La sussidiarieta’ nel rapporto stato centrale-autonomie locali autonomia e federalismo, un dibattito da riaprire.

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LE FASI STORICHE DELLO STATO ITALIANO
 
Iniziamo con una breve retrospettiva dell’evoluzione storico-politica dello Stato Italiano per comprendere meglio le premesse di questo percorso.
 
La prima fase della storia repubblicana Italiana è stata quella dello Stato Liberale, iniziato orientativamente con l’unità d’Italia e durato sino alla trasformazione fascista dello Stato e quindi orientativamente dal 1870 al 1920.
 
Lo stato liberale lasciava fare al mercato ed alla società, convinto che essa, nella libertà, si regolasse autonomamente senza interventi e quindi anche senza la “longa manus” dello stato.
 
In quel contesto storico-sociale lo stato si preoccupava principalmente dei grandi temi post risorgimentali: unità della nuova nazione, analfabetismo, suffragio universale, controllo sugli Enti territoriali e non vi era alcuna idea di uno stato decentrato di qualsiasi tipologia, nonostante le idee federaliste di Mazzini..
 
Al contrario dello stato liberale, lo stato sociale, nato sostanzialmente con l’avvento al potere di Benito Mussolini e proseguito anche con la Repubblica fino agli anni ‘90, tende a occuparsi di tutto e a creare condizioni di benessere in modo uniforme a partire dagli strati più bassi della popolazione limitandone però l’autonoma iniziativa.
 
Ciò comporta come conseguenza un atteggiamento fortemente centralista dello Stato nell’erogazione dei servizi, nonché la sua necessità di ramificarsi in periferia costruendo meccanismi esasperati di controllo sui cittadini e sugli enti territoriali.
 
In questo contesto è difficile pensare ad una riforma in senso federalista dello Stato, dato che, con molta fatica, riesce ad attuare pienamente le regioni dopo circa trent’anni dalla Costituzione che le aveva istituite.
 
Tuttavia comincia ad affermarsi molto lentamente l’idea di spostare la cura degli interessi dal centro (Stato) alla perifieria (enti ed autonomie locali), ma in ogni caso, in un sistema fortemente centralista, le concessioni sono concepite come decentramento amministrativo e non come trasferimento di funzioni e risorse.
 
Il 1990 segna un forte riconoscimento di indipendenza alle autonomie locali, la legge 08 giugno 1990 n.142 “Ordinamento delle Autonomie Locali” riconosce piena dignità, autonomia ed indipendenza agli enti locali, Cominu e Province, riconoscendogli, tra l‘altro, l’autonomia statutaria.
 
POTESTA’ STATUTARIA
 
Nella prima formulazione della carta costituzionale la potestà statutaria era riconosciuta solo alle regioni, ai sensi dell’art.123 della costituzione, ed alle Province autonome di Trento e Bolzano (i cui statuti sono approvati con legge costituzionale).
 
Agli enti locali era riconosciuta autonomia nei limiti dei principi stabiliti dalla legge dello Stato.
 
La potestà statutaria degli Enti locali (Province e Comuni) è stata concessa solo nel 1990 con la Legge 142/90 (in particolare dall’art.4 punto 1), oggi abrogata dal Testo unico degli Enti Locali approvato con il D.Lgs.267/00, ma che rappresenta tutt’oggi una pietra miliare nel processo di autonomia degli enti locali e nel quadro dell’evoluzione dei rapporti Stato-Regioni-Enti Locali.
 
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
 
Dagli anni ’90 lo stato sociale in senso stretto inizia il suo tramonto, a favore di una nuova idea di stato stato sussidiario, che anziché pianificare e gestire la società, si alleggerisce, anche nei costi, per intervenire solamente quando è veramente necessario, lo stato diviene quindi il timoniere della società e non più il motore.
 
Questo principio è affermato nel 1931 dalla Dottrina Sociale della Chiesa con la lettera Enciclica “Quadragesimo Anno” di Papa Pio XI la quale, tra l’altro afferma: “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che nelle minori e inferiori comunità si può fare.
 
Quindi lo stato deve lasciare fare alla società, ma a differenza dell’idea liberale non deve rimanere sempre spettarore passivo, ma deve intervenire ogni qual volta la società è incapace o ingiusta.
 
