La crisi non definitiva della famiglia e la riconciliazione: affievolimento dei doveri ed attuazione dell’assetto patrimoniale della famiglia in crisi

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Sommario 1. Incipit; 2. La separazione personale; 2.1 Questioni controverse in tema di separazione consensuale: La natura dell’accordo ed i rapporti con il decreto di omologazione; 2.2 Accordi “a latere della separazione” e trasferimenti immobiliari; 2.2.1 (segue…) i trasferimenti immobiliari solutori dell’obbligo di mantenimento della prole; 3. I presupposti della separazione giudiziale; 3.1 Gli effetti patrimoniali e personali della separazione giudiziale; 3.1.1 (segue…) L’assegnazione della casa coniugale; 3.1.2 (segue…) L’assegno di mantenimento e le prestazioni alimentari; 4. La richiesta di addebito ed i rapporti con la separazione personale; 5. L’affidamento dei figli; 6. La riconciliazione: la fisionomia dell’istituto in ragione dell’allocazione del momento riconciliativo nelle diverse fasi processuali; 6.1 Gli effetti processuali e sostanziali della riconciliazione; 6.2 La natura giuridica della riconciliazione; 7. Conclusioni

  1. Incipit

Il passaggio dalla concezione pubblicistica a quella privatistica di famiglia si realizza tramite l’allentamento progressivo delle resistenze del vincolo matrimoniale nelle ipotesi di crisi del rapporto coniugale.

Nel previgente assetto normativo l’attenuazione del vincolo coniugale (separazione) costituiva rimedio eccezionale esperibile solo in presenza di elementi di colpa a carico di almeno uno dei coniugi.

La prima tappa di erosione del principio dell’indissolubilità del matrimonio si realizza con l’approvazione della legge 1 dicembre 1970, n. 898 che introdusse la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, aprendo la strada alla successiva riforma del 1975.

Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 il legislatore abdica dalla tutela dell’indissolubilità della famiglia – intesa quale prima cellula della società – segnando il passaggio alla concezione privatistica della stessa, quale formazione sociale (ex art. 2 cost.), all’interno della quale va assicurato il pieno sviluppo dell’individuo.

La rivoluzione copernicana del concetto di famiglia a trazione antropocentrica passa attraverso la rimozione dall’ordinamento del principio di indissolubilità del vincolo matrimoniale, la cui durata viene a modellarsi sulla permanenza del consenso da parte di entrambi dei coniugi.

Sul piano normativo tale risultato viene raggiunto tramite la degradazione del criterio della colpa a mero presupposto per l’addebito, ed il passaggio al criterio oggettivo dell’intollerabilità della convivenza ai fini della separazione personale dei coniugi.

La previsione di un criterio oggettivo, che il diritto vivente ha progressivamente focalizzato sulla permanenza del consenso di entrambi i coniugi – come vedremo di seguito – ha determinato il definitivo tramonto della separazione punitiva – e cioè dell’istituto che consentiva l’attenuazione dei doveri coniugali in ragione della colpa di uno dei coniugi – ed il passaggio alla separazione rimediale, che consente l’attenuazione del vincolo matrimoniale il ragione dell’intervenuta intollerabilità della convivenza.

  1. La separazione personale

L’attuale assetto normativo configura la separazione personale quale diritto dei coniugi (art. 150, co. 3 cod. civ.) da azionare unilateralmente in via giudiziale (art. 151 cod. civ.) laddove la ricorrenza dei presupposti individuati della legge non dipendano dalla volontà del coniuge istante,[1] ovvero consensualmente richiedendo l’omologazione dell’accordo di separazione all’autorità giudiziaria (art. 158 cod. civ.).

La separazione cd. consensuale, ai sensi dell’art. 158 cod. civ., produce gli effetti previsti all’art. 156 cod. civ., nel momento in cui il Tribunale, adito in composizione collegiale ai sensi dell’art. 706 c.p.c., omologa con decreto l’accordo di separazione predisposto e presentato per il vaglio.

Non v’è dubbio alcuno, infatti, che l’autorità giudiziaria deve sottoporre l’accordo di separazione non già ad un mero controllo di regolarità formale, bensì ad un controllo sostanziale che ne vagli la conformità dell’accordo all’ordine pubblico, al buon costume ed alle norme imperative di legge. [2]

In particolare l’accordo di separazione non può contenere previsioni contrarie a norme imperative, né può predisporre un assetto degli interessi patrimoniale e materiali dannosi per il coniuge più debole o pregiudizievole per l’interesse dei figli.

E’ opinione largamente diffusa che il Tribunale non possa intervenire a modifica dell’accordo di separazione potendosi limitare alla mera indicazione delle modifiche necessarie ovvero al rifiuto dell’omologazione.

2.1 Questioni controverse in tema di separazione consensuale: La natura dell’accordo ed i rapporti con il decreto di omologazione

La natura giuridica dell’accordo di separazione ed i rapporti con il decreto di omologazione costituiscono argomenti alquanto controversi in letteratura ed in giurisprudenza.

L’art. 150 cod. civ. stabilisce che la separazione “per il solo consenso dei coniugi” non produce effetto se non omologata dal giudice.

In termini strettamente tecnici l’omologazione è un atto tramite cui l’autorità dichiara la conformità alla legge dell’atto sottoposto al vaglio.

Secondo un impostazione tradizionale, cd. pubblicistica, l’accordo di separazione costituirebbe un mero presupposto per l’omologazione, il quale sarebbe l’unico atto a cui la legge riconosce effetti modificativi dello status coniugale.

In tal senso la Giurisprudenza di Legittimità, non condividendo l’orientamento in voga presso certa giurisprudenza di merito (ex multis Trib. Firenze, sent. 20 dicembre 2009) secondo cui il controllo del giudice dell’omologazione avrebbe dovuto estendersi solo al contenuto necessario dell’accordo di separazione, e cioè alle determinazioni relative al mantenimento dei figli, ha ribadito che la legge “attribuisce all’omologazione l’effetto giuridico di rendere efficace la separazione consensuale, così rimarcando che l’accordo diventa parte costitutiva della separazione in quanto questa sia omologata e ribadendo il principio, già espresso sul piano sostanziale dall’art. 158 c.c., comma 1, in base al quale la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice” (in questo senso anche Cass., 18.9.1997, n. 9287) e che “il provvedimento di omologa presuppone un controllo sulla legittimità degli accordi stessi” (Cass. Civ., sent. 18 settembre 1997, n. 8287).

In senso contrario l’impostazione dogmatica prevalente in letteratura, condivisa anche dalla giurisprudenza maggioritaria, ritiene che l’omologazione sia una mera condizione di efficacia dell’accordo di separazione il quale, collocato al centro del processo di attenuazione del vincolo matrimoniale si configura quale atto essenzialmente negoziale definito “come uno dei momenti di più significativa emersione della negozialità del diritto di famiglia” (D’ANTONIO).

In giurisprudenza tale torica è stata accolta con talune varianti. Secondo i giudici di legittimità il consenso viene in rilievo in due differenti momenti, gradatamente subordinati al vaglio di legittimità del giudice.

Il primo momento consisterebbe nel consenso alla separazione, momento di piena esplicazione di autonomia negoziale, non soggetta al vaglio di legittimità giudiziale; in questo senso è stato escluso che il Giudice possa indagare sui motivi sottesi alla decisione dei coniugi, né sulla validità del consenso.

Il secondo momento sarebbe quello del consenso alle condizioni della separazione, vertente sulla regolamentazione delle modifiche degli assetti patrimoniali della famiglia.

In tale momento il controllo giurisdizionale diviene maggiormente pregnante in quanto al Giudice è rimesso l’onere di accertare la conformità del nuovo assetto alle disposizioni di legge e cioè che il nuovo assetto non si ponga in contrasto con interessi famigliari prevalenti rispetto a quelli disponibili a ciascuno delle parti (in questo senso ex multis Cass. Civ., sent. 20 novembre 2003, n. 13747).

L’accordo di separazione ha natura negoziale ma non contrattuale. Allo stesso, pertanto, non sono applicabili le norme che trovano ragion d’essere nella specificità del contratto stesso; sono, per converso, applicabili all’accordo di separazione le norme generali in materia di capacità giuridica e vizi del consenso.

A tal riguardo è interessante ricordare che la giurisprudenza, in contrasto con la letteratura prevalente, non ha ritenuto applicabile all’accordo di separazione la disciplina della simulazione.

Secondo i Giudici di legittimità la domanda di omologazione dell’accordo sarebbe incompatibile con la volontà dei coniugi di non far produrre effetti all’accordo simulatorio di separazione, realizzando il provvedimento giurisdizionale, la condizione che impediva all’accordo di produrre qualsivoglia effetto giuridico (Cass. Civ., sent. 20 novembre 2003, n. 17607).

Tale impostazione è stata altamente criticata in letteratura anche in ragione dell’inconciliabilità di tali conclusioni rispetto alla tesi della natura privatistica dell’istituto della separazione, richiamata nel preambolo della sentenza citata.

In particolare è stato evidenziato come la realizzazione di una condizione sospensiva, quale è l’omologazione dell’accordo nell’interpretazione privatistica fornita dell’art. 158 cod. civ., non potrebbe in ogni caso sanare la nullità del negozio simulato (OBERTO).

In ragione della natura negoziale, il consenso alla separazione può essere unilateralmente revocato prima dell’udienza fissata ex art. 706, co. 3 cod. proc. civ., ovvero successivamente, nelle ipotesi di riconciliazione (art. 154 cod. civ.).

Controversa è, invece, la revoca unilaterale del consenso nelle more dell’emanazione del provvedimento di omologa, ove tra l’udienza fissata ex art. 708, co. 1 cod. proc. civ. ed il deposito del provvedimento decorra un ragionevole lasso di tempo.

