La mediazione obbligatoria tra dubbi di costituzionalità, opportunità e rischi

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La mediazione obbligatoria introdotta dal decreto legislativo n. 28 del 2010, benché entrata in vigore solo da qualche mese, ha già collezionato critiche, mobilitazioni professionali e dubbi di costituzionalità come raramente era accaduto finora ad un istituto processuale.

Orbene, senza alcuna pretesa di completezza espositiva o particolare approfondimento della materia, si ritiene comunque opportuno affidare alle prossime righe alcuni brevi spunti di riflessione sull’argomento.

Con ordinanza n.3202, la I Sez. del Tar del Lazio ha sollevato questione di costituzionalità dinanzi alla Consulta della mediazione obbligatoria in ordine a vari punti: il carattere obbligatorio della previa mediazione, la rilevabilità d’ufficio dell’eventuale violazione dell’obbligo, l’individuazione dei soggetti abilitati a costituire organismi deputati alla mediazione.

I profili di criticità costituzionali sui quali si è concentrata l’attenzione del giudice amministrativo riguardano sia l’ambito procedurale, concernente l’adeguatezza della “copertura” da parte della legge delega di tutti i punti contenuti nel decreto legislativo, sia quello sostanziale, relativo alla compatibilità del nuovo istituto con il diritto di difesa come riconosciuto e tutelato nell’art. 24 della Cost.

Le censure evidenziate in dottrina, riguardo alla costituzionalità, possono essere schematicamente ricondotte a quattro profili:

  1. Violazione degli artt.76 e/o 77 Cost. : in questa prospettiva – si rileva – la mediazione obbligatoria non era prevista dalla legge delega n. 69/2009 e/o contraddice e supera i principi in essa contenuti. In particolare le riserve espresse e i motivi di contraddizione tra il decreto legislativo e la legge delega, secondo la dottrina, riguarderebbero a) la previsione della mediazione come condizione di procedibilità, che, oltre a non trovare riscontro nella legge delega, cozzerebbe con il principio rinvenibile in quest’ultima secondo cui la mediazione deve essere finalizzata alla conciliazione e realizzata “senza precludere l’accesso alla giustizia” b) la previsione che la mancata partecipazione al procedimento di mediazione senza giustificato motivo può essere considerato argomento di prova nel successivo giudizio; c) la previsione che il mancato assolvimento da parte dell’avvocato di informare per iscritto il cliente della possibilità di avvalersi della mediazione e dei relativi benefici fiscali nonché dei casi in cui la stessa è condizione di procedibilità fa sì che il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile.

  2. Violazione dell’art. 24 Cost.: il contrasto deriverebbe dal fatto che, imponendo la mediazione, il legislatore frustrerebbe le ragioni di chi ha subito un torto costringendolo a rinunciare a qualcosa o comunque a correre il rischio di cui all’art. 13 e comunque dalla circostanza che la mediazione obbligatoria si risolverebbe in un ostacolo intollerabile all’esercizio del diritto di difesa.

  3. Violazione dell’art. 102 Cost.: essa conseguirebbe alla sostanziale assimilazione del mediatore, in conseguenza della imparzialità riconosciutagli dal legislatore, al giudice.

  4. Violazione dell’art. 3 Cost.: l’antinomia, in questo caso, discenderebbe dal fatto che la rinuncia e il rischio di cui sopra il legislatore li avrebbe posti, irragionevolmente, “sempre e solo sull’attore e non sul convenuto, e sempre e solo sulla domanda principale e non su quella riconvenzionale, che infatti la legge non subordina mai alla previa mediazione” .

Orbene, per ciò che concerne il primo profilo di costituzionalità, affermare che nella legge delega manchi qualsiasi indicazione che possa legittimare la scelta della mediazione obbligatoria appare sinceramente fuorviante oltre che poco rispettoso degli ordinari criteri ermeneutici.

In realtà è nell’introduzione stessa della mediazione (o, quantomeno, nel potenziamento delle sue possibilità applicative) nell’ambito di un sistema processuale come il nostro che va vista la finalità deflattiva (benché non esclusiva) dell’intervento normativo del legislatore delegante.

Ritenere il contrario significherebbe pensare che il dato normativo viva di vita propria e non debba essere calato (sempre e comunque) nella realtà ambientale alla quale è destinato.

La ratio di una normativa come quella in esame non può essere letta separatamente dalle esigenze sociali che la stessa è chiamata a soddisfare: rinunciare a ciò vorrebbe dire rinunciare alla funzione stessa del diritto.

