerazioni, alla conclusione secondo la quale, in fattispecie relativa a misura cautelare reale, il reato può ritenersi sussistente, quanto al suo fumus, in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario residuando in capo all’autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato; VI) si è ritenuto, sulla base del tenore letterale dell’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 (dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990), (Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, omissis, Rv. 272311), che l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo rilevandosi al contempo che siffatto obbligo sorge con riferimento a qualsiasi modifica dell’assetto patrimoniale non inferiore alla soglia individuata dalla legge e non limitata a quelle che comportano un effettivo incremento assumendo rilievo anche quelle in apparenza ininfluenti sull’entità del patrimonio in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione, ed anche di quelle passive, che comunque incidono sulla consistenza dei beni posseduti e, quindi, sulla composizione del patrimonio e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi sicché, oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma, privati o pubblici ed i conti correnti, anche il mutuo, l’affidamento bancario ed il mutuo ipotecario restano soggetti all’obbligo di comunicazione (così, Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, omissis, Rv. 244404. Conf. Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, omissis, Rv. 251724).

Terminata questa disamina sulle pronunce emesse dalla Cassazione in ordine a questo reato, si analizzava un ulteriore aspetto della questione, ossia una lettura delle disposizioni in esame alla luce di quanto affermato dal giudice delle leggi in subiecta materia.

Si evidenziava a tal proposito che, se, con le ordinanze n. 442 del 2001 e n. 362 e 143 del 2002, la Consulta aveva considerato che le disposizioni scrutinate costituissero «esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni» dando contestualmente conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto conforme a Costituzione una interpretazione delle stesse che escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e, dunque, sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione, con la sentenza n. 81 del 2014, la Corte costituzionale aveva asserito come si dovesse dare atto di un diverso indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale il delitto de quo deve ritenersi configurato anche nel caso in cui l’omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri rimarcando al contempo la natura di reato di pericolo presunto che la medesima giurisprudenza aveva attribuito al delitto in esame attraverso il quale si è inteso garantire una effettiva e sollecita conoscenza, da parte del nucleo di polizia tributaria, delle variazioni patrimoniali relative a soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che le possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa) nonché l’obbligatorietà, per l’amministrazione, di una verifica, altrimenti solo eventuale (v., in tema, Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, omissis, Rv. 247570; Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, omissis, Rv. 221494) specificando che l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, caratterizzato dalla mera cognizione della qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato e del superamento della soglia di rilevanza dell’operazione; presupposti di fatto questi da cui sorge l’obbligo di comunicazione senza che sia necessario il perseguimento del fine di occultamento delle informazioni con l’ulteriore precisazione che l’ignoranza, da parte dell’interessato, della stessa esistenza dell’obbligo di comunicazione, va ritenuta non scusabile trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale (in tal senso, v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015 – dep. 2016, omissis, Rv. 266381, con richiami ai precedenti).

Proseguendo la disamina delle decisioni emesse in sede di giustizia costituzionale, si osservava come da ultimo (sent. n. 99 del 2017) – considerando la legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge n. 646 del 1982 laddove indica, come penalmente rilevante, anche l’omessa comunicazione relativa a variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, ritenute, per tale ragione, inoffensive – la Corte costituzionale, ribadendo quanto già osservato nella sentenza n. 81 del 2014, aveva respinto tale assunto, richiamando, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità la quale aveva individuato le finalità della norma incriminatrice nel consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell’atto dispositivo che, per un verso, non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione, per altro verso, non consente un constante monitoraggio dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri fermo restando come sempre il giudice delle leggi abbia comunque precisato che – sempre che non possa escludersi il dolo – spetti comunque al giudice di rilevare la offensività in concreto della condotta con riferimento al caso specifico verificando cioè se la singola omissione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma tenendo conto delle finalità che la stessa persegue.

Una volta chiarito come e in che termini la Consulta sia intervenuta in ordine a tale questione giuridica, le Sezioni Unite affermavano di condividere il secondo degli indirizzi interpretativi in precedenza richiamati alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si osservava innanzitutto che se l’estensione ad altri soggetti, operata dalla legge 136/2010, degli obblighi di comunicazione fosse pacificamente indicativa di una scelta del legislatore di ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice, occorresse tuttavia stabilire se tale intervento abbia o meno inciso sulla struttura essenziale del reato, integrando il precetto penale ed a tale domanda deve darsi risposta negativa.

Si riteneva al riguardo come, riguardo al reato in esame, la selezione dei fatti penalmente rilevanti fosse stata operata dal legislatore facendo riferimento ai sottoposti a misura di prevenzione (o ai condannati con sentenza definitiva), posizione soggettiva preventivamente individuata, che resta indifferente ad eventuali modifiche normative riguardanti le preliminari condizioni per la sua attribuzione la quale, a sua volta, è conseguenza di un provvedimento giudiziale ormai definitivo, così come del tutto immutata resta l’essenza stessa del reato; in altre parole, osservava la Corte in tale pronuncia, la condizione di sottoposto a misura di prevenzione (o condannato definitivo) è del tutto indipendente dal contenuto delle disposizioni che ne disciplinano l’applicazione costituendo un mero presupposto per l’insorgenza degli obblighi comunicativi e rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate poiché l’incidenza degli interventi normativi succedutesi nel tempo aveva solo ridefinito l’ambito di operatività del precetto.

