La prostituzione si verifica anche on line (nota a cassazione sezione III penale Sentenza 21 marzo 2006 – 3 maggio 2006, n. 346)

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Non si può certo ritenere che la pronuncia in epigrafe presenti specifiche caratteristiche di novità.
Essa, infatti, purtroppo, si pone in un sentiero di allargamento dello spettro punitivo già delineato da precedenti sentenze di legittimità in materia di prostituzione che escludono che il contatto fisico fra cliente e prostituta sia elemento decisivo e costitutivo della fattispecie in oggetto.
Ha affermato, infatti, la Sez. III del Supremo Collegio, con la pronuncia 3 Giugno 2004, n. 36157 B.N.[1] che “L’atto di prostituzione non implica di necessità la congiunzione carnale, comunque realizzata, o anche il solo contatto fisico tra i soggetti del rapporto, dovendosi invece far coincidere la relativa nozione con quella, assai più ampia, di prestazione sessuale a pagamento, qualificabile come tale ogni qual volta essa consista in comportamenti oggettivamente idonei a stimolare l’istinto sessuale del fruitore”.
Quattro risultano, pertanto, i principali fulcri interpretativi che possono permettere di comprendere i termini complessivi del problema e sono i concetti di prostituzione, di atto sessuale, di atto dispositivo del proprio corpo e di interazione.
Con il termine prostituzione, secondo la definizione contenuta nella sentenza della Sez. III della Corte di Cassazione, 8 Ottobre 2004, n. 45785, Gamba[2], si intende testualmente “qualsiasi prestazione sessuale effettuata dietro corrispettivo, senza che la prestazione sessuale debba necessariamente consistere nella «congiunzione carnale»: infatti, qualsiasi attività diretta a eccitare e soddisfare la libidine sessuale del destinatario si configura come «prestazione sessuale» e integra prostituzione se è appositamente retribuita dal destinatario della medesima[3].
A dire della sentenza che si annota, inoltre, la nozione di prostituzione “corrisponde ad un tipo normativo, che è stato delineato dalla giurisprudenza e non può, perciò, essere individuata in base a criteri di valutazione meramente sociali o culturali”.
Prima di affrontare criticamente la definizione adottata dai giudici supremi, chi scrive ritiene che quest’ ultima affermazione, per il suo contenuto, merita una breve, ma precisa riflessione.
Una simile enunciazione, infatti, sconcerta, in quanto fa apparire la giurisprudenza, intesa come scienza destinata a favorire l’applicazione più corretta possibile della norma rispetto alla fattispecie fattuale concreta, come impermeabile rispetto a quell’influenza culturale o sociale che si concreta propriamente in modificazioni che incidano in primis proprio sugli usi e costumi quotidiani.
Tali manifestazioni espressive dell’evoluzione (od involuzione a seconda dei casi) delle consuetudini di una società o di un paese, si pongono necessariamente come antecedente logico e naturalistico, in uno specifico e determinato momento storico, riguardo a qualsiasi valutazione di natura strettamente giuridica nonché rispetto all’osservanza od alla disapplicazione del precetto normativo in tale epoca vigente.
Senza, quindi, indulgere in discettazioni sociologiche o filosofiche, sia, peraltro, consentito affermare la pacificità del forte condizionamento che sia il legislatore, che il giudice subiscono, in relazione al possibile mutamento dell’approccio concettuale e dell’interpretazione di situazioni suscettive di improvvise e repentine modificazioni.
Pensiamo ad esempio, per restare quasi in argomento, a come sia mutata la giurisprudenza concernente il concetto del comune senso del pudore od addirittura in materia di diritto di famiglia.
L’asserzione della Corte Suprema, quindi, tradisce un’impostazione non condivisibile, siccome informata al principio della fissità sia dell’esegesi che della stessa previsione legislativa,
Su tale abbrivio, quindi, lo studioso ed il legislatore dovrebbero rimanere, nel tempo, immutabilmente fedeli a loro stessi, refrattari ad ogni cambiamento che involga l’humus su cui poggia l’architettura normativa, anche a costo di fornire una lettura critica della disposizione di legge, che appaia distonica rispetto alla realtà.