Pretendere di trovare una puntuale traccia della volontà deflattiva nelle singole disposizioni di una normativa anche quando la logica complessiva di quest’ultima è palese, significa esasperare il dato letterale a detrimento della ragione profonda, dello scopo ultimo di una legge.

Risulterebbe davvero stravagante che la Corte rilevasse l’incostituzionalità di una norma, quale l’art. 5 del decreto (mediazione obbligatoria), per eccesso di delega, trascurando che il significato più coerente e rispettoso della disposizione si coglie solo nella prospettiva di un rafforzamento dello strumento voluto dalla legge delega.

Non convince nemmeno l’idea che nella figura del mediatore, nella mediazione obbligatoria, sia ravvisabile una sorta di giudice la cui creazione da parte del legislatore si sarebbe posta in contraddizione con il divieto costituzionale di istituire giudici straordinari o speciali.

Invero, l’imparzialità che contraddistingue il mediatore costituisce aspetto imprescindibile e connaturato alla posizione di qualunque terzo che sia chiamato a svolgere un (qualsiasi) ruolo in relazione ad una controversia: in mancanza, sarebbe lo stesso connotato di terzietà a venir meno ed il compito assegnato al soggetto a risultarne stravolto.

Né, per altro verso, la previsione come argomento di prova della mancata partecipazione di una parte al procedimento e le conseguenze patrimoniali di cui all’art. 13 in caso di rifiuto della proposta, appaiono elementi decisivi a trasformare la mediazione in un (altro) grado di giudizio e il mediatore in un giudice.

E’sicuramente innegabile che il legislatore abbia inteso spingere le parti verso una soluzione bonaria della controversia (forse) come mai prima d’ora, ma ciò non autorizza certo a ritenere che, per ciò solo, sia stata oltrepassata la linea di demarcazione tra una soluzione agevolata ed una imposta.

Circa il presunto contrasto con l’art. 24, fondato sull’asserita incidenza negativa che una condizione di procedibilità come quella in esame potrebbe spiegare sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale statuale, poi, viene spontaneo considerare, ancorché in maniera assolutamente provocatoria, che qualora, a regime, si constatasse che il contenzioso nelle aule giudiziarie si è ridotto al 70-80 % del totale, allora risulterebbe problematico argomentare la tesi secondo la quale tale istituto ha introdotto nel sistema un fattore di aggravio dei costi e di rallentamento dei tempi processuali.

Sarebbe, al contrario, abbastanza agevole evidenziare che sia i costi che i tempi si sono ridotti, e ciò a livello complessivo: infatti, all’ovvio risparmio per coloro che hanno conciliato si aggiungerebbe verosimilmente il risparmio (anche in questo caso sia di tempi che, conseguentemente, di costi) per coloro che hanno adito la giustizia, conseguente al minor carico giudiziario da smaltire.

Né, sotto altro profilo, si può sottovalutare la portata innovativa di uno strumento che, lungi dal proporsi il mero superamento della lite attraverso la consueta applicazione delle canoniche categorie del torto e della ragione, mira al soddisfacimento degli interessi reciproci delle parti e, possibilmente, alla conservazione di una relazione amichevole tra le stesse, con l’effetto di annullare o quantomeno ridurre il rischio che sempre si accompagna alla pronuncia di una sentenza, quello cioè che la stessa sia a sua volta, a causa del prevedibile conseguente deterioramento dei rapporti intersoggettivi, fattore generatore di ulteriore futuro contenzioso tra gli interessati.

Con ciò non si intende certo sostenere che la mediazione obbligatoria rappresenti la panacea di tutti i mali della giustizia ma unicamente che tale istituto, se correttamente utilizzato ed applicato, potrà fornire, preferibilmente in concorso e coordinamento con altri, un valido contributo per attenuare (e quindi consentire di gestire meglio) i problemi atavici della macchina giudiziaria.

Né tale conclusione sembra priva di un qualche ancoraggio al dato normativo.

Invero, a seguito della L. cost. 23. 11.1999. non può residuare alcuna perplessità circa l’esigenza che l’art. 24 della Cost. vada letto in combinazione con l’art 111 Cost.