Un impostazione dottrinaria maggiormente sensibile alla natura privatistica dell’accordo, ritiene inammissibile la revoca del consenso in seguito alla formalizzazione all’udienza ex art. 708, co. 1 cod. proc. civ., in applicazione del principio di vincolatività del contratto di cui all’art. 1372 cod. civ.

Tale impostazione non è condivisa dalla giurisprudenza di merito che, per converso, ritiene che “ragioni di buon senso impediscono che si omologhi un accordo di separazione consensuale quando si ha certezza che la volontà di uno dei coniugi è per un qualsiasi motivo mutata” (Corte di Appello di Reggio Calabria, sent. 2 marzo 2006).

A parere dello scrivente l’impostazione della giurisprudenza di merito non è pienamente condivisibile quale principio generale della materia, occorrendo, piuttosto, distinguere i casi in cui la revoca investa il consenso alla separazione, da quelli in cui il consenso alle condizioni di separazione.

Nel primo caso la revoca del consenso alla separazione si configura come proposta unilaterale di riconciliazione e, per tanto, è indubbiamente ammissibile prima dell’omologazione investendo la causa del patto di separazione.

Ne segue che la revoca del consenso alla separazione impedisce l’omologazione dell’accordo in ragione della nullità dell’intero accordo per difetto di causa, essendone venuto meno il motivo comune (cd. presupposizione), con la conseguenza che, in difetto di accettazione della proposta di riconciliazione (tacita o espressa) da parte dell’altro coniuge, il Giudice dovrà pronunciare la separazione personale previa verifica dei presupposti di cui all’art. 151, co. 1 cod. civ..

Viceversa l’accordo sulle condizioni di separazione è soggetto al principio di vincolatività ex art. 1372 cod. civ., risolvendosi in un negozio con causa solutoria degli obblighi coniugali riconducibile al genus delle transazioni.

Ne segue che l’accordo non potrà essere omologato solo nel caso in cui nelle more della fase camerale il coniuge revocante adduca l’esistenza di vizi funzionali dell’accordo tali da giustificare, con parvenza di buon diritto ed alla stregua della disciplina generale del contratto, l’attivazione dei rimedi di diritto contrattuale, in quanto compatibili.

In particolare, a parere dello scrivente, la revoca del consenso alle condizioni della separazione è ammissibile nelle more della fase camerale solo laddove ricorrano i presupposti dell’annullamento per vizio del consenso (artt. 1427 ss cod. civ.), della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 cod. civ.), ovvero della rescissione per stato di pericolo (art. 1427 cod. civ.) e per lesione (art. 1428 cod. civ.).

2.2 Accordi “a latere della separazione” e trasferimenti immobiliari

Già a partire dagli anni ’90 la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità degli accordi “a latere” dell’accordo di separazione.

Si tratta, sostanzialmente, di contratti tramite i quali i coniugi realizzano il nuovo assetto patrimoniale della famiglia in ragione della separazione personale ovvero modificano il precedente assetto costituito dall’accordo omologato.

Occorre distinguere, in linea con la prevalente giurisprudenza, gli accordi coevi o precedenti all’accordo di separazione, soggetto al principio di non interferenza e gli accordi successivi all’omologazione.

Quest’ultimi trovano fondamento giuridico all’art. 1322 cod. civ. (declinata la tesi che riconduceva tali accordi alle donazioni) costituendo strumento vocato alla piena esplicazione dell’autonomia contrattuale anche all’interno dalla famiglia nucleare.

L’accordo successivo all’omologazione dell’accordo di separazione può avere in oggetto anche la modifica di determinazioni contenute nell’accordo omologato. In tali circostanze non si pongono questioni relative all’interferenza in quanto il decreto di omologazione rimane valido, ma inefficacie nella parte integrata dall’accordo successivo, e quest’ultimo produce effetti in virtù della disciplina generale del contratto, con la precipua conseguenza che che non potrà essere impugnato per mera difformità rispetto all’accordo omologato, potendo, al più, dichiararsene la nullità per contrarietà a norme imperative (cd. nullità virtuale) laddove sia provato che lo stesso oltrepassi i limiti posti dall’art. 160 cod. civ., fermo restando l’applicazione della tutela contrattuale.

La validità ed efficacia degli accordi precedenti o coevi all’omologazione dell’accordo di separazione, non confluiti all’interno dello stesso, sono regolate dal principio di non interferenza.

Ne segue che la validità di tali accordi esige il rispetto della condizione negativa che non abbiano in oggetto determinazioni confluite nel regime stabilito nell’accordo omologato.

Alla luce delle predette considerazioni gli accordi precedenti o coevi, affinché siano validi ed efficaci, potranno avere in oggetto una disciplina secondaria che lasci immutate le determinazioni principiali stabilite nell’accordo omologato ovvero una disciplina di esecuzione o attuazione dell’accordo omologato (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 28 luglio 2997, n. 7029).

V’è tuttavia da precisare che dal complessivo panorama giurisprudenziale è ricavabile la circoscrizione del principio di non interferenza alle sole modifiche dell’accordo di separazione che realizzano un sostanziale peggioramento della tutela dell’interesse sotteso all’accordo.

Ne segue che ai fini del giudizio di invalidità dell’accordo precedente o coevo a quello omologato in quanto vertente su determinazioni in oggetto all’accordo omologato, il Giudice ha l’onere di verificare se tale accordo realizzi una maggiore rispondenza degli assetti patrimoniali e materiali della famiglia all’interesse sotteso all’accordo, dovendosi in tal circostanza ritenersi ammissibile la deroga del principio di non interferenza (in questo senso Cass. Civ., sent. 22 gennaio 1994, n. 657).

Hanno parimenti natura contrattuale, costituendo species del genus degli accordi a latere della separazione, gli atti aventi in oggetto trasferimenti immobiliari in occasione della separazione personale o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

La forma e la causa di tali contratti hanno costituito oggetto di un fervido dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Sotto il profilo causale un orientamento più risalente aveva qualificato i contratti immobiliari traslativi stipulati in occasione della separazione o del divorzio quali negozi solutori dell’obbligo di mantenimento del coniuge e/o della prole ex artt. 155 e 156 cod. civ. (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 17 giugno 1992, n. 7470).

Successivamente la giurisprudenza ha fatto ricorso alla disciplina dei contratti atipici con causa familiare, destinati a regolare i rapporti patrimoniali in occasione della crisi coniugale (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 15 maggio 1997, n. 4306); tale orientamento è stato, più recentemente, riaffermato dalla Suprema Corte che ha ritenuto gli accordi in oggetto alla presente analisi, soggetti alla revocatoria ordinaria e fallimentare, proprio in ragione della qualificazione di tali accordi quali contratti atipici (cfr. Cass. Civ., sent. 12 aprile 2006, n. 8516).

La questione relativa alla forma del trasferimento immobiliare in ragione della crisi coniugale è pacifica in giurisprudenza nelle ipotesi in cui tali trasferimenti costituiscono oggetto della sentenza con cui il Giudice pronuncia la separazione o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, atteso che il provvedimento decisorio costituisce titolo per l’iscrizione nei registi immobiliari (cfr. Trib. di Verona, sent. 16 novembre 1987):

Nelle ipotesi di separazione consensuale, invece, anche qualora i trasferimenti siano oggetto dell’accordo omologato, è necessario porre in essere negozi traslativi autonomi sotto il profilo formale.

L’impostazione giurisprudenziale più risalente, in vero, corollario della concezione pubblicistica della famiglia, riteneva qualsiasi accordo successivo all’omologazione nullo, con la conseguenza che qualsiasi trasferimento immobiliare avrebbe dovuto essere autorizzato dal Giudice (in questo senso Tribunale di Napoli, sent. 27 novembre 1929).

Un’ulteriore impostazione ha demandato la stipulazione di tali accordi al notaio, secondo il disposto di cui all’art. 2350 cod. civ., con la conseguenza che qualsiasi accordo traslativo, benché previsto nell’accordo omologato dal Giudice, dovrebbe trovare esecuzione tramite la stipula di un atto notarile (in questo senso v. Tribunale di Verbania, sent. 6 luglio 2002).

La giurisprudenza di legittimità, per converso, si è orientata nel senso di ricondurre il verbale dell’accordo di separazione alla categoria dell’atto pubblico di cui all’art. 2699 cod. civ., ritenendolo titolo idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari ai sensi dell’art. 2657 cod. civ. (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 15 maggio 1997, n. 4306).

2.2.1 (segue…) i trasferimenti immobiliari solutori dell’obbligo di mantenimento della prole

I rapporti con la prole, e i doveri connessi alla responsabilità genitoriale, non si attenuano neanche nelle ipotesi di crisi del matrimonio. Anzi, è a fortiori in tali situazioni, come correttamente sottolineato dalla dottrina, che il dovere di mantenimento irrompe con efficacia conformativa dell’autonomia privata.

In sostanza, poiché le determinazioni relative alla prole devono essere assunte nell’esclusivo interesse della stessa, la Giurisprudenza (Cass. Civ., sent. 17 giugno 2004, n. 11342), sulla scorta dell’orientamento che ha ammesso la validità dell’atto solutorio dell’obbligo di mantenimento del figlio avente in oggetto un’unica prestazione, ha ritenuto che l’accordo solutorio avente in oggetto il trasferimento di beni immobili in ragione della cessazione dell’obbligo di mantenimento non ha le caratteristiche di sinallagmaticità riconosciute all’accordo di omologazione in quanto l’obbligo teleologico di conformare le determinazioni patrimoniali e non nell’esclusivo interesse della prole è incompatibile con l’espressione dell’autonomia negoziale, escludendosi per ciò che tali accordi possano essere ritenuti invalidi ovvero inefficaci in quanto non trasfusi nell’accordo di separazione.

