La rilevanza penale della fraudolenta inserzione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale Iva in vigenza del precedente sistema penaltributario.

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Cassazione penale, Sez. II, 8 febbraio 2007, n. 5656
“La mancata previsione nell’art. 4, c. 1°, lett. f) della legge n. 516 del 1982, dell’ipotesi di inserzione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione Iva, non consente di considerare lecita dal punto di vista penale la predetta condotta allorchè ad essa consegua un indebito rimborso di imposta; invero, in questa ipotesi verrebbe ad essere integrata la fattispecie prevista dall’art. 640, c. 2, n. 1, del c.p.”*
* A cura di Massimo Sperduti
 
Breve commento
 
L’art. 4, c. 1°, lett. f) della famigerata legge “manette agli evasori” disciplinava la fattispecie di frode fiscale caratterizzata dall’indicazione nella dichiarazione dei redditi (ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato) di ricavi o altri componenti positivi di reddito, ovvero di spese od altri componenti negativi di reddito, in misura diversa da quella reale, utilizzando documenti fittizi ovvero ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali.
Tale disposizione circoscriveva la rilevanza penale della condotta suddetta alle fraudolente indicazioni eseguite nella dichiarazione dei redditi, con esclusione di quelle effettuate nella dichiarazione presentata ai fini Iva[1].
In particolare, in vigenza della legge n. 516 del 1982, qualora il comportamento stigmatizzato dalla disposizione citata fosse stato realizzato al fine di inficiare la suddetta dichiarazione, il contribuente avrebbe risposto esclusivamente del segmento di condotta punito dalla lettera d) del citato articolo 4; vale a dire l’utilizzazione di fatture o di altri documenti ideologicamente falsi.
Recentemente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciandosi sulla continuità normativa della frode fiscale disciplinata dalla legge n. 516, citata, rispetto alla fattispecie contemplata all’art. 2 del sistema penaltributario di nuovo conio, hanno ritenuto che, stante la disomogeneità strutturale e la non necessaria consequenzialità dei comportamenti sanzionati, le disposizioni contenute nella lett d) e nella lett. f) dell’art. 4, descrivono due ipotesi delittuose di frode fiscale autonome e distinte tra loro anche quando nella consumazione del delitto di cui alla lett. f) la condotta fraudolenta di supporto all’infedele dichiarazione sia esattamente conforme a quella descritta nella lett. d)[2].
Da ciò si rileva, come già la giurisprudenza maggioritaria e autorevole dottrina in costanza delle precedenti disposizioni penaltributarie avevano sostenuto, che, qualora l’utilizzazione di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti sia propedeutica alla presentazione della dichiarazione mendace, inficiata dall’impiego della predetta documentazione, verrebbe a realizzarsi, sia sotto il profilo giuridico formale che sotto quello fattuale, il concorso di reati, attesa la natura della disposizione a più fattispecie dell’art. 4 citato[3].
Il sistema penaltributario introdotto nell’anno 2000 ha rinunciato alla criminalizzazione delle condotte preparatorie ad una successiva e solo eventuale evasione di imposta, attraverso la limitazione della repressione penale ai soli fatti direttamente correlati sia sul versante oggettivo che su quello soggettivo alla concreta lesione degli interessi fiscali.
Sul punto, la Relazione al decreto di riforma dei reati tributari, ha chiarito che “quanto alla concreta fisionomia delle fattispecie stesse, la scelta di ancorare la sanzione penale all’offesa degli interessi connessi al prelievo fiscale ha portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento nel quale si realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione d’imposta: sì che le violazioni tributarie a monte della dichiarazione medesima, quali, ad esempio, le omesse fatturazioni o annotazioni in contabilità di corrispettivi, e a maggior ragione le irregolarità nella tenuta delle scritture contabili, oggi autonomamente incriminate (art. 1 del decreto legge n. 429 del 1982) restano prive, ex se, di rilievo penale.”[4]
Significative, in tal senso, sono le disposizioni contenute nell’art. 6 e nell’art. 9 del decreto legislativo n. 74 del 2000, inserite dal legislatore allo scopo di evitare un indiretto ripristino del modello repressivo basato sui reati prodromici.
Si rammenta, infatti, che la prima delle disposizioni citate esclude che i delitti in materia di dichiarazione possano essere puniti a titolo di tentativo, mentre la seconda stabilisce la non punibilità a titolo di concorso dell’emittente o dell’utilizzatore di documentazione fittizia, rispettivamente, nel reato previsto dall’art. 2 o in quello disciplinato dall’art. 8.
Sulla base di quanto osservato, risulta evidente che il comportamento sanzionato dall’art. 4, c. 1°, lett. d), alla luce dei principi ispiratori della novella penaltributaria del 2000, ha perso rilevanza penale ex se, in quanto preparatorio ad un successivo e solo eventuale illecito risparmio di imposta.
A tale conclusione sono pervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27 del 25 ottobre 2000, le quali hanno stabilito che “le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, supportata da tali fatture o documenti, non sono più, di per se previste dalla legge come reato.”[5]