Si tratta, pertanto, di una visione del tutto antistorica e pesantemente contraddetta non solo dalla posizione che la Suprema Corte ha, di fatto, assunto – come già ricordato – in relazione a numerose ed importante problematiche di rilievo penale, ma soprattutto proprio dalla stessa impostazione trasfusa nella sentenza che si critica.
E’, infatti, pacifico che i giudici di legittimità, introducendo il concetto di prostituzione interattiva, rapporto che intercorre fra soggetti tra loro localmente distanti e collegati solo per via telematica, (nozione su cui ci si soffermerà in prosieguo), sconfessano clamorosamente la premessa che essi stessi hanno posto, manifestandosi, in realtà, invece, assolutamente sensibili alle evoluzioni del modo di vivere della società
Le contestazioni mosse all’impostazione della Corte di legittimità e che precedono, appaiono, dunque, basilari, proprio allo scopo di evidenziare la gracilità del fondamento metodologico della decisione che si commenta e dell’orientamento giurisprudenziale cui essa appartiene.
Tornando alla definizione di prostituzione, si deve esaminare con grande rigore uno dei suoi elementi costitutivi e cioè la nozione di atti sessuali.
A dire della pronuncia della Sez. III della Corte di Cassazione, (3 Giugno 2004, n. 36157, B.N. cit.), l’atto sessuale che caratterizza la prostituzione non deve essere identificato con la congiunzione carnale o con il compimento di atti di libidine, giacché esso non è necessariamente qualificato dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione e può consistere anche nell’esecuzione da parte di chi si prostituisce di atti sessuali di qualsiasi natura su se stesso in presenza di chi ha chiesto la prestazione, pagando un compenso, al fine di soddisfare la propria libidine.
Consegue, quindi, che a differenza ad esempio della nozione di atti sessuali di cui all’art. 609 bis c.p., che include non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente, (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 15 Novembre 2005, n. 549Y.Y.)[4]presupponendo, così un contatto fisico fra agente e vittima, la rilevanza in sessuale, tema di prostituzione, dell’atto posto in essere, dietro compenso, deriva principalmente dalla sua capacità di suscitare in capo al fruitore (id est cliente) la soddisfazione della propria libidine.
Stando al dictum giurisprudenziale, quindi, il termine del problema concernente l’individuazione di una condotta di prostituzione consiste nel valutare, preliminarmente ad ogni altra considerazione, l’idoneità concreta dell’atto compiuta dalla prostituta a provocare piacere nel destinatario, ovunque egli sia.
Deriva, pertanto che qualsiasi atto di disposizione del proprio corpo a fini sessuali, da parte del soggetto che si prostituisce (maschio o femmina), è il fondamentale elemento costitutivo delle condotte che assumono rilievo ai fini dell’identificazione del concetto di prostituzione.
E’, comunque, necessario, a parere di chi scrive, focalizzare con precisione il concetto di atti dispositivi del proprio corpo a sfondo sessuale.
L’atto in questione, quindi, pare consistere in quella condotta che, ove posta in essere, risulti idonea a suscitare la brama di libidine del destinatario della stessa.
Esso, quindi, si pone, rispetto all’atto sessuale propriamente detto, in un rapporto di genus ad speciem, avendo, infatti, un carattere di maggiore ed evidente genericità rispetto alla condotta specifica.
Quanto sopra induce, però, ad un problema di individuazione e qualificazione giuridica di quali condotte possano rientrare nella categoria di atti dispositivi del proprio corpo e, indi, nella sottocategoria degli atti sessuali specifici.
Or bene, atteso che la giurisprudenza, come detto in precedenza, appare assai sensibile all’efficacia stimolatrice l’istinto sessuale del fruitore (Cfr. Cassazione Sez. III, 3 Giugno 2004, n. 36157 cit.), cioè al tipo di risultato che la condotta raggiunge, prescindendo dal contatto fisico fra i protagonisti e conferisce a tale aspetto valenza assolutamente decisiva onde ritenere perfezionata la fattispecie in questione, si deve stabilire quali siano (se esistono) confini entro i quali talune condotte non integrano l’atto di prostituzione.