Parte della dottrina (CARBONE), muovendo dalle conclusioni tratte dalla citata giurisprudenza, ha ritenuto che l’accordo traslativo con causa solutoria dell’obbligo di mantenimento della prole deve necessariamente essere perfezionato in sede giudiziale dovendo il Giudice valutare l’effettiva corrispondenza dell’atto traslativo agli interessi della prole.

Nel caso in cui il trasferimento immobiliare non sia causalmente connesso all’obbligo di mantenimento, la disciplina applicabile sarà quella del contratto a favore di terzo (cfr. Cass. Civ., sent. 21 dicembre 1987, n. 9500)

  1. I presupposti della separazione giudiziale

La riforma dell’istituto della separazione giudiziale ha rappresentato un efficacie strumento di transizione dalla concezione pubblicistica della famiglia fondata sull’indissolubilità del matrimonio, a quella privatistica fondata sul perdurare del consenso prestato dai coniugi.

Espunto il requisito della colpevolezza, degradato a mero presupposto per l’addebito della separazione (v. infra sub. 4), la separazione giudiziale viene a configurarsi, in prospettiva rimediale, quale diritto azionabile da ciascuno dei coniugi in ipotesi di fallimento dell’unione coniugale.

Il legislatore ha individuato quali presupposti del fallimento del coniugio l’intervenuta intollerabilità della convivenza ed il grave pregiudizio alla prole.

E’ opinione largamente diffusa in dottrina che il dettato codicistico imponga al giudice una duplice valutazione relativa all’accertamento dei fatti ed all’incidenza degli stessi sull’intollerabilità della convivenza.

I criteri di valutazione dell’incidenza dei fatti sull’intollerabilità della convivenza sono al centro di un fervido dibattito in letteratura.

Una prima impostazione (FORGIUELE) ritiene che la valutazione vada effettuata in applicazione di un criterio soggettivo teso a valorizzare la volontà del coniuge ricorrente, ciò nel senso che sarebbe soltanto il coniuge a poter valutare la tollerabilità della convivenza.

La tesi ermeneutica opposta (FINOCCHIARIO) muovendo dal presupposto che il consenso alla prosecuzione del matrimonio sia esigibile entro i limiti della “media tollerabilità”, fondandosi la prosecuzione del coniugio sul dovere di tolleranza delle condotte mantenute dall’altro coniuge, investe il Giudice di un ampio potere discrezionale nella valutazione dell’incidenza dei fatti accertati sulla tollerabilità della convivenza, potendo negare l’accesso alla tutela rimediale sulla base di una valutazione puramente oggettiva, e cioè indipendentemente dal consenso manifestato dai coniugi.

L’impostazione oggettivistica è stata solo tralatiziamente avvallata dalla Giurisprudenza di Legittimità.

Nella casistica, infatti, di tale criterio è stata data una declinazione fondamentalmente soggettiva tesa a dare rilievo a qualsiasi comportamento tale da recare contrasto tra i coniugi.

Neppure l’opposizione dell’altro coniuge può impedire la separazione in quanto la prosecuzione forzosa della convivenza verrebbe a configurarsi come lesione dei diritti fondamentali del coniuge ricorrente.

A tal riguardo, recentemente la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che per la pronuncia della separazione non è necessario accertare una situazione di conflitto che coinvolge entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione ed allontanamento spirituale inerente ad una sola delle parti.

In tal senso la valutazione in ordine all’incidenza dei fatti accertarti sull’intollerabilità viene a ricondursi all’indagine relativa alla sussistenza di una condizione di disaffezione che coinvolge almeno uno dei coniugi, indipendentemente dalla sussistenza di profili di addebitabilità a carico dell’altro.

Tale declinazione appare compatibile con i principi espressi agli artt. 2 e 29 cost. i quali riconoscono il diritto a ciascuno dei coniugi di chiedere la separazione ed interrompere la convivenza in presenza di condizioni obbiettivamente accertabili che incidono irrimediabilmente sulla capacità di svolgere adeguatamente la propria personalità all’interno della formazione sociale costituita con il matrimonio (in questo senso v. Cass. Civ.,, sent. 9 ottobre 2007, n. 21099).

Brevemente la giurisprudenza ha riconosciuto condotte prodromiche all’intollerabilità della convivenza quelle rese in violazione dell’obbligo di fedeltà (ex multis v. Cass. Civ., sent.18 settembre 2003, n. 13747); l’allontanamento unilaterale e non corrisposto dalla casa coniugale (ex multis v. Cass. Civ., sent. 20 gennaio 2006, n. 1202), nonché i maltrattamenti fisici e morali (ex multis v. Cass. Civ., sent. 7 aprile 2005, n. 7321).

Controversa è l’incidenza della grave patologia che affligge uno dei coniugi in ordine alla tollerabilità della convivenza.

L’approdo risolutivo della giurisprudenza tende ad individuare un perimetro esterno all’obbligo di assistenza morale e materialeoltre cui opera l’intima convinzione del coniuge, non potendo la legge imporre comportamenti oggettivamente insostenibili” (cfr. Cass Civ., sent. 20 dicembre 2005, n. 13021).

Il codice stabilisce che la separazione giudiziale può essere pronunciata anche in ragione di fatti che possano recare “grave pregiudizio alla prole”.

L’autonomia concettuale di tale requisito è stata declinata in giurisprudenza, che lo ha ritenuto requisito accessorio ed eventuale in considerazione del fatto che il pregiudizio all’educazione della prole, quale condizione prodromica alla crisi familiare, si ripercuote primariamente sull’intollerabilità della convivenza, con la conseguenza che la separazione darebbe pronunciata in ragione dell’intervenuta intollerabilità.

Per converso, le ipotesi di grave pregiudizio per l’educazione della prole che non incida sulla tollerabilità della convivenza risultano avocate nell’ambito applicativo degli istituti a tutela della prole previsti agli artt. 330 ss. cod. civ..

3.1 Gli effetti patrimoniali e personali della separazione giudiziale

La separazione dei coniugi comporta una modificazione dello status dei coniugi connotato per l’allentamento del vincolo matrimoniale e per l’attenuazione degli obblighi connessi al coniugio.

Devono distinguersi gli effetti personali dagli effetti patrimoniali.

Il primo obbligo a venire meno già nella fase camerale dell’adozione dei provvedimenti urgenti ex art. 708, co. 3 cod. proc. civ., è l’obbligo di coabitazione atteso che, con ordinanza avente in oggetto i provvedimenti temporanei nell’interesse della prole e dei coniugi, il Collegio autorizza quest’ultimi a vivere separatamente.

In conseguenza alla cessazione dell’obbligo di coabitazione si realizza un’attenuazione dei doveri di collaborazione, la cui operatività viene limitata alle determinazioni relative alla prole, nonché un sostanziale affievolimento dei doveri di assistenza materiale.

Quanto all’obbligo di fedeltà, la più remota impostazione giurisprudenziale riteneva che il perdurare di tale obbligo non fosse in contrasto con la separazione, dovendosi declinare quale dovere di rispetto verso l’altro coniuge (in questo senso Corte Costituzionale, sent. 18 aprile 1974, n. 99; Cass. Civ., sent. 24 marzo 1976, n. 1045).

L’impostazione giurisprudenziale più recente ritiene, per converso, che l’obbligo di fedeltà cessa congiutamente alla cessazione dell’obbligo di coabitazione salvo che non permanga un quid di solidarietà che giustifichi il perdurare del dovere.

Tale principio è stato affermato in un obiter dictum contenuto nell’ord. n. 9317 del 1997, ove la Corte ebbe a pronunciarsi sulla richiesta di mutazione del titolo della separazione in ragione del comportamento adottato dal marito successivamente all’ordinanza presidenziale, il quale aveva ospitato in casa una donna che aveva conosciuto prima della separazione.

Quanto agli effetti patrimoniali, la separazione modifica il regime previsto all’art. 143, co. 3 cod. civ., mutando l’obbligo di reciproca contribuzione nell’interesse della famiglia, nell’obbligo di mantenimento a carico del coniuge economicamente più forte, unitamente al sorgere – eventuale – di un’obbligazione alimentare.

Sgomberato il campo da equivoci ermeneutici,[3] tra gli effetti patrimoniali della separazione si può annoverare anche l’assegnazione della casa coniugale, nonché lo scioglimento e divisione della comunione legale.

3.1.1 (segue…) L’assegnazione della casa coniugale

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è stato oggetto di un fervido dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha condotto ad una progressiva mutazione dell’istituto a trazione spiccatamente puero-centrica.

Sotto il previgente art. 155-quater cod. civ. ante riforma del 2006, il quale prevedeva quale presupposto per la concessione del provvedimento l’affidamento della prole minorenne, la Giurisprudenza di Legittimità era pervenuta ad escludere che al provvedimento di assegnazione della casa coniugale potesse riconoscersi natura assistenziale in stretta connessione con l’obbligo di mantenimento atteso che la limitazione al diritto di proprietà del coniuge non affidatario derivano e sono giustificate dal diritto alla conservazione dell’habitat familiare, riconosciuto alla prole, in espressione della funzione sociale della proprietà così come sancita all’art. 42 cost. (cfr. Cass. Civ., sentenza 11 dicembre 1992, n. 13126; Cass. Civ., sent. 1 agosto 2013, n. 18440).

L’orientamento testé richiamato risulta corroborato dai successivi interventi legislativi, in particolare dalla riforma del 2013, tramite la quale il legislatore ha inteso rafforzare la concezione puero-centrica dell’assegnazione della casa familiare sul piano della sistematica del codice, abrogando l’art. 155-quater, trasponendo la disciplina, mutatis mutandis, nel novello art. 337-sexies cod. civ.

