La responsabilità medica per nascita indesiderata nella sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 25767 del 22.12.2015

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Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25767 depositata il 22/12/2015 (Presidente: L. A. Rovelli – Relatore: A. Spirito ed Estensore: R. Bernabai), sono intervenute a risoluzione di contrasto, sulla richiesta di danno da nascita indesiderata formulata da una coppia di coniugi  nei confronti del primario di ginecologia, della direzione generale dell’A.S.L., nonché del primario del laboratorio di analisi chimiche microbiologiche dell’ospedale in cui ha avuto luogo il parto.

Il danno da nascita indesiderata consiste in una particolare forma di errore medico derivante da una errata diagnosi prenatale nella quale non viene identificata una malformazione del feto, condizione che impedisce alla madre di decidere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza.

Ed è proprio questo il caso esaminato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte a seguito della rimessione della causa al Primo Presidente da parte della Terza Sezione Civile, cui era stato assegnato il ricorso e che aveva ravvisato un contrasto di giurisprudenza nei precedenti arresti di legittimità, sottolineando che la tematica della c.d. nascita indesiderata aveva data luogo, in ordine alla questione dell’onere probatorio ad un primo e più risalente orientamento, secondo cui corrisponde a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza, se informata di gravi malformazioni del feto, cui si era contrapposta una giurisprudenza più recente, che aveva escluso tale presunzioni semplice, ponendo a carico della parte attrice di allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza.

La Terza Sezione, inoltre,  rilevava un contrasto ancora più marcato per ciò che attiene la legittimazione del soggetto nato malformato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico e della struttura sanitaria.

Ebbene le Sezioni Unite per la disamina relativa al primo motivo di opposizione sono partite dall’interpretazione della Legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione di gravidanza) che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, sottolineando come, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la presenza delle condizioni previste dall’art. 6 (“L’interruzione della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata : a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vota della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”) ha non solo efficacia esimente da responsabilità penale, ma genera un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza.

In particolare, il primo motivo di ricorso ripropone la vexata quaestio del riparto dell’onere della prova dei predetti presupposti di legge in tema di risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata (wrongful birth lawsuit).

Appare evidente che l’impossibilità di scelta di ricorrere all’aborto da parte della madre, quando ricorrano le condizioni di cui all’art. 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante sia fonte di responsabilità civile.

Le Sezioni Unite hanno messo in evidenza come nel caso di nascita indesiderata la prova verte anche su un fatto psichico, ossia su uno stato psicologico, un’intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti e hanno chiarito che non si verte in tema di presunzione legale, sia pure juris tantum, bensì di praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit, ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche, emergenti dai dati istruttori raccolti.

I giudici escludono, quindi, la configurabilità di un danno in re ipsa e ritengono necessario che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ai sensi dell’art. 6 della lett. b) della legge n. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotto in un danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio.

Con il secondo motivo di ricorso le Sezioni Unite si sono occupate del problema più delicato e controverso della fattispecie legale in esame ossia quella del diritto al risarcimento del soggetto nato malformato.

Nucleo centrale dell’esame è quello della legittimazione ad agire di chi al momento della condotta del medico  non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all’art. 1 del codice civile, conforme ad un pensiero giuridico plurisecolare.

Sul punto si sono succeduti due opposti orientamenti giurisprudenziali.

Le Sezioni Unite nella decisione in esame aderiscono all’orientamento restrittivo,  sottolineando di aver già negato che l’esclusione del diritto al risarcimento possa affermarsi sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita, in virtù del fatto che la Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), la Legge  22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) la legge 29 luglio 1975, n. 405 (Istituzione dei consultori familiari) e l’art. 254 c.c. annoverano tra i soggetti tutelati anche il concepito.

Secondo le Sezioni Unite, “entro questa cornice dogmatica si può dunque concludere per l’ammissibilità dell’azione del minore, volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione. Tesi che del resto neppure collide con la teoria della causalità, posto che è ben possibile che tra causa ed evento lesivo intercorra una cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole, purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute”.

I Supremi giudici non ritengono lecita tale richiesta di risarcimento quando la malformazione sia diretta conseguenza di fattori estranei alla condotta tenuta dai medici e la colpa del medico sia consistita solo nel fatto di non aver messo la donna in condizioni di abortire

Le Sezioni Unite hanno dunque negato l’esistenza del cd. “diritto a  non nascere se non sano, sottolineando che il riconoscimento di tale diritto comporterebbe il rischio di reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe ad essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica: circostanza che costituirebbe una vera e propria “deriva eugenetica”.

Il nato con disabilità non è  quindi legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché il nostro ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”.

La Suprema Corte, accogliendo il primo motivo di ricorso e rigettando il secondo, ha cassato la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta, rinviando la causa alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, nonché per il regolamento delle spese della fase di legittimità.

Avv. De Luca Maria Teresa

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