Inoltre la sussidiarietà, già nell’enciclica “Quadragesimo Anno”, sottintende lo spostamento della cura degli interessi dal centro alla periferia laddove queste siano in grado di gestirsi autonomamente, e più efficacemente, di un’amministrazione sovraordinata.
 
Nel 1992, l’art,1 del Trattato di Maastricht introduce il Principio di Sussidiarietà, che diviene patrimonio ideale delle nazioni.
 
Secondo questo principio i servizi devono quindi nascere e organizzarsi vicino ai cittadini, e gli Enti locali riacquistano progressivamente autonomia e poteri. o Stato non interferisce più se non sui grandi principi, e agli Enti Locali è devoluta quasi totalmente l’organizzazione della vita della comunità.
 
DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO SUSSIDIARIO
 
Nella seconda metà degli anni ’90 si afferma sempre di più l’esigenza di spostare la cura degli interessi della comunità dalla stato centrale alla amministrazioni locali, attraverso una riforma della organizzazione dello stato e della carta costituzionale da affidare ad una commissione bicamerale nella quale maggioranza ed opposizione dei due rami del parlamento riprendono il lavoro della costituente.
 
Al fallimento della commissione bilaterale, la maggioranza di governo decide di proseguire ugualmente il percorso di riforma istituzionale seppure nei limiti riservati alla legge ordinaria.
 
Si realizza quindi il grande trasferimento di funzioni e risorse dello Stato agli enti locali, con la legge 112/98 alla quale seguiranno altre grandi riforme note come Leggi Bassanini, che incideranno profondamente sul ruole delle autonomie locali ed inoltre il rapporto politica ed amministrazione, realizzando l’attuale netta separazione tra funzione politica, rimessa agli organi elettivi assembleari ed esecutivi, di cui il massimo vertice è il capo del governo centrale e locale, e la funzione gestionale, rimessa all’apparato amministrativo dell’ente, al cui vertice è posto il dirigente e non più l’organo politico.
 
Tuttavia le riforme istituzionali più forti avvengono agli albori del terzo millennio. Nel 2001 si approva una delle più innovative riforme costituzionali che realizzano compiutamente il modello dello stato sussidiario, riconoscendo pari dignita ed indipendenza al governo centrale e locale.
 
Tramontato il modello dello stato federale, le regioni divengono il nuovo modello di autonomia, rafforzate nella potestà legislativa e nell’autonomia amministrativa ed istituzionale.
 
Lo stato centrale si priva di tutte le materie e delle relative funzioni che possono essere curate più efficacemente nei governi locali, più vicini ai cittadini e quindi più efficaci ed anche più rapidi nel dare le risposte ai cittadini, tuttavia si riserva il potere di intervenire in sostituzione in caso d’inerzia, conformemente all’idea di sussidiarietà.
 
LA RIFORMA DELLA POTESTA’ LEGISLATIVA
 
Nella prima formulazione della carta costituzionale a parte il caso delle regioni a Statuto Speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano (disciplinate con specifica legge costituzionale), le regioni avevano competenze solo in materie tassative fissate dall’art.117 della Costituzione.
 
Le leggi regionali rappresentavano una fonte subprimaria del nostro ordinamento, poiché avevano 2 limiti generali:
a)       I principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (a cui erano quindi genericamente subordinate)
b)      L’Interesse nazionale
 
Questo sistema è profondamente trasformato dalla Legge Costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001 che riforma interamente il Titolo V parte II della Costituzione.
 
Mentre con la prima formulazione della carta costituzionale erano elencate tassativamente le competenze legislative regionali mentre tutte le altre erano attribuite allo Stato (competenza residuale) con la riforma del 2001 si assiste all’inversione della competenza legislativa, quindi sono definite tassativamente le materie attribuite alla competenza esclusiva dello Stato ed alla competenza ripartita, mentre tutte le altre sono rimesse alla competenza esclusiva della regione (competenza residuale).
 
Inooltre si elimina completamente il limite generale alla potestà legislativa regionale rappresentato dall’interesse nazionale, mentre i principi generali fissati con legge dello stato sono vincolanti solo nei settori attribuiti alla competenza ripartita.
 
In questo modo è stabilito sempre un limite certo e definito alla funzione dello Stato e della regione, anche nei settori apparentemente sovrapposti, come nel caso della potestà legislativa ripartita, poiché in questi casi è chiara la funzione dello Stato, che fissa i principi generali ma non può legiferare, ed i poteri della regione, che può legiferare ma nel rispetto dei principi generali fissati dallo Stato.
 