Alla luce della richiamata disposizione è possibile definire l’assegnazione della casa coniugale quale rimedio volto a mitigare le conseguenze della crisi coniugale sull’interesse primario dei figli alla conservazione dell’habitat familiare, tramite l’assegnazione del diritto di godimento della casa coniugale al coniuge affidatario o collocatario.

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ed il provvedimento di revoca sono trascrivibili, ai fini dell’opponibilità a terzi, ai sensi dell’art. 2643 cod. civ..

Il beneficio dell’assegnazione cessa laddove siano venute meno le condizioni che hanno giustificato l’adozione, ovvero nei casi testualmente previsti dalla legge, segnatamente in ipotesi di convivenza more uxorio o nuovo matrimonio dell’assegnatario, o nei casi di definitivo trasferimento in altra residenza da parte dello stesso.

Venuto meno il riferimento alla prole minorenne, originariamente contenuto all’art. 155-quater cod. civ., il provvedimento di assegnazione della casa coniugale risulta concedibile anche il presenza di prole maggiorenne che versi in stato incolpevole di non auto-sufficienza economica e che sia stabilmente convivente con il coniuge assegnatario (ex multis Cass. Civ., sent. 22 aprile 2002, n. 5857).

Recentemente la Corte di Legittimità ha avuto modo di chiarire i rapporti tra l’atto di liberalità con cui il coniuge dona l’usufrutto al coniuge assegnatario ed il provvedimento di assegnazione della casa coniugale, stabilendo che il primo non può configurarsi alla stregua di adempimento agli obblighi derivanti dal secondo.

La Corte ha evidenziato che mentre il provvedimento emanato ai sensi dell’art. 337-sexies cod. civ. sortisce effetti temporanei essendo revocabile in ragione del mutamento delle condizioni fattuali che sorreggono la legittimità del provvedimento, l’atto di donazione dell’usufrutto implica una definitiva modifica dello stato patrimoniale del donante.

In tali circostanze l’atto sarebbe inquadrabile tra le donazioni remuneratorie soggette, in ragione dell’attitudine alla permanente modifica delle garanzie patrimoniali del donante, all’azione revocatoria ordinaria (Cass., Sez. I, 9 giugno 1965, n. 624).

La giurisprudenza ha altresì escluso che possa sottrarsi alla revocatoria ordinaria l’atto con cui il coniuge proprietario costituisce l’usufrutto in favore del coniuge assegnatario intendendolo quale adempimento all’obbligo in oggetto al provvedimento di assegnazione.

A tal riguardo vale la pena precisare che il principio della non assoggettabilità dell’adempimento alla revocatoria non si estende alla datio in solutum essendo in tale atto rinvenibile una “scelta volitiva, da parte del debitore in accordo con il creditore, intervento sufficiente ad escludere ogni carattere di atto dovuto dal meccanismo negoziale prescelto” (cfr. Cass., Sez. I, 21 dicembre 1990, n. 12123).

3.1.2 (segue…) L’assegno di mantenimento e le prestazioni alimentari

Con la pronuncia di separazione l’obbligo di reciproco mantenimento previsto all’art. 143, co. 3 cod. civ. trasmuta, ponendosi a carico del coniuge economicamente forte, nell’obbligo di corrispondere un assegno periodico di mantenimento al coniuge economicamente debole.

La fonte normativa dell’assegno di mantenimento nella fase della separazione coniugale è rinvenibile all’art. 156, co. 1 e 2 cod. civ. in virtù del quale il Giudice, pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge a cui non sia addebitabile la separazione il diritto a percepire un assegno di mantenimento la cui entità è da parametrare in ragione delle capacità reddituali del beneficiario e dell’obbligato.

L’assegno di mantenimento nella fase della separazione costituisce strumento interinale e perequativo finalizzato a scongiurare che la vita del coniuge economicamente più debole possa subire un mutamento radicale in peius in conseguenza alla disgregazione del coniugio; si tratta, in buona sostanza, di garantire al coniuge economicamente debole un tenore di vita analogo a quello tenuto durante il matrimonio.

Il legislatore ha inteso quindi circoscrivere la concessione del beneficio dell’assegno di mantenimento alla preventiva verifica di una condizione negativa, e cioè l’assenza di profili di colpa in capo al coniuge richiedente; conseguentemente non potrà godere del beneficio il coniuge a cui viene addebitata la separazione.

Sul piano della determinazione del quantum debeatur il legislatore individua le rispettive capacità reddituali dei coniugi.

In particolare, con riferimento al coniuge richiedente, assume rilevanza la cd. capacità lavorativa: la misura dell’assegno va ridotta in ragione delle concrete possibilità che il richiedente ha di trovare un’occupazione lavorativa.

A tal uopo occorre precisare che la giurisprudenza esclude che il coniuge debole abbia l’obbligo di accettare qualsiasi proposta lavorativa redditizia.

In particolare è stato sottolineato come la scelta del coniuge debole di non accedere ad un impiego lavorativo in ragione della cura degli interessi della famiglia, nella valutazione comparativa delle reciproche posizioni patrimoniali, assume rilevanza in termini di diminuzione della capacità lavorativa, con conseguente espansione dell’obbligo di mantenimento.

Un orientamento giurisprudenziale remoto e desueto aveva riconosciuto l’incidenza delle elargizioni dei prossimi congiunti sulla capacità reddituali del coniuge richiedente, in quanto idonee a condizionare in maniera stabile il reddito del soggetto richiedente (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 25 agosto 2006, n. 18547).

In senso contrario la giurisprudenza successiva ha escluso la rilevanza di tali donazioni in quanto gli atti di liberalità non comportano l’assunzione a carico del donante di obbligazioni pro futuro, con la conseguenza che non integra gli estremi di apporto reddituale idoneo ad escludere l’obbligazione di mantenimento a carico del coniuge economicamente più forte (in questo senso v. Cass Civ., sent. 18 luglio 2003, n. 11224).

Rilevante ai fini della corresponsione dell’assegno di mantenimento, andato desueto l’orientamento contrario,[4] è la circostanza che il coniuge beneficiario si intrattenga in una convivenza more uxorio.

In tali circostante, avuto conto della stabilità dell’apporto reddituale proveniente dalla convivenza, l’obbligazione posta a carico del coniuge economicamente più forte ai sensi dell’art. 156, co. 2 cod. civ., rimane in quiescenza per tutta la durata della convivenza.

Come evidenziato in giurisprudenza ai fini della cessazione dell’obbligo di mantenimento occorre individuare un discrimen tra famiglia di fatto e rapporto occasionale, laddove soltanto nella prima sono da riscontrarsi il carattere di stabilità ed un coinvolgimento affettivo equipollente all’affectio maritalis (cfr. Cass. Civ., sent. 10 agosto 2007, n. 17643).

A differenza del contiguo istituto dell’assegno divorzile, nell’ambito delle valutazioni rilevanti ai fini del an debeatur non può tenersi conto della durata del matrimonio, se non in via strumentale, e cioè ai fini dell’indagine relativa al tenore di vita della coppia, ritagliandosi un margine di valutabilità della breve durata, in casi di eccezionale brevità del matrimonio tale da rendere irragionevole l’instaurazione di una comunione di vita materiale e spirituale, ai fini del diniego al riconoscimento del diritto a percepire il mantenimento.[5]

Il secondo requisito indicato dal legislatore per la determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento è il reddito dell’obbligato.

Il criterio, secondo l’interpretazione data dalla Giurisprudenza, deve ricomprendere tutti gli elementi che compongono la situazione patrimoniale dell’obbligato, ivi incluse le elargizioni patrimoniali di cui lo stesso beneficia dai parenti (cfr. Cass. Civ., sent. 19 ottobre 1981, n. 5446).

La corresponsione dell’assegno di mantenimento è esclusa qualora il reddito dell’obbligato sia al di sotto di una soglia minima, comunque tale da rendere irragionevole il contemperamento fra le elementari esigenze di vita dell’obbligato e la necessità di garantire un apporto reddituale concreto al coniuge richiedente (cfr. Cass. Civ., 7 marzo 1978, n. 1116).

Il coniuge separato può altresì essere chiamato (ex art. 433, n. 1 cod. civ.) a corrispondere una prestazione alimentare in beneficio dell’altro coniuge che versi in stato di bisogno e nell’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento.

I due strumenti sono indubbiamente cumulabili rispondendo a differenti rationes: da un lato l’obbligo di mantenimento ex art. 156 cod. civ. è strumento perequativo ed interinale, e cioè uno strumento temporaneo finalizzato a garantire a continuità del tenore di vita del coniuge beneficiario; dall’altro l’assegno alimentare è uno strumento potenzialmente permanente (atteso che l’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento potrebbe essere conseguenza di condizioni fisiche patologiche) finalizzato a garantire la dignità del beneficiario tramite un sostegno reddituale tale da assicurargli i mezzi minimi di sopravvivenza.

  1. La richiesta di addebito ed i rapporti con la separazione personale

La cd. separazione con addebito costituisce uno strumento ad impronta spiccatamente sanzionatoria destinato ad avere notevoli ripercussioni sullo status patrimoniale del coniuge a cui la separazione viene addebitata.

L‘art. 151, co. 2 cod. civ. stabilisce che il Giudice, su richiesta dei coniugi, “pronunziando” la separazione, decide a quale tra i due coniugi sia addebitabile la separazione.

La separazione con addebito, in ragione dei profili strutturali, è stata definita in dottrina quale “ponte” tra la funzione rimediale acquisita dalla separazione personale post-riforma e quella sanzionatoria costituente ratio della previgente separazione per colpa.