Pare di potere dire, quindi, e con una certa preoccupazione per la possibile distorsione degli istituti giuridici vigenti contenuti nella L. 75 del 1958, che, alla luce dell’orientamento dominante, (informato all’individuazione dell’atto di prostituzione, attraverso il privilegiare la centralità del criterio della soddisfazione della pulsione sessuale di chi sia il destinatario dell’atto), possano giungere a configurare forme di prostituzione anche situazioni che, usualmente, non verrebbero nemmeno sfiorate da simile sospetto.
Seguendo l’iter logico della giurisprudenza vigente, pertanto, molteplici possono essere gli esempi.
In primo luogo, si può ipotizzare il caso di un soggetto che anche non masochisticamente chieda, comunque, quale prestazione remunerata, alla prostituta, (la quale comunque si presenti esteriormente ed atteggi in maniera particolarmente eccitante) di insultarlo e minacciarlo, perché in tale modo trae godimento sessuale, come, analogamente, si può ipotizzare il caso di chi, invece, intenda sfogare il proprio desiderio latente assumendo la veste di chi, viceversa, insulta o minaccia chi si prostituisce, remunerando tale prestazione a sfondo sessuale.
Ed ancora che dire di coloro che chiedano di raccontare o simulare esperienze erotiche o di leggere brani di testi erotici a persone che, contro il pagamento di somme di danaro, si presentino come a loro piena disposizione, ed attraverso tale pratica raggiungano la loro soddisfazione erotica.
Oppure si può citare l’esempio di coloro che ottengano sfogo alla loro brama, ascoltando altri che simulino per telefono orgasmi od atti sessuali, che, invece, non sono effettivamente compiuti.
In questi casi, infatti, si è in presenza di una plurima manifestazione di atti di disposizione del proprio corpo, attesa la contestuale utilizzazione di più parti dello stesso, atteso sia l’uso di una voce (più o meno suadente) in relazione a tematiche erotiche e la esposizione di altre parti del corpo a forte carica eccitante.
E che dire, poi, delle fotografie e di tanti noti calendari che ritraggono pose particolarmente provocanti.
Forse che essi non assolvono – anche se non primariamente e dichiaratamente forse – alla funzione di suscitare eccitazione in chi guardi tali immagini?
A parere di chi scrive, quindi, l’adesione all’impostazione conferita allo specifico problema dal Supremo Collegio, comporta il rischio tutt’altro che trascurabile di un’estensione rilevante delle condotte che possano ricadere nel concetto di prostituzione.
Gli esempi avanzati, ancorchè frettolosi e sommari, ne sono testimonianze concrete.
Se, infatti, l’equazione costitutiva il lemma prostituzione, secondo la vigente giurisprudenza, si articola in:
1. generico atto dispositivo del proprio corpo a sfondo sessuale da parte di chi si prostituisce;
2. raggiungimento della soddisfazione sessuale da parte del destinatario dell’atto;
3. interazione fra la condotta prostitutoria ed il risultato della stessa;
4. pagamento di un corrispettivo per l’azione, è evidente che la asserita non necessarietà del contatto fisico fra chi si prostituisce e cliente apre vere e proprie praterie interpretative in relazione alla possibilità di configurare sia il fenomeno che le collaterali e consequenziali ipotesi di punibilità.
Va, quindi rilevato che la Suprema Corte pone, poi, uno specifico accento sulla possibilità che i soggetti interessati, cioè chi compia l’atto e chi ne fruisca, versino nella condizione di cd. interazione, situazione che si assume si possa verificare anche se costoro si trovino in luoghi diversi, purché i medesimi siano collegati, attraverso internet, in videoconferenza.
Tale interpretazione deriva dalla considerazione che si reputa possibile per l’utente-beneficiario della prestazione sessuale che si trovi in luogo distinto e differente da quello in cui sia la prostituta, di interagire con essa, così da poter chiedere (non diversamente da quanto potrebbe verificarsi nell’ipotesi di contemporanea presenza nello stesso luogo) a costei il compimento di atti sessuali determinati, che vengono effettivamente eseguiti e immediatamente percepiti e fruiti da colui che ordina la prestazione sessuale a pagamento.