Per queste ragioni la legge regionale diventa finalmente fonte primaria del nostro ordinamento avendo stessa dignità, forza ed autonomia della legge dello Stato.
 
Lo scorso anno il governo al termine della legislatura approva una nuova riforma Costituzionale che tuttavia è frutto di una grande mediazione tra le forze di maggioranza e per questo unisce elementi contrastanti, da un lato l’incremento delle autonomie e delle potestà regionali, in un’ottica di “devolution” come vogliono le forze più federaliste della coalizione, a cui fa da contraltare la reintroduzione del limite dell’interesse nazionale ed un rafforzamento del ruolo del governo centrale, come chiedono le frange più centraliste della compagine governativa.
 
I punti fondamentali di questa riforma costituzionale, bocciata dal referendum confermativo, non avendo raggiunto nella doppia approvazione parlamentare una maggiornza qualificata, si possono riassumenre in:
  1. Ampliamento delle materie rimesse alla competenza esclusiva regionale:
    1. Polizia Amministrativa Regionale e Locale (materia che tuttavia era già attribuita alla competenza regionale sin dalla prima formulazione della carta costituzionale, a parte il riferimento all’ambito regionale che comunque è una specificazione pleonastica poiché la polizia regionale è comunque una polizia locale
    2. assistenza e organizzazione sanitaria;
    3. organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche;
    4. definizione della parte dei programmi scolastici e formativi d’interesse specifico della Regione;
 
  1. Reintroduzione del limite generale alla potestà legislativa regionale dell’interesse nazionale, rendendo la legge regionale meno autonoma della legge dello Stato, e facendola quindi tornare fonte subprimaria dell’ordinamento.
 
  1. Eliminazione del bicameralismo che ha contraddistinto la nostra tradizione repubblicana; funzione legislativa attribuita solamente alla Camera dei Deputati nelle materie attribuite alla competenza esclusiva dello Stato, mentre il Senato della Repubblica si trasforma in Senato federale delle Regioni e definisce i principi generali nelle materie rimesse alla competenza ripartita.
 
A ben vedere le concessioni erano più di facciata che non di sostanza, la polizia amministrativa locale era già di competenza esclusiva della legislazione regionale, mentre nel settore dell’organizzazione scolastica la regione troverà fortissimi limiti nell’autonomia scolastica rispetto i quali non potrà intervenire più di quanto non possa fare oggi lo stato, infine l’assistenza sanitaria era già in larga parte organizzata dalle regioni, che già controllavano le ASL e la loro dirigenza.
 
In altri casi lo Stato cedeva dei settori che da sempre sono stati pagati integralmente dagli enti locali, pensiamo ad esempio che le scuole materne ed elementari le pagano già i comuni, mentre le scuole secondarie sono nel bilancio dalle province; gli ospedali e l’assistenza sanitaria in genere costituisce una delle maggiori uscite delle finanze regionali ed infine la polizia locale è stata sempre pagata degli enti di appartenenza (comuni e province) e da finanziamenti regionali.
 
POTESTA’ AMMINISTRATIVA
 
Nella prima formulazione della carta costituzionale le regioni avevano potestà amministrativa nelle stesse materie rimesse alla propria competenza legislativa, salvo altre materie delegate dallo Stato, tuttavia esercitava le funzioni di norma attraverso gli enti locali, province e comuni.
 
Gli enti locali, province e comuni, nelle materie di interesse esclusivamente locale potevano ricevere competenze amministrative con legge dello Stato
 
La Legge Costituzionale 3/01 del Titolo V parte II della Costituzione ha completamente invertito la ratio del precedente impianto istituzionale che attribuiva le funzioni amministrative in primis alla regione che provvedeva a redistribuirle agli enti locali, con questa riforma, infatti, le funzioni amministrative (e quindi anche la disciplina normativa regolamentaria) sono attribuite direttamente ai comuni che ne divengono titolari in via principale, salvo nei casi in cui è necessario assicurare l’esercizio unitario su un ambito più ampio, in questi casi sono conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
 
I Comuni, le Province e le Città metropolitane, oltre le proprie funzioni amministrative principali, possono ricevere deleghe di funzioni con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze, mentre prima la delega di funzioni era limitata alle materie di interessse esclusivamente locale oggi non sussiste alcun limite.
 

Mancini Massimiliano

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