Dall’art. 151, co. 2 cod. civ., infatti, si ricava che l’addebito della separazione viene posto a carico del coniuge la cui condotta antigiuridica e contraria ai doveri coniugali – per ciò connotata quanto meno da profili di colpa – abbia causato, in senso causalistico, l’intollerabilità della convivenza ed il fallimento del coniugio.

Ne segue che, a differenza della separazione personale, deve accertarsi la contrarietà della condotta di uno dei coniugi ai doveri coniugali ed il nesso di causalità tra tale condotta e l’evento, costituito dalla frattura dei legami affettivi che connotano il coniugio.

Alla luce delle premesse è indubbio che ai fini dell’addebito non rilevano le condotte successive al sorgere dell’intollerabilità della convivenza, con la precipua conseguenza dell’immutabilità del titolo della separazione, una volta intervenuta sentenza o omologa dell’accordo di separazione (in questo senso v. Cass. Civ., sent.7 dicembre 1994, n. 10512).

La separazione con addebito produce un quid pluris rispetto alla separazione personale, consistente nella privazione di diritti patrimoniali in capo al coniuge al cui carico venga posto.

Il coniuge alla cui condotta colpevole è addebitabile la crisi del coniugio è privato del diritto di percepire l’assegno di mantenimento, con salvezza delle prestazioni alimentari laddove ne ricorrano i requisiti, nonché la perdita del diritto ad essere chiamato all’eredità – con sostanziale esclusione dalla categoria dei legittimati, con salvezza, per il coniuge che ha diritto agli alimenti, del diritto a percepire un assegno vitalizio al momento dell’apertura della successione (cfr. art. 156, 548 e 585 cod. civ.).

Fatti tali doverose premesse di pone il problema di stabilire se la separazione con addebito sia un differente modello di separazione.

La giurisprudenza ha pacificamente ritenuto l’addebito un quid pluris, sancendo il principio di univocità del modello della separazione personale.

A sostegno di tale tesi militano decisivi argomenti di ordine testuale e sistematico. In particolare è stato osservato che l’addebito della separazione si innesta nel quadro della crisi coniugale in presenza dei requisiti previsti per la separazione personale; ergo è necessario, affinché vi sia l’addebito, che si versi in una situazione di intollerabilità della convivenza.

Il coordinamento tra i due commi dell’art. 151 del cod. civ., evidenzia che la declaratoria di addebitabilità della separazione è sollecitabile esclusivamente nell’ambito del giudizio di separazione, affiancandosi alla stessa senza alterarne la natura.

L’addebito, per ciò, segue alla pronuncia della separazione, in presenza di apposita richiesta, ed implica che sia stato accertato che l’intollerabilità della convivenza è conseguenza della condotta contraria ai doveri coniugali posta in essere da uno dei coniugi, tale da giustificare l’aggravio degli effetti patrimoniali della separazione, in un’ottica prettamente sanzionatoria, in danno del coniuge al carico del quale viene posta.

Dal principio di unicità della separazione personale la giurisprudenza ha desunto la regola di circoscrizione della richiesta di addebito al “contesto espressamente contemplato dal citato secondo comma dell’art. 151 cod. civ., con l’affidamento della problematica sull’addebito allo stesso giudice chiamato a pronunciare la separazione” (Cass. Civ., sez. Un., sent. 3 dicembre 2001, n. 14248; ex multis Cass. Civ., sent. 7 dicembre 1994, n. 10512; Cass. Civ., sent. 17 marzo 1995, n. 3098; Cass. Civ., sent. 17 luglio 1997 n. 6566; Cass. Civ., sent. 19 settembre 1997, n. 9317).

Dalla connessione processuale e sostanziale tra addebito e separazione, come ricavabile dal principio dell’unicità del modello di separazione, impressa nel sintagma “pronunziando” la giurisprudenza aveva ricavato la dipendenza della richiesta di addebito dalla domanda di separazione, non riconoscendogli sostanzialmente la qualità di “domanda autonoma” (ex art. 277 cod. proc. civ.); nonché il divieto di scissione della pronuncia di separazione e di addebito, quantunque richieste nell’ambito dello stesso procedimento, da cui è stata desunta “l’inammissibilità di sentenza non definitiva sulla separazione e di rinvio all’espletamento di ulteriore istruzione della decisione sull’addebito” (Cass. Civ., sez. I, sent. 13 agosto 1998, n. 7945), con la conseguenza precipua dell’inidoneità di tale provvedimento decisorio a costituire giudicato anche ai fini della proponibilità del giudizio di divorzio (in tal senso v. Cass. Civ., sent. 10 aprile 1998, n. 3718; Cass. Civ., sez. I, sent. 14 giugno 2000 n. 8106).

Alla luce dei predetti argomenti si è posto il problema di stabilire se la richiesta di addebito ha i connotati tipici di un’autonoma domanda giudiziale e se, di riflesso, sia ammissibile una pronuncia, con sentenza parziale, della separazione, ed rinvio per istruzione con riferimento alla domanda di addebito.

La questione è stata al centro di un fervido dibatto dottrinale e giurisprudenziale che ha visto contrapposte soluzioni diametralmente differenti.

Il contrasto è stato risolto dalla giurisprudenza in composizione nomofilattica nel senso dell’ammissibilità della scissione delle statuizioni relative alla separazione ed all’addebito, purché proposte congiuntamente nello stesso giudizio.

Se da un lato la dichiarazione di addebito trova necessario antecedente nella separazione personale, dall’altro si diversifica per il titolo, innestandosi sulla violazione de doveri coniugali e non anche sulla mera intollerabilità della convivenza.

Il legame tra il titolo dell’addebito e quello della separazione, ha osservato la Giurisprudenza, “opera in senso genetico ed unidirezionale, nel senso che l’uno postula l’altro, in ragione dell’influenza di quei fatti distinti e precorsi solo se sussistano gli estremi della separazione, ma non tocca l’autonomia delle causae petendi”.

La questione relativa all’ammissibilità della scissione della pronuncia relativa alla separazione e quella relativa all’addebito va risolta a monte stabilendo se alla domanda di addebito può riconoscersi autonomia strutturale (nei termini di cui all’art. 112 cod. proc. civ.) rispetto alla domanda di separazione.

Secondo le Sezioni Unite, l’autonomia della causa petendi non sarebbe pregiudicata dalla potenziale coincidenza dei fatti che costituiscono tanto prodromi dell’intervenuta intolleranza della convivenza, quanto elementi sintomatici di profili di colpa, in quanto ai fini dell’addebitabilità della separazione l’indagine del Giudice investe circostanze più estese rispetto a quelle che costituiscono elementi idonei ad integrare i presupposti della separazione.

Così se l’accertamento di fatti obiettivamente idonei ad incidere sulla tollerabilità della convivenza, unitamente alla cessazione del consenso al perdurare del coniugio, è di per se idoneo a giustificare la separazione personale, ai fini della pronuncia di addebito lo stesso fatto dovrà essere esaminato sotto il profilo dell’antigiuridicità e della causalità con l’intollerabilità della convivenza.

Ne segue intanto che non ogni condotta idonea a recare nocumento alla tollerabilità della convivenza si pone in contrasto con i doveri coniugali; in secondo luogo che l’accertamento dell’antigiuridicità della condotta non è requisito sufficiente a giustificare l’addebito dovendosi accertare, alla stregua del giudizio controfattuale, che la crisi coniugale sia stata causata dalla condotta accertata di modo da esclude la rilevanza di fatti coevi o successivi all’insorgere della crisi, o di comportamenti cd. di reazione, che si configurano come una reazione immediata e proporzionata ad un torto ricevuto, purché non si traducano in violazioni particolarmente gravi di norme imperative ed inderogabili o di norme morali di particolare rilevanza (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 12 gennaio 2000, n. 279).

Quanto al petitum, l’istanza di addebito persegue un bene della vita differente da quello perseguito dalla domanda di separazione finalizzato ad ottenere l’esclusione del coniuge dalla titolarità di determinati diritti patrimoniali.

In sostanza, potrebbe dirsi, che il petitum della domanda di separazione incide sullo status personae, mentre il petitum della richiesta di addebito incede su interessi a contenuto prevalentemente patrimoniale.

Dalla diversità ontologica della domanda di addebito rispetto alla domanda di separazione consegue che la tesi dell’inscindibilità delle statuizioni dovrebbe essere corroborata da decisivi argomenti sistematici o testuali, che la Giurisprudenza Nomofilattica ha ritenuto di non rinvenire.

In particolare è stato correttamente evidenziato che “una regola di tassativa contestualità della dichiarazione d’addebito, rispetto alla pronuncia di separazione, introdurrebbe una disarmonica eccezione alla fisiologica separabilità del dibattito su questioni di rilevanza patrimoniale dal dibattito inerente allo status delle persone, con un anomalo differimento della definizione di un rapporto personale, pure nel concorso di presupposti accertati o non contestati, fino alla definizione di un dibattito di natura patrimoniale, spesso caratterizzato da un alto tasso di conflittualità delle parti e da una maggiore complessità dell’istruzione” (cfr. Cass. Civ. sez. Un., cit.).

Ed ancora è principio generale dell’ordinamento processuale quelle per cui l’unificazione o meno del giudizio e della decisione su temi della lite connessi deve rispondere a parametri d’opportunità, affidati alla valutazione del giudice nel caso concreto in virtù di un bilanciamento tra il principio di economia processuale e la priorità delle statuizioni relative alla persona a fortiori se connotata da agevole soluzione.

Sul piano testuale, invece, condivisibilmente la Giurisprudenza ha ritenuto che l’utilizzo del verbo gerundio “pronunziando, benché esprima un nesso di contemporaneità, non deve essere interpretato nel senso della necessaria contestualità delle due pronunce, ma nel senso della necessaria proposizione della domanda di addebito all’interno del processo instaurato per richiedere la separazione.