Più che di interazione, però, a parere di chi scrive, in relazione al fenomeno della prostituzione si dovrebbe parlare di contestualità.
Interazione, infatti, tra i tanti significati semantici riconosciuti, può assumere quello relazione od influenza reciproca fra due persone.
Tale definizione non pare, quindi, affatto sufficiente a delineare il rapporto che deve instaurarsi fra soggetto che si prostituisce e cliente, in quanto appare assolutamente generico ed omnicomprensivo; ergo fuorviante.
Come detto, più pertinente parrebbe la nozione di contestualità come espressione di due o più condotte che si estrinsecano con carattere di reciprocità e sinallagmaticità nello stesso momento.
In questo modo, però, l’ipotesi di prostituzione virtuale verrebbe ad essere seriamente esclusa.
Comunque la si pensi, il concetto di interazione, usato in giurisprudenza costituisce, a parere di chi scrive, una distorsione interpretativa dell’archetipo normativo dato dalla L. 75/58.
Se, infatti, si aderisce ad una simile impostazione giurisprudenziale, che pone, pertanto, al centro del rapporto assieme alla soddisfazione sessuale del destinatario, l’astratto concetto di relazione, per vero astratta, fra i soggetti tra loro in contatto indiretto, si può incorrere in una serie di parrossistiche quanto sconcertanti conseguenze.
In effetti, in applicazione dell’orientamento esposto si è, infatti, ritenuto che correttamente fosse stata qualificata come attività di prostituzione, con conseguente configurabilità dei reati di favoreggiamento e sfruttamento della medesima, quella posta in essere da ballerine di un locale notturno le quali, a fronte del pagamento di un sovrapprezzo da parte di singoli clienti, accettavano di appartarsi con costoro per farli assistere da vicino, ma senza necessariamente dar luogo a contatto fisico, a spogliarelli accompagnati da danze e gesti a contenuto erotico [Cfr. Cass. pen. Sez. III, 12 Febbraio 2003, n. 13039 (rv. 224116) *********].
La massima che precede appare significativamente indicatrice di una volontà di estendere nella misura massima possibile il concetto di prostituzione, facendo rientrare in tale contesto anche situazioni che sono sempre rimaste del tutto estranee alla stessa.
Si pensi allora, sempre per rimanere rigorosamente collegati all’esempio portato dalla massima, a danze a contenuto dichiaratamente erotico che vengono ballate in locali ove il pubblico entra a pagamento e, quindi, versa danaro per assistere ad una prestazione suscettibile di provocare piacere sessuale in chi vi assista.
In questo caso le danzatrici, pur non svolgendo dichiaratamente attività di prostituzione, compiono atti che oggettivamente possono rientrare nella nozione in questione.
Simile volontà giurisprudenziale è, quindi, finalisticamente tesa a fornire una risposta eminentemente repressiva di un fenomeno, la prostituzione che, seppur appare certamente suscettibile di rilevanza penale, in relazione alla presenza di soggetti (i lenoni) che da essa traggono indubbi ed illeciti vantaggi economici, non può essere solamente affrontata, in carenza di una legislazione opportunamente modulata a fronteggiare situazioni di novità, con estemporanee soluzioni interpretative giurisprudenziali.
A parere di chi scrive, proprio per evitare che si giunga a veri e propri paradossi punitivi e per non creare una esasperata criminalizzazione di condotte, allo stato, estranee alla previsione testuale della L. 75/58 ed al concetto prodromico di prostituzione, forzando, così, in modo patente il dato normativo oggettivo, costruito in epoca nella quale il sesso virtuale era espressione che poteva indurre ad una risata, si deve – allo stato – ricondurre interpretazione del concetto di prostituzione entro dettami di maggiore rigore ermeneutico e ragionevolezza.