Il principio della ragionevole durata del processo ivi contenuto, ha definitivamente risolto i dubbi (se mai ve ne fossero) che il diritto di difesa non può essere inteso come mero accesso al processo, quasi che l’esigenza ad esso sottesa sia soddisfatta per effetto della semplice possibilità della proposizione di una domanda giudiziale, ma va concepito come diritto ad ottenere una sentenza che riconosca e tuteli la situazione giuridica di chi ha ragione in tempi certi e definiti.

Spianare la strada nella fase dell’instaurazione del giudizio, lasciando però nel contempo irrisolti tutti i problemi che caratterizzano la fase istruttoria e quella della decisione, rappresenta soltanto un’illusione di giustizia.

E’ in tal senso che va letta ed interpretata la posizione oramai consolidata della Corte Costituzionale secondo cui l’art. 24 Cost. non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre allo stesso modo e con i medesimi effetti, e non vieta quindi che la legge possa subordinare l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale.

Rispetto all’obiettivo di uno snellimento del contenzioso giudiziario, per altro verso, l’introduzione nel nostro sistema del meccanismo offerto dalla cd. Legge Pinto non si è rivelata affatto uno strumento efficace, anzi.

Il principio della monetizzabilità della eccessiva lunghezza del processo, invero, evoca l’immagine di un cane che si morde la coda: le inadempienze e i ritardi dello Stato apparato (giustizia) vengono addossati allo Stato comunità (contribuente), ed assomiglia molto di più ad una resa del legislatore alla propria incapacità di elaborare una soluzione convincente al problema.

Ma, soprattutto, sembra ribadire quella tendenza, sempre più forte nella moderne società occidentali – ma certo non per questo da assecondate – a mettere sullo stesso piano e a confondere il calendario con il tempo.

Meno comprensibile, viceversa, appare la scelta del legislatore, quale si ricava dal tenore dell’art. 13, di far ricadere unicamente sull’attore possibili conseguenze negative del fallimento del tentativo di mediazione.

Se la disposizione va letta come espressione dell’intento legislativo di sanzionare un inutile dispendio di risorse giudiziarie, allora logica avrebbe richiesto che fossero equiparate le posizioni dell’attore e del convenuto, in quanto è abbastanza evidente che tale rischio può conseguire tanto ad un abuso del diritto da parte dell’attore quanto ad un atteggiamento ingiustificatamente ostruzionistico da parte del convenuto.

E di tanto era ben consapevole il legislatore del codice di rito nel momento in cui all’art. 96 nel disciplinare la responsabilità aggravata ha considerato allo stesso modo attore e convenuto.

D’altro canto, è fuori discussione che all’art. 13 , oltre che all’art. 8 co.5° e, ovviamente, alla formazione del mediatore, il legislatore ha affidato gran parte delle speranze di successo della mediazione.

Pensare di spingere i soggetti in lite ad avviare un tentativo di mediazione senza alcun meccanismo idoneo a spingerli, contemporaneamente, verso una soluzione concordata avrebbe significato unicamente ripetere esperienze del passato – solo con qualche vincolo in più – che non hanno dato buona prova di sé e soprattutto non hanno consentito di conseguire risultati degni di rilievo.

Per altro verso, appare indubbio che l’efficacia dello strumento dipenderà in primo luogo dall’interpretazione che s’imporrà e dall’applicazione che esso riceverà nella prassi.

In relazione a ciò, si è posto il problema del criterio in base al quale valutare il collegamento tra la proposta del mediatore ed il provvedimento giudiziale che definisce la controversia.

Al riguardo il panorama dottrinario si presenta già abbastanza diviso: vi sono, innanzitutto, coloro che, pur ritenendo la norma ragionevole, manifestano scetticismo su una sua efficace utilizzazione, e ciò perché operando i due atti su due diversi livelli sarebbe abbastanza inverosimile che gli stessi possano coincidere integralmente nel loro contenuto; vi è, all’opposto, chi , enfatizzando il meccanismo disegnato all’art. 13, esclude che la proposta possa avere come riferimento gli interessi delle parti.

Al riguardo più equilibrata, oltre che metodologicamente corretta, appare la soluzione che distingue tra proposte facilitative (basate sugli interessi) e proposte valutative in senso stretto (basate sull’applicazione di norme giuridiche). Le prime, preferibilmente, andranno formalizzate solo allorquando il mediatore già sa che l’accordo è raggiunto, con la conseguenza che la proposta e l’accordo, dal punto di vista formale saranno logicamente e documentalmente contestuali. Le seconde, al contrario, potrebbero essere formulate, come extrema ratio, qualora il mediatore ritenesse che la loro formalizzazione, in relazione alle circostanze del caso concreto ed all’efficacia deterrente collegata all’eventuale rifiuto, potrebbe ancora presentare qualche margine di successo.