Tale escamotage normativo, del resto, è consueto nel testo codicistico tanto che è possibile rinvenire alti esempi pur in materia di diritto di famiglia. E’, esemplificativamente il caso dei provvedimenti sulla prole, i quali devono essere richiesti contestualmente alla separazione.

Ne segue che il collegamento temporale introduttivo, benché necessario, non determina l’obbligo per il giudice di decidere su ambedue le domande in un unico contesto, in deroga al principio generale della scindibilità all’interno del processo delle decisioni su una pluralità di domande autonome.

Dalle precedenti argomentazioni si desume l’applicabilità dell’art. 277 cod. proc. civ. il quale autorizza il Giudice a limitare la pronuncia ad alcune domande qualora “riconosca che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e che la loro sollecita definizione risponda ad un apprezzabile interesse della parte istante” (Cass. Civ., sez. Un., sent. cit.), con la conseguente possibilità della formazione del giudicato sulla statuizione parziale non tempestivamente impugnata che, per ciò, costituisce titolo autonomo per richiedere il divorzio anche in pendenza del giudizio di addebito.

Alla luce delle predette considerazioni la Corte di Cassazione in composizione nomofilattica ha affermato che “nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di declaratoria d’addebitabilità della separazione stessa, avanzata ai sensi dell’art. 151 secondo comma cod. civ. dalla parte attrice con l’atto introduttivo o dalla parte convenuta in via convenzionale, ha natura di domanda autonoma, pure se logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, in quanto non sollecita mere modalità o varianti dell’accertamento già devoluto al giudice con la domanda di separazione, né mira a semplici specificazioni o qualificazioni di detta pronuncia, ma amplia il tema dell’indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione, ed inoltre tende ad una statuizione aggiuntiva, priva di riflessi sulla pronuncia di separazione e dotata di propri effetti di natura patrimoniale, e che, pertanto, in carenza di ragioni o norme derogative dell’art. 277 secondo comma cod. proc. civ., il giudice del merito può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponda ad un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione” (Cass. Civ., sez. Un., sent. 3 dicembre 2001, n. 15248).

  1. L’affidamento dei figli

Nelle ipotesi di crisi della famiglia il legislatore ha riconosciuto la priorità della tutela degli interessi della prole.

Tale riconoscimento è stato trasfuso nella ridisegnata disciplina dei rapporti parentali, connotata da un assetto spiccatamente puero-centrico, imperniata sull’equa distribuzione della responsabilità genitoriale in capo ai coniugi, a cui fa da pendant il diritto della prole di pretendere l’adempimento degli oneri corollario della responsabilità genitoriale in egual misura e distintamente da ciascuno dei genitori.

Il legislatore è intervenuto, come si anticipava, a ridisegnare la disciplina espungendo le disposizioni a tutela della prole dal Titolo VII recante la disciplina del “matrimonio” – mediante l’abrogazione degli artt. 155-bis ss. cod. civ., che sono stati trasfusi, adoperando la tecnica della novellazione, nel Titolo XI, la cui rubrica opera un sostanziale ridisegno dell’ambito applicativo delle disposizioni in questione.

Nell’intenzione del legislatore la nuova collocazione della disciplina sul “l’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio” è utile al fine di corroborare, sul piano sistematico, l’irrilevanza, ai fini dell’applicazione di tale disciplina, della nascita del figlio all’interno del matrimonio.

Ai sensi dell’art. 315-bis cod. civ., ove è stato trasfuso il previgente art. 155 cod. civ., i figli hanno il diritto di essere mantenuti, istruiti, assistiti moralmente e di intrattenere rapporti significativi con i parenti, nel rispetto delle inclinazioni naturali, delle capacità e delle aspirazioni della prole.

L’adempimento degli obblighi patrimoniali connessi alla responsabilità gravano sui coniugi in misura proporzionale alle rispettive sostanze e relativa capacità lavorativa.

La riforma del 2013 ha introdotto il principio dell’affido condiviso, relegando la misura dell’affido esclusivo quale extrema ratio.

L’affido esclusivo non comporta un totale annichilimento della responsabilità genitoriale del coniuge non affidatario il quale conserva un potere di vigilanza in ordine alla conformità delle modalità di esercizio della responsabilità genitoriale alle indicazioni rese dal Giudice ai sensi dell’art. 337-quater cod. civ.

Ciò pertanto, nelle ipotesi di mancato rispetto da parte del coniuge affidatario delle istruzioni ricevute e, in ogni caso, in presenza di decisioni pregiudizievoli per la prole, il coniuge non affidatario può rivolgersi al Giudice ai sensi dell’art. 316, co. ult. cod. civ..

Anche in presenza di affidamento esclusivo, il coniuge non affidatario conserva il diritto di partecipare alle decisioni maggiormente rilevanti per la prole.

Il dovere di mantenimento della prole, nelle ipotesi di crisi della famiglia, trasmuta nell’obbligo di corresponsione di un assegno periodico di mantenimento.

Tale dovere sorge per il semplice fatto che la prole sia minorenne ma non cessa automaticamente al raggiungimento della maggiore età, essendo causa di cessazione dell’obbligo il raggiungimento dell’autosufficienza economica (così art. 337-septies cod. civ.) o l’accertamento di una condotta parassitaria sintomatica di colpevolezza e causalmente connessa all’omesso raggiungimento dell’autosufficienza economica.

Con il ricorso proposto ex art. 706 cod. proc. civ. ai fini della separazione personale, i coniugi, se del caso, possono richiedere l’adozione dei provvedimenti relativi alla prole.

Le statuizioni adottate dal Collegio nella fase camerale sono reclamabili in Corte d’appello ai sensi dell’art. 708, co. 4 cod. proc. civ., ovvero revisionabili con ricorso al giudice istruttore, solo in presenza di circostanze che determinino un sostanziale mutamento delle condizioni di fatto poste a fondamento del provvedimento emesso in sede camerale.

  1. La riconciliazione: la fisionomia dell’istituto in ragione dell’allocazione del momento riconciliativo nelle diverse fasi processuali

Il legislatore, nell’evidente ottica del favor matrimonis, ha codificato e disciplinato gli effetti della cd. riconciliazione, da intendersi quale istituto orientato al revirement dei doveri coniugali tramite la cessazione degli effetti della separazione.

La previsione dell’istituto della riconciliazione riveste un peculiare valore ermeneutico nella morfologia della separazione contrassegnandola “come situazione essenzialmente temporanea, finalizzata a consentire ai coniugi un’adeguata ponderazione delle ragioni del conflitto insorto tra loro e a condurre, come risultato ottimale auspicato, alla riconciliazione” (ANELLI).

Il codice individua due differenti tecniche di componimento della crisi non definitiva della comunione di vita nel rapporto di coppia.

Le duplice declinazione dell’istituto della riconciliazione risponde ad un criterio di discernimento temporale fondato sull’allocazione del momento riconciliativo all’interno di determinate fasi processuali, dal quale discendono differenze in ordine tanto agli effetti processuali che sostanziali.

Anzitutto la riconciliazione espressa, o per facta concludenti, prima della presentazione della domanda di separazione (anche congiunta e consensuale) o nelle more del procedimento; in secondo luogo la riconciliazione espressa, o per facta concludenti, successiva alla sentenza con cui il Collegio ha definito la domanda di separazione.

L’art. 154 cod. civ. disciplina gli effetti della riconciliazione in pendenza della causa di separazione, stabilendo che “comporta l’abbandono della domanda di separazione già proposta”.

La riconciliazione successiva, secondo quanto stabilito dall’art. 157 co. 1 cod. civ. fa cessare gli effetti della sentenza senza che sia necessario l’intervento del giudice.

Vale la pena far notare che, mentre la separazione, anche per consenso, non ha effetto se non omologata del Giudice, la necessita di tale intervento dell’autorità giudiziaria è espressamente escluso dal dettato codicistico nelle ipotesi di riconciliazione, a conferma del favor comunionis che impregna la disciplina del diritto di famiglia e che vede nella separazione personale una misura interinale orientata ad una rimeditazione delle ragioni della crisi in funzione della riconciliazione coniugale.

In secondo luogo il legislatore riconosce effetti sostanziali ai comportamenti non equivoci incompatibili “con lo stato della separazione”, lasciando intendere che gli effetti di un provvedimento decisorio che fa stato tra le parti e verso terzi in ragione della trascrizione sui registri dello stato civile, in calce all’atto di matrimonio, può essere reso inefficacie da facta concludentia.

Si tratta di un effetto automatico che la legge riconduce a tali fatti inequivocabili, e cioè a fatti dai quali si desume, senza possibile lettura di segno contrario, la volontà dei coniugi di riconciliarsi – tale sarebbe per esempio la rinnovata coabitazione qualora corroborata da elementi tali da lasciar presumere, con grado di ragionevole certezza, in rinvigorimento della comunione materiale e spirituale.[6]

Nella morfologia dell’art. 157 cod. civ., superata la distinzione tra il requisito spirituale dell’animus conciliandi – espresso dal perdono delle colpe – e la componente materiale della coabitazione, rilevanza decisiva è stata attribuita alla ricostituzione della comunione di vita e all’incompatibilità del comportamento coniugale con la volontà di continuare a valersi dello status di coniuge separato.

In questa prospettiva, l’accertamento della cessazione dello stato di separazione deve fondarsi su elementi esteriori idonei a provare in modo non equivoco l’avvenuta ricostituzione del consorzio coniugale mediante il ripristino stabile della comunione di vita spirituale e materiale (Cass. Civ., sent. 17 giugno 1998, n. 6031).