Discorso diverso deve farsi per la fattispecie disciplinata dall’art. 4, c. 1°, lett. f), che si pone in continuità normativa rispetto a quella contemplata nell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto richiede l’elemento ulteriore dell’indicazione nella dichiarazione dei redditi (o nel bilancio ad essa allegato) di elementi passivi fittizi attraverso l’utilizzazione della documentazione falsa.
Per i motivi che sono già stati esposti, l’eventuale impiego della documentazione ideologicamente falsa in sede di dichiarazione IVA non integra il reato di cui alla lett. f), bensì quello preveduto alla lett. d); pertanto, la fraudolenta inserzione di componenti negativi incidenti sul calcolo del volume degli acquisti ai fini IVA resta esclusa dal fenomeno successorio su riportato.
Di talchè, tenuto conto dell’intervenuta abrogazione del delitto di cui alla lett. d) dell’art. 4 ad opera della novella penaltributaria[6], si dovrebbe ritenere che la condotta su esposta, commessa anteriormente alla riforma dei reati tributari, non sia più assoggettata ad alcuna sanzione penale.
Tuttavia, la Corte, con la sentenza massimata, pone un correttivo all’orientamento su riportato, valutando la condotta di utilizzazione di documentazione fittizia ai fini della dichiarazione IVA alla luce delle altre disposizioni incriminatrici.
In particolare, secondo i Giudici di legittimità la mancata inclusione della condotta su riportata tra quelle integranti il delitto di cui alla lettera f) dell’art. 4, non ne determina l’irrilevanza penale, qualora dalla presentazione della dichiarazione mendace IVA sia derivato un indebito rimborso o un illecito risparmio di imposta; invero, in questa ipotesi verrebbe ad essere integrato il diverso reato di truffa aggravata ai danni dello Stato che, rispetto alla figura disciplinata dall’art. 4, lett. d), si troverebbe in progressione criminosa.
In merito, si rileva che nel caso preso in esame sussistono tutti gli elementi atti ad integrare il reato di truffa: a) la fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi supportata dall’utilizzazione di documentazione falsa che induce l’Erario a ritenere vera la prospettazione dell’ammontare degli acquisti esposta in dichiarazione; b) l’atto di disposizione patrimoniale, rappresentato dall’indebito rimborso; c) il conseguimento, da parte del contribuente, di un ingiusto profitto e la realizzazione per l’Erario del danno rappresentato dalla deminutio patrimonii cagionata dalla corresponsione di danaro pubblico per l’importo equivalente al credito inesistente.
Risulta alquanto controversa la riconducibilità all’atto di disposizione patrimoniale del mancato recupero da parte dell’Amministrazione finanziaria dell’imposta evasa a causa della inveritiera ostensione del volume degli acquisti che abbia indotto la predetta Amministrazione nell’errore di considerare corretta la dichiarazione presentata.
Coloro che propendono per la soluzione positiva ritengono applicabile all’ipotesi appena illustrata la tesi sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria secondo cui per la ricorrenza del delitto di truffa è sufficiente che il danno e il profitto scaturiscano da un atto di disposizione patrimoniale negativo.
Pertanto, sulla scorta delle predette osservazioni, le fraudolente indicazioni di componenti negativi incidenti sulla commisurazione dell’ammontare degli acquisti nella dichiarazione annuale IVA, prima della novella penaltributaria, non possono essere considerate indifferenti ai fini dell’intervento penale, perchè sussumibili, in presenza di un effettivo danno cagionato all’Erario in conseguenza della predetta condotta, nella diversa disposizione di cui all’art. 640, c. 2°, n. 1 del codice penale.
Per ultimo, la Corte ha correttamente ritenuto che l’introduzione delle nuove figure criminose abbia comportato l’insorgenza di un fenomeno successorio di disposizioni incriminatrici tra il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, configurabile nell’ipotesi su riportata, e quello di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, tenuto conto della mancata previsione di una disciplina di carattere transitorio che l’Esecutivo era delegato ad emanare a norma dell’art. 16, c. 1°, lett. b), della legge 25 giugno 1999, n. 205, e dell’abolizione del principio di ultrattività delle disposizioni penali finanziarie di cui all’art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, ad opera dell’art.24 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507.
 
Dott. Massimo Sperduti
Ragioniere Commercialista
Revisore contabile
e-mail: massimo.sperduti@studenti.unicam.it


[1] Per tutte, Cass. pen., Sez. III, 3 agosto 2005, n. 29235, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 2, 1543, secondo cui “[…] la fattispecie ex art. 4, lett. f), della 1. n. 516 del 1982 prevedeva come oggetto della condotta materiale la sola dichiarazione dei redditi e non quella ai fini iva.”
[2] Cass. pen., Sez. Unite, 25 ottobre 2000, n. 27, in Leggi d’Italia professionale.
[3] Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 1995, in GT Riv. Giur. Trib., 1996, 638; Cass. pen., Sez. III, 15 dicembre 1998, n.1234 in Il fisco, 1999, 14008, con nota di Izzo.
[4] Relazione governativa (schema del 3 marzo 2000), par. 1.
 
[5] Cass. pen., Sez. Unite, 25 ottobre 2000, n.27, in Rass. Tributaria, 2000, 1925.
[6] Si veda Uff. indagini preliminari Milano, 3 aprile 2001, in Foro Ambrosiano, 2001, 262.

Dott. Sperduti Massimo

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