La necessità di coniugare l’ampia funzione del mediatore (come voluta e disegnata dal legislatore in relazione all’obiettivo assegnato alla mediazione) con il ruolo di stimolo chiaramente affidato al meccanismo di cui all’ar. 13, lascia decisamente preferire la soluzione più elastica che, evitando di ingessare un possibile epilogo del procedimento, consente di esaltare le capacità del mediatore e con esse le possibilità di conseguimento dell’obiettivo da parte della mediazione.

In conclusione appare d’uopo rilevare che la mediazione disciplinata all’art.5 del decreto prima e ancor più che obbligatoria, nell’attuale stato della giustizia civile appare obbligata.

Non si può condividere l’assunto secondo cui la mediazione può essere onerosa o obbligatoria ma non entrambe le cose, in quanto l’esperienza giuridica, in particolare processuale, ha ampiamente dimostrato che, se è solo l’una o l’altra cosa, purtroppo non funziona.

Tale conclusione non vuole e non deve nascondere i rischi collegati ad un uso non corretto dello strumento, rischi che le prime applicazioni già fanno intravedere e temere e che, a mero titolo esemplificativo, si possono identificare nel mercato delle vertenze tra organismi di conciliazione ed avvocati o procacciatori; nella scelta dell’organismo di conciliazione, ad opera della parte, secondo criteri diversi dal merito; selezione, da parte dell’organismo di conciliazione, del mediatore cui affidare la procedura secondo una logica clientelare piuttosto che di competenza; corsi di formazione ispirati unicamente a finalità di profitto con conseguente scarsa preparazione dei mediatori, concorrenza al ribasso nella qualità del servizio offerto.

Tali rischi danneggiano, in primo luogo, chi da anni, con coraggio e con convinzione, si batte per l’affermazione dello spirito (prima ancora dell’istituto giuridico) della mediazione.

E’evidente che solo un’attenta, scrupolosa ed equilibrata attività di controllo e monitoraggio da parte delle competenti autorità sarà in grado di prevenire o quantomeno di circoscrivere il problema.

V. G. SCARSELLI. La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in www.judicium.it

Si sostiene che “l’art. 60 della l. 69/09 semplicemente disponeva di prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione fosse realizzata senza precludere l’accesso alla giustizia. Il d. lgs. 28/10, al contrario, ha reso in molti casi la mediazione una condizione di procedibilità della domanda (art. 5), cosa non prevista dalla legge delega, e forse anche in contrasto con la stessa nella parte in cui, appunto, non voleva che la mediazione precludesse l’accesso alla giustizia. SCARSELLI, op. cit.

V. G. SCARSELLI, op. cit. per il quale non si comprendono le ragioni per le quali la parte che ritenga di avere pienamente ragione debba per forza sottoporsi ad una procedura di mediazione, e per forza vedersi costretta ad accettare oppure a rifiutare una proposta di conciliazione, in contrasto peraltro, con le stesse direttive europee, e forse anche con lo stesso art. 24.

G. MONTELEONE, La mediazione forzata in www.judicium.it secondo il quale la mediazione preventiva così concepita e disciplinata intralcia il libero esercizio dell’azione civile.

G. MONTELEONE, op. cit. Per tale autore il cd. mediatore imparziale assumerebbe la veste di un giudice dando così vita alla creazione di una giurisdizione speciale o straordinaria così come è stato ripetutamente deciso dalla Corte Costituzionale a proposito degli arbitri obbligatori

Così V. G. SCARSELLI, op. cit.

Corte Cost., 21 gennaio 1988, n. 73; 13 aprile 1977, n. 63; sul punto, non può non richiamarsi anche la recente sentenza della Corte di Giustizia CE, IV, 18 marzo 2010.

Molte statistiche rappresentano chiaramente un fenomeno di moltiplicazione del contenzioso che dalla sua applicazione è derivato.

G. P. CALIFANO, Procedura della mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali, Cedam, pagg. 74 e 75

Scarselli, op. cit.

In tal senso sembra R. CAPONI, La giustizia civile alla prova della mediazione. Per l’Autore il mediatore potrebbe come extrema ratio indicare alle parti la strada per un accordo conciliativo, indicazione di cui non rimane traccia a verbale in caso di rifiuto delle parti..

Coppola Francesco

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