Si tratta dell’atavico problema, per cui non si può e non si deve, infatti, correre il gravissimo rischio di confondere il giudizio morale con il giudizio penale, dando vita ad inammissibili forme di giurisdizionalismo.
E seppur è incontrovertibile (checchè ne pensi i supremi giudici) che la legge penale e la sua applicazione subisce sempre la spinta ed il peso che proviene da contingenti valutazioni e situazioni, morali, sociali e culturali, non si può assolutamente colmare eventuali lacune della legge penale, sopperendo, quindi, a mancate previsioni od evoluzioni, tramite il ricorso ad interpretazioni che stravolgano le fondamenta giuridiche di un complesso di regole e solo per adeguarsi ad un sentir comune non codificato.
E’ evidente che ai giorni odierni viviamo nella carenza di una normativa che adeguatamente affronti il tema della prostituzione non solo sul piano penale in generale e su quello squisitamente repressivo in particolare, ma soprattutto prevenga il triste fenomeno ed offra situazioni concrete di seria uscita dal labirinto criminoso in favore di chi effettivamente (e non solo per calcoli opportunistici) ne voglia uscire.
Chi scrive non intende certo farsi paladino di comportamenti che appaiono biasimevoli e censurabili, ma è evidente che il principio di stretta legalità non può soffrire alcun tipo di deroghe, neppure in situazioni di significativo allarme sociale.
Non si può passare dalla legislazione dell’emergenza alla giurisprudenza dell’emergenza.
Né si può soggettivamente modificare ed anticipare la soglia di rilevanza penale di una condotta, al fine di evitare zone di impunità che potrebbero emergere nelle maglie di una legge superata e logorata dal tempo.
Pare di poter affermare che la scelta giurisprudenziale di conferire valenza anche a situazioni, che prescindano dal contatto carnale fra chi offre e chi riceve la prestazione sessuale, presenti notevoli analogie con l’orientamento, maturato in tema di stupefacenti, in base al quale – per la configurazione del delitto di offerta in vendita o di cessione – è sufficiente un presunto incontro di volontà degli interessati, prescindendo dalla traditio della sostanza.
Entrambe paiono scelte elaborate dalla giurisprudenza che lasciano oltremodo perplessi e sconcertati.
Si deve, quindi, affermare che in assenza di norme, chiare ed univoche in relazione al tema della prostituzione, non si può soggettivamente ed abnormemente estendere il concetto di prostituzione, onde inserire impropriamente al suo interno sia condotte estranee allo stesso, che concetti metagiuridici.
L’inadeguatezza della Legge Merlin, frutto di un’idea assolutamente demagogica e populista, che non ha affatto risolto – ed anzi semmai ha aggravato – l’endemico problema della prostituzione è stata riaffermata più volte, ma, al di là di altre dichiarazioni puramente e cinicamente demagogiche, il legislatore (di qualsiasi colore e fazione politica) nulla ha fatto.
La vera soluzione del problema, per il sottoscritto, è, quindi, un urgente intervento organico sul piano legislativo, certamente non estensioni applicative di norme che rischiano soltanto di creare ulteriori incertezze e distonie fra il piano giuridico e quello fattuale.
Nell’attesa di tale intervento risolutivo, sia sufficiente un’applicazione delle norme vigenti, coerente con lo spirito delle stesse e senza fughe in avanti.
Certo è che se dovessimo spiegare a qualche avvocato o magistrato che abbia cessato da tempo l’attività forense che negli ultimi anni con l’avvento della telematica è stato elaborato ed accolto dalla giurisprudenza il concetto di prostituzione virtuale, costoro indubbiamente ci guarderebbero stupiti e forse offesi, perché crederebbero che li stiamo prendendo in giro.
 
 
 
[1] Riv. Pen., 2005, 31.
[2] Guida al Diritto, 2005, 2, 95, Guida al Diritto, 2005, ******* 2, 72.
[3]Ulteriore conseguenza è stata quella che ben può integrare il favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (articolo 3 della legge 20 Febbraio 1958 n. 75) la condotta del gestore di un locale ove vengano organizzati spettacoli di spogliarello riservati a singoli clienti e realizzati in appositi box (cosiddetti privè), nel corso dei quali le ballerine si spoglino e i clienti, contro il pagamento di una somma di denaro, possano toccarle e palpeggiarle.