Si faceva difatti presente come la condotta sanzionata sia quella di chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti i limiti indicati e le modifiche apportate nel tempo e dunque essa riguarda esclusivamente il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla sua osservanza ma lasciando al contempo inalterata la struttura della fattispecie e il giudizio di disvalore formulato dal legislatore.

Del resto, rilevava sempre la Cassazione, dal momento che le finalità perseguite dal legislatore sono quelle di assicurare un capillare e continuativo controllo patrimoniale su soggetti ritenuti pericolosi al fine di verificare se le operazioni compiute siano correlate con attività illecite e ciò avviene mediante l’imposizione di un obbligo di comunicazione, non si pone, conseguentemente, un problema di applicabilità dell’art. 2, comma quarto cod. pen. che presuppone una modifica della fattispecie incriminatrice che le richiamate disposizioni non hanno determinato.

A sostegno di siffatto assunto, gli ermellini evidenziavano come la giurisprudenza di legittimità fosse pervenuta, in diverse occasioni, a conclusioni analoghe, seppure alla luce delle specifiche caratteristiche delle disposizioni prese in esame nel caso trattato dato che: a) in tema di infortuni sul lavoro, si è affermato che le disposizioni, che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori, non hanno una funzione integratrice del precetto penale poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell’imputato (Sez. 4, n. 2604 del 25/10/2006, dep. 2007, omissis, Rv. 235780); b) riguardo al delitto di cui all’art. 464 cod. pen., è stato affermato che la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice quanto all’individuazione solo dei valori di bollo, ma non pure dei casi in cui ne è richiesto l’uso con la conseguenza che la modificazione o l’abrogazione della disciplina di tali casi non configura una successione di leggi penali ai sensi dell’art. 2 cod. pen. in quanto la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall’entrata in vigore della legge successiva o dall’emanazione del successivo provvedimento amministrativo di attuazione e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (Sez. 5, n. 18068 del 03/04/2002, omissis, Rv. 221917; conf. Sez. 5, n. 4634 del 18/12/2003, dep. 2004, omissis, Rv. 227454; Sez. 5, n. 26652 del 07/05/2004, omissis, Rv. 229880) così come a conclusioni analoghe si è in precedenza pervenuti in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel d.m. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2001, essendo stato osservato che la normativa secondaria richiamata nella rubrica di reato, successivamente abrogata, ha avuto incidenza esclusivamente sulla portata del comando, modificato nel suoi contenuti a far data dal provvedimento innovativo, lasciando però inalterato il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso sicché il controllo sull’antigiuridicità della condotta andava effettuato sul perimetro dei divieti esistenti al momento del fatto (Sez. 3, n. 18193 del 12/3/2002, omissis, Rv. 221943).

Oltre a ciò, si faceva presente che la necessaria distinzione tra norme integratici del precetto penale e quelle che non sono tali sia stata posta in evidenza anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, omissis, Rv. 238197, che aveva individuato le prime come modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell’art. 2 cod. pen. come una successione di norme penali. e Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, omissis, Rv. 239398 che la richiama), mentre altre pronunce delle sezioni semplici, giunte sostanzialmente alle medesime conclusioni, avevano riguardato, ad esempio, la materia degli stupefacenti (Sez. 4, n. 17230 del 22/02/2006, omissis, Rv. 234029), l’introduzione di armi in area protetta (Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, omissis, Rv. 250119), l’usura (Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, omissis, Rv. 252194), la bancarotta (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 266474); il reato di cui all’art. 16, comma 1, del decreto legislativo n. 96 del 2003 (Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, omissis, Rv. 270335).

La Corte, per di più, riteneva che l’opzione ermeneutica da essa accolta non sembrava porsi in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte EDU con riferimento all’art. 7 della Convenzione e richiamati dalla Sezione rimettente sotto il profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tale proposito, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21/10/2013) posto che, tenuto conto di quanto già enunciato dalle medesime Sezioni Unite in precedenza, il precetto penale è chiaro nell’individuare, quali obbligati alle comunicazioni delle variazioni patrimoniali oltre una determinata soglia di valore, le persone sottoposte a misura di prevenzione (o a condanna) che restano soggette a tale obbligo per un periodo di tempo anch’esso specificato.

Tal che se ne faceva conseguire come la fattispecie incriminatrice de qua fosse pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una sua inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l’obbligo di comunicazione permane per dieci anni.

Non si riteneva infine in grado di inficiare la validità dell’approdo ermeneutico recepito nemmeno la sussistenza del contrasto giurisprudenziale che aveva condotto all’intervento delle Sezioni Unite, e ciò in ragione del mero richiamo di quanto ribadito in una recente pronuncia (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, omissis, Rv. 273876), richiamata anche nell’ordinanza di rimessione, essendo stato ivi osservato, dopo aver richiamo plurimi precedenti, che la non prevedibilità di una decisione giudiziale, che ne preclude l’applicazione retroattiva, deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso in esame, peraltro con un numero di decisioni decisamente contenuto.

Posto ciò, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, veniva formulato il seguente principio di diritto: “l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo”.

Conclusioni

La sentenza in questione è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico.

Attraverso una compiuta disamina della normativa di riferimento, prima, e della giurisprudenza elaborata in sede di legittimità ordinaria e costituzionale, poi, in subiecta materia, senza ignorare anche le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo da doversi prendere in considerazione nel caso di specie, infatti, gli ermellini sono giunti a postulare che l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.

Va da sé quindi che, alla luce di questo arresto giurisprudenziale, l’obbligo previsto dall’art. 80 del codice antimafia, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011 riguarda anche il caso in cui il provvedimento, che ha disposto la misura, sia divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.

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