Resta escluso l’effetto della riconciliazione nell’ipotesi di ripresa della convivenza, a tempo determinato e a titolo sperimentale, al fine di verificare il ravvedimento del coniuge (Cass. Civ., sent. 6 ottobre 2005, n. 19497; Cass., Civ., sent. 7 luglio 2004, n. 12427; Cass. Civ., sent. 9 gennaio 1987, n. 72) o per evitare il turbamento della prole (Cass. Civ., sent. 4 febbraio 2000, n. 1227) o qualora siano intercorsi tra i coniugi rapporti sessuali, anche ripetuti, non accompagnati da altre manifestazioni di affetto (Cass. Civ., sent. 17 novembre 1983, n. 6860; Cass. Civ., sent. 24 marzo 1983, n. 2058) o di coabitazione in camere da letto separate (Cass. Civ., sent. 21 marzo 2000, n. 3323).

L’effetto riconciliativo resta, altresì, precluso nell’ipotesi di comportamenti diretti a manifestare all’esterno l’apparenza di una normale vita coniugale (Cass. CIv., sent. 16 gennaio 52, n. 117); nel caso di visite sporadiche tra i coniugi con la persistente intenzione di conservare lo status di coniugi separati (Cass. Civ., sent. 29 gennaio 82, n. 574); in presenza di continuazione della coabitazione per mero spirito di sopportazione (Cass. Civ., sent. 30 gennaio 1980, n. 704).

Questa impostazione ha il pregio di sganciare la produzione degli effetti della riconciliazione dalla dichiarazione espressa resa all’Ufficiale di Stato Civile ai fini della trascrizione sull’atto di matrimonio, rilevante ai soli fini dell’opponibilità a terzi[7] del rinvigorito regime della comunione legale, con salvezza degli effetti interni al rapporto coniugale ed ai diritti acquisiti in ragione della riconciliazione.

In sostanza il riconoscimento di effetti giuridici alla riconciliazione di fatto consente al Giudice di pronunciarsi sull’inadempimento dei doveri coniugali successivamente alla cessazione tacita degli effetti della sentenza, indipendentemente dalla trascrizione della riconciliazione nei pubblici registri; ergo la riconciliazione di fatto è suscettibile, in quanto fatto giuridico, di accertamento giudiziale tanto ai fini del riconoscimento della comunione immediata (in questo senso Cass. Sentenza 12 novembre 1998, n. 11418) sugli acquisti effettuati in seguito alla riconciliazione, tanto ai fini di una nuova pronuncia di separazione.

Per quel che concerne le modalità di attuazione della riconciliazione in pendenza del giudizio di separazione personale occorre distinguere a seconda dell’allocazione della fattispecie compositiva del conflitto all’interno o all’esterno della procedura di separazione giudiziale.

La riconciliazione può essere, anzitutto, sollecitata dal Presidente del Tribunale nella fase camerale finalizzata all’adozione dei procedimenti temporanei e urgenti (ex art. 708 cod. proc. civ.) viene formalizzata in apposito processo verbale di conciliazione (art. 709, co. 2 cod. proc. civ.).

La riconciliazione raggiunta in pendenza di procedura, ma al di fuori del processo di separazione potrebbe, traducendosi nella ricostituzione della comunione di vita, può realizzarsi tramite l’estinzione del procedimento per inattività.

In tali circostanze la sentenza di estinzione del giudizio non reca elementi intrinsechi tali da giustificare apriori l’operatività delle preclusioni, anche processuali, inerenti la rilevanza dei fatti pregressi e conosciuti precedentemente all’intervenuta riconciliazione, con la conseguenza che tali eccezioni dovranno essere provate ricorrendo agli ordinari mezzi di prova semplice – salvo che non sussiste un accordo di riconciliazione scritto benché formato al di fuori del processo.

Per quel che concerne l’attuazione della riconciliazione successiva alla sentenza di separazione ovvero all’omologa dell’accordo di separazione, il codice prevede che possa realizzarsi per “comune accordo” manifestato tramite dichiarazione espressa, o tacitamente, tramite comportamenti incompatibili con lo status di coniuge separato.

6.1 Gli effetti processuali e sostanziali della riconciliazione

L’intervenuta riconciliazione coniugale, indipendentemente dalle forme in cui viene manifestata, produce effetti sostanziali, costituiti da un sostanziale revirement dei doveri coniugali e degli effetti legali del matrimonio (ex art. 157, co. 1 cod. civ.); e processuali, costituiti dalle preclusioni formate sui fatti conosciuti e pregressi all’intervenuta conciliazione (ex art. 157, co. 2 cod. civ.).

Quanto agli effetti sostanziali, l’accordo di riconciliazione, come anticipato, ri-attribuisce “pienezza di contenuti a un rapporto coniugale quiescente, ma non estinto” (BARBIERA).

La regola della cessazione degli effetti della riconciliazione per il solo accordo tra le parti è compatibile con l’automatico rinvigorimento dei doveri coniugali, della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio (ex art. 232, 2° co., c.c.), dell’automatica imputazione dei nuovi acquisti alla comunione legale in virtù della regola della comunione immediata[8] (ex art. 177, co. 1 cod. civ.).

Concordemente dottrina e giurisprudenza di merito hanno escluso che il rinvigorimento della comunione legale agisca retroattivamente determinando la ricaduta in comunione dei beni che ne erano fuoriusciti per effetto della cessazione del regime patrimoniale in seguito alla separazione ed alla divisione secondo il regime comunione ordinaria nonché gli acquisti effettuati dai coniugi nelle more della separazione.[9]

Per converso non appaiono soggetti alla regola di cui all’art. 157, co. 1 cod. civ. l’estinzione delle garanzie reali costituite su ordine del giudice (ex art. 156, co. 4 c.c.) e la cancellazione dell’ipoteca giudiziale iscritta sui beni del coniuge (ex art. 156, co. 5 c.c.) necessitando di ulteriore iniziativa del soggetto interessato all’eliminazione del vincolo; come anche la revoca del sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno di separazione (ex art. art. 156, co. 6 c.c.) e l’estinzione dell’ordine imposto ai terzi di eseguire le prestazioni a favore del coniuge titolare del diritto all’assegno (ex art. 156, co. 6 c.c.); provvedimenti, questi, che richiedono l’emanazione di apposito provvedimento giudiziale.

Quanto agli effetti processuali, come largamente anticipato, la riconciliazione nelle more del giudizio di separazione produce l’effetto estintivo dell’azione ed il connesso effetto attributivo di un’eccezione in senso tecnico alla controparte non rilevabile, in ragione del generale regime delle eccezioni sine strictu, officiosamente (in questo senso Cass. Civ., sent.10 gennaio 1974, n. 70; Cass. Civ., sent. 16 marzo 1971, n. 735).

Quanto agli effetti preclusivi in ordine alla riproponibilità dell’azione, anche nei casi di cessazione degli effetti della sentenza di separazione, lo statuto degli effetti legali della riconciliazione prevede che la “separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione” (art. 157, co. 2 cod. civ.).

Tale regola richiama, evidentemente, l’operatività del regime del giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.) e formale (art. 324 c.p.c.).

In dottrina è stato dibattuto se la mancanza, nel testo dell’art. 154 c.c. di un analogo referente nella disciplina del regime effettuale della riconciliazione tra coniugi implichi l’inapplicabilità della regola di cui all’art. 157, co. 2 cod. civ. anche alla riconciliazione nelle more del processo di separazione, ovvero se, per converso, un applicazione analogica consenta di uniformare la morfologia degli effetti preclusivi di tutte le fattispecie di riconciliazione.

A tale quesito ha risposto positivamente la dottrina (BARBIERA) ed anche la giurisprudenza in applicazione di un criterio omologante di stampo analogico (art. 12, 2° co., disp. prel. c.c.), con la conclusione che la soluzione della valenza preclusiva va applicata allo statuto dei fatti pregressi anche nella fattispecie della riconciliazione posteriore all’omologazione della separazione consensuale e di riconciliazione nelle more del giudizio di separazione con esclusione dei fatti pregressi la cui conoscenza sopravviene alla medesima riconciliazione (cfr. Cass. Civ., sent. 13 maggio 1999).

A corroborare tale soluzione concorre un argomento teleologico (GRASSETTI) secondo cui l’operatività delle preclusioni processuali e sostanziali ex art. 2909 cod. civ. e art. 324 cod. proc. civ. risponderebbe precipuamente allo spirito di favor matrimonis atteso che “il perdurante rilievo dei fatti pregressi finirebbe invece per costituire una remora alla ricostituzione della communio” (MANTOVANI).

Sul punto:”La riconciliazione dei coniugi”

6.2 La natura giuridica della riconciliazione

La bivalente struttura della riconciliazione coniugale ha riproposto le medesime perplessità – proprie della previgente disciplina – circa natura giuridica della riconciliazione espressa e tacita, e segnatamente se vadano ricondotti a differenti fenomeni produttivi di diritto.

Una prima tesi ritiene che, dal punto di vista strutturale, la riconciliazione – sia tacita che espressa – sia un fatto giuridico, con la precipua conseguenza che la produzione degli effetti che l’art. 157, co. 1 cod. civ. riconosce all’espressa dichiarazione dovrebbe soggiacere all’effettiva esistenza di fatti che inequivocamente si pongono in contrasto con lo status di coniuge separato (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 9 maggio 1997, n. 4056).

In questo senso la dichiarazione di riconciliazione innanzi al Giudice adito per la separazione, nei casi di cui all’art. 157, co. 1 cod. civ., dovrebbe ricondursi al genus delle dichiarazione di scienza o di intenti.

Di segno opposto l’orientamento che ritiene la conciliazione un atto giuridico di tipo negoziale anche nei casi in cui si realizzi per fatti concludenti (cfr. Cass. Civ., sent. 29 aprile 1983, n. 2948).