[4] Massima redazionale, 2006.
 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 21 marzo 2006 – 3 maggio 2006, n. 346
MOTIVAZIONE
Nel corso delle indagini avviate dalla Polizia Postale dì Udine ai fini di prevenzione e repressione di reati commessi tramite web, emerse che era coinvolto in un giro di rapporti che rendevano possibile intrattenere via web.chat conversazioni con delle giovani che, a richiesta dell’interlocutore, si esibivano in atteggiamenti sessualmente espliciti e verso un corrispettivo rappresentato dal costo della chiamata. Pertanto, con decreto in data 18.11.2005 il PM presso il Tribunale di Udine dispose, nei confronti del predetto T. e in relazione ai reati di cui agli artt.81 capv-UO cp e 3 co.l n.8 1.75/58, perquisizione locale ed eventuale sequestro, in forza del quale venne sequestrato vario materiale informatico dettagliatamente descritto nel relativo verbale.
Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, eccependo, tra l’altro, l’insussistenza del fumus del reato ipotizzato. Il Tribunale di Udine, in accoglimento dell’istanza di riesame, con ordinanza del 23.12.2005 revocò il sequestro, non ravvisando il fumus del menzionato reato, dal momento che il concetto di prostituzione, non espressamente definito dal legislatore, dovrebbe necessariamente collegarsi a un rapporto sessuale reale e non virtuale; si sosteneva che "non pare si possa estendere la nozione di prostituzione sino a comprendervi le esibizioni delle ragazze", in quanto certamente "non ogni esibizione del proprio corpo a fini sessuali e dietro corrispettivo può essere considerata prostituzione". Il Tribunale citava le sentenze di segno contrario di questa Corte, dalle quali tuttavia apertis verbis dichiarava di dissentire.
Tale ordinanza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal PM presso quel Tribunale, il quale, richiamando in termini le citate decisioni di questa Corte, deduce che "l’ubi consistam dell’attività di meretricio deve ravvisarsi non certo nel semplice compimento di un atto sessuale verso corrispettivo finalizzato al soddisfacimento dell’altrui istinto di concupiscenza, ma bensì in un atto di disposizione e commercio del proprio corpo, tale per cui il compimento della prestazione divenga oggetto di un rapporto sinallagmatico tra il singolo cliente e la singola prostituta, la quale si presti al compimento di atti sessuali determinati, assecondando la specifica richiesta del cliente per soddisfarne l’istinto sessuale".
Il ricorso è fondato. La questione, come puntualizzato anche nell’ordinanza impugnata, consiste nel verificare se la condotta posta in essere dalle ragazze che si esibiscono, con le modalità sopra precisate, in atti a carattere esplicitamente sessuale e le cui performances sono cedute a pagamento per via telematica, possa qualificarsi come prostituzione. Questa Corte ha costantemente precisato che la nozione di prostituzione, anche se non definita legislativamente, corrisponde a un tipo normativo, che è stato delineato dalla giurisprudenza e non può, perciò, essere individuata in base a criteri di valutazione meramente sociali o culturali. In tale ottica è stato ripetutamente affermato che l’elemento caratterizzante l’atto di prostituzione non è necessariamente costituito dal contatto fisico tra i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un qualsiasi atto sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e risulti finalizzato, in via diretta ed immediata, a soddisfare la libidine di colui che ha chiesto o che è destinatario della prestazione (interpretazione ormai consolidata di questa Corte regolatrice, sez.III, 22.4.2004 n.534, ********; 22.4.2004, ********; 3.6.2004 n.737, *****). In effetti, l’aspetto che prima di ogni altro lede la dignità della prostituta è quello per cui ella mette il proprio corpo alla mercè del cliente, disponendone secondo la volontà dello stesso. Alla stregua di tali criteri, non può revocarsi in dubbio che l’attività di chi si prostituisce può consistere anche nel compimento di atti sessuali di qualsiasi natura eseguiti su se stesso in presenza di chi, pagando un compenso, ha chiesto una determinata prestazione al fine di soddisfare la propria libidine, senza che avvenga alcun contatto fisico tra le parti. Tale nozione è conforme allo spirito della 1.75/58 che -nel sanzionare penalmente i comportamenti diretti alla induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione e gli altri descritti dalla norma- rende chiaro, in relazione alla gravità delle pene previste per tali fatti, il disvalore sociale attribuito, secondo il comune sentire, ad atti che implicano l’uso strumentale della propria sessualità per riceverne un corrispettivo. Non può, pertanto, essere ritenuto determinante, ai fini della configurabilità dell’atto di prostituzione, l’elemento del contatto fisico tra il soggetto che si prostituisce e il fruitore della prestazione, mentre lo è quello della interazione tra l’operatrice e il cliente, che sussiste nella fattispecie in esame. Ed invero, precisata nel senso indicato la nozione di prostituzione -ovviamente legata per la sua rilevanza penale all’esistenza di condotte vietate dalla 1.75/58- è irrilevante il fatto che chi si prostituisce e il fruitore della prestazione si trovino in luoghi diversi, allorché gli stessi risultino, come appunto nel caso in esame, collegati, tramite internet, in videoconferenza, che consente all’utente della prestazione, non diversamente da quanto si verifica nell’ipotesi di contemporanea presenza nello stesso luogo, di interagire con chi si prostituisce, in modo da poter chiedere a questo il compimento di atti sessuali determinati, che vengono effettivamente eseguiti e immediatamente percepiti da colui che chiede la prestazione sessuale a pagamento.
Peraltro, l’elemento della interazione -che consente di distinguere tra prostituzione, anche se virtuale o a distanza, e mera esibizione del proprio corpo- chiaramente non è ravvisabile in riferimento alle ipotesi similari (o ritenute tali) -elencate nell’ordinanza impugnata a dimostrazione della paventata eccessiva dilatazione della nozione di prostituzione che conseguirebbe a quella qui accolta- quali il rapporto tra fruitore e attrice di film ovvero riviste a contenuto pornografico; il rapporto tra lap dancers e clienti dei locali ove le stesse si esibiscono (salve, beninteso, la riconducibilità al concetto di prostituzione di quelle attività ulteriori rispetto alla semplice esibizione, in relazione alle quali il cliente cessi di porsi come mero spettatore passivo).
L’assunto del Tribunale da un lato non è sorretto da un convincente apparato argomentativo, perché fondato in sostanza in riferimento alle dette ipotesi pacificamente non integranti il meretricio (e che, trascurando l’elemento distintivo della interazione, si sostiene assimilabili a quella in esame); e dall’altro, condurrebbe all’assurdo di espungere dalla nozione di prostituzione anche quei casi -notoriamente non infrequenti- in cui la prostituta, per assecondare desideri particolari del paziente, compia, alla presenza dello stesso e dietro sua specifica richiesta, atti sessuali su se stessa o su altra donna, senza che intervenga contatto fisico alcuno con il cliente stesso. La valutazione del giudice del riesame non è, pertanto, conforme alla corretta interpretazione della 1.75/58, nella parte in cui esclude che le prestazioni sessuali eseguite in videoconferenza con il fruitore della stessa tramite internet -in modo da consentire a quest’ultimo di interagire in via diretta ed immediata con chi esegue la prestazione, chiedendogli il compimento di determinati atti sessuali-assuma il valore di atto di prostituzione e possano configurarsi i reati oggetto di indagine a carico di coloro che abbiano reclutato gli esecutori delle prestazioni o ne abbiano consentito lo svolgimento, creando i necessari collegamenti via internet, o ne abbiano tratto un guadagno. L’ordinanza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, nella conseguente valutazione, si uniformerà ex art.627 co.3 cpp ai principio di diritto qui affermato.
P.Q.M.
La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Udine.
Così deliberato il 21.3.2006.
Depositata in cancelleria il 3 maggio 2006.
IL CONSIGLIERE EST.
IL PRESIDENTE
 

Zaina Carlo Alberto

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