Una terza opzione ermeneutica dottrinaria (FINOCCHIARO), mediana alla precedente, distingue la riconciliazione espressa, avocata nell’alveo degli atti negoziali e la riconciliazione tacita che, per converso, andrebbe ricondotta all’insieme dei fatti giuridici.

La tesi negoziale, prevalente in dottrina e condivisa dal sottoscritto, configura la riconciliazione come negozio bilaterale[10] di diritto familiare (BARBIERA), caratterizzato per la presenza dell’animus conciliandi in entrambi i coniugi (cd. motivi comuni o presupposizioni), con causa solutoria della crisi familiare.

Alla luce di questa impostazione, la volontà di riconciliarsi, manifestata da un coniuge e rivolta all’altro, configura una proposta revocabile fino al momento dell’accettazione, volta alla conclusione di una convenzione di diritto familiare (in questo senso v. Cass. Civ., sen. 29 aprile 1983, n. 2948).

Secondo parte della dottrina (BARBIERA) nei casi di cui all’art. 154 cod. civ. la riconciliazione può assumere struttura unilaterale, evidentemente nei casi in cui la crisi coniugale consegua alla disaffezione di uno solo dei coniugi che, unilateralmente adisce l’autorità giudiziaria per sentir pronunciare la separazione personale.

La tesi, a parere di chi scrive, non è condivisibile in quanto l’abbandono della domanda già proposta non può prescindere dall’accettazione della rinuncia agli atti del giudizio della controparte.

Parimenti nei casi in cui la domanda non sia stata proposta, nulla vieta, in linea di principio, che la parte passiva della crisi coniugale, nel momento in cui perviene la volontà dell’altro coniuge di riconciliarsi, decida ugualmente di proseguire con la separazione personale.

Ne segue che la riconciliazione deve necessariamente avere struttura bilaterale in quanto la costituzione della voluntas conciliandi segue i principi generali del contratto sulla formazione del consenso (in questo senso v. Cass. Civ., sent. 29 aprile 1983, n. 2948) ai sensi dell’art. 1326 ss. cod. civ. (MANTOVANI).

Secondo la prevalente impostazione dottrinale il negozio riconciliativo non ammette l’apposizione di termini e condizioni in quanto contrarie all’animus conciliandi, inteso quale motivo comune alle parti.

L’opposta opzione ermeneutica che, in vero, non ha trovato eco in giurisprudenza, configura la conciliazione quale mero fatto giuridico che consentirebbe di valorizzare comportamento non equivoco delle parti, incompatibile con lo stato di separazione di modo da “ritenere quindi irrilevante una dichiarazione di volersi riconciliare, cui non abbia fatto seguito l’effettiva ripresa della vita comune” (MANTOVANI).

A parere di chi scrive la preoccupazione è infondata in quanto l’accordo di riconciliazione poggia sul presupposto, comune alle parti, dell’animus conciliandi e ciò, di per sé, fa venir meno gli effetti preclusivi di cui all’art. 157 cod. civ., ogni qualvolta che il patto riconciliativo affetto da vizi del consenso.

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  1. Conclusioni

L’istituto della separazione personale trasfigurato nel modello rimediale post-riforma ha rappresentato lo strumento di maggiore incidenza nel passaggio dalla famiglia fondata sull’indissolubilità del matrimonio al modello antropocentrico che ha finito per il violare perimetro esterno dell’intangibilità delle relazioni familiari abbattendo le resistenze all’applicazione piena delle regole del diritto privato.

Con l’abbandono della separazione per colpa ed il passaggio alla separazione per l’intollerabilità della convivenza, nella declinazione spiccatamente soggettivistica data dal diritto vivente, il vincolo matrimoniale diviene soggetto al principio del perdurare del consenso.

La disaffezione alla prosecuzione del coniugio diviene, per ciò, requisito sufficiente alla crisi familiare ed all’affievolimento dei doveri matrimoniali.

La privatizzazione delle relazioni familiari non si è arrestata alle determinazioni relative alla durata del vincolo matrimoniale, ma ha plasmato le tecniche di attuazione dello status di coniuge separato come anche quelle di ricostituzione della comunione di vita materiale e spirituale.

Va detto, tuttavia, che l’allentamento delle tutele volte all’integrità del coniugio ha finito con il spostare il baricentro del favor matrimonis dal barricamento dei doveri coniugali al privilegio effettuale concesso alla riconciliazione, il cui atto negoziale produce efficacia indipendentemente da qualsivoglia manifestazione espressa e senza che via necessità dell’intervento dell’autorità giurisdizionale, in antitesi con la disciplina dell’accordo di separazione, integrando gli estremi di fatto estintivo delle obbligazioni discendenti dalla sentenza di separazione e rinvigorendo il rapporto coniugale quiescente.

Note

[1] Tale locuzione deve essere interpretata nel senso che “la separazione (…) esige soltanto l’accertamento di un’oggettiva crisi del rapporto matrimoniale, tale da rendere la convivenza insopportabile per i coniugi o pregiudizievole per i figli, e va pronunciata a prescindere dalla riferibilità di quella situazione ad inadempienze coniugali” (così Cass. Civ., sez. Un., sent. 3 dicembre 2001, n. 15248)

[2] In questo senso la S.C. ha più volte ribadito che “In assenza di prole minorenne l’esame dell’autorità giudiziaria in sede di omologa non riguarda la rispondenza delle pattuizioni all’interesse dei figli (art. 4 158, 2° co., c.c.), ma si estende comunque alla verifica di legalità del negozio e, cioè, della sua non contrarietà ai principi di ordine pubblico e buon costume o alle norme imperative dell’ordinamento” Cass. Civ., sent. 18 settembre 1997, n. 9287.

[3] Il riferimento è alle teorie che configuravano il negozio con cui il coniuge proprietario concedeva il godimento della casa coniugale quale negozio solutorio dell’obbligo di mantenimento del coniuge debole.

[4] Il precedente orientamento giurisprudenziale perveniva ad escludere che la convivenza more uxorio potesse rilevare ai fini della cessazione dell’obbligo di mantenimento facendo leva sulla precarietà del rapporto e sulla conseguenza instabilità dell’apporto patrimoniale (cfr. Cass. Civ., sent. 30 ottobre 1996, n. 9505).

[5] In tal senso la Cassazione ha affermato che “La breve durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno di mantenimento, ma non anche sul riconoscimento dell’assegno stesso, salvo casi eccezionali in cui non si sia verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi”

[6]La riconciliazione configurata dal legislatore, infatti, non consiste in un semplice riavvicinamento dei coniugi, né è attestata dalla sola ripresa, per un certo periodo, della convivenza e dei rapporti sessuali, ma richiede la riunificazione della famiglia, accompagnata dalla ferma intenzione di ricomporre l’unione di coppia, in condizioni di rinnovata comunione e di reciproca solidarietà” (v. Corte di App. Napoli, sentenza 17 gennaio 2005).

[7] In questo senso la Giurisprudenza ha precisato che “Una diversa interpretazione non sarebbe invero compatibile con i precetti costituzionali di tutela della buona fede dei contraenti e della correttezza del traffico giuridico (artt. 2 e 41 Cost.) che vanno, in materia, bilanciati con il valore della parità dei coniugi anche sul piano economico (artt. 3 e 29 Cost.), e non possono, quindi, essere a quello sacrificati.

Risultando, per altro, confermato, anche a livello codicistico, che una scissione dei profili effettuali – interni ed esterni – del regime patrimoniale dei coniugi è ben possibile, ed è anzi (in funzione delle rilevate esigenze di bilanciamento dei contrapposti interessi) necessitata: come si desume (sul piano sistematico) dalla disposizione dell’art. 162 c.c., ultimo comma. La quale – nell’escludere l’opponibilità ai terzi delle convenzioni matrimoniali sostitutive o modificative del regime legale di comunione, che non risultino “annotate a margine dell’atto di matrimonio” – disciplina una ipotesi “speculare” a quella di modifica, in senso inverso, del regime patrimoniale della famiglia, per ripristino della originaria comunione in luogo della separazione dei beni, instauratasi con lo scioglimento di quella comunione per effetto (ex art. 191 c.c. cit.) della separazione personale dei coniugi.” (Cass. Civ., sent. 5 dicembre 2003, n. 18619)

[8] In questo senso di legge in dottrina che “deve condividersi la tesi della persistenza del regime legale di comunione quando la riconciliazione avvenga prima della sentenza e determini l’abbandono della domanda, o prima dell’omologazione ed interrompa l’attività di controllo e di definitiva attribuzione di efficacia da parte del tribunale. Che il regime di comunione non soffra in queste ipotesi soluzioni di continuità in confronto dei terzi, è opinione incontrastata; che non risulti modificato nemmeno tra le parti, dipende dall’attitudine che si assuma verso la separazione di fatto, e forse anche l’ipotesi contemplata può contribuire a sorreggere la tesi del non modificato regime legale” (così P. Rescigno, in “Se la riconciliazione dei coniugi influisca sul regime patrimoniale della famiglia ed in particolare se valga a ripristinare automaticamente la comunione legale”, pubbl. in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, pp. 153 ss).

[9] In questo senso cfr Tribunale di Napoli, sentenza 21 dicembre 1998; Corte d’App. Trento, sent. 2 settembre 1996. In dottrina è stato sottolineato che benché “l’accordo dei coniugi sulla riconciliazione si atteggia come evento sopravvenuto, risolutivo delle conseguenze della separazione personale; e poiché una di queste conseguenze è rappresentata proprio dallo scioglimento della comunione legale, la riconciliazione si sostanzia in un evento che elimina tale scioglimento, rendendolo reversibile mediante la caducazione della relativa causa (…) essa non implica, invece, la ricaduta in comunione dei diritti che ne erano stati oggetto prima del verificarsi della causa di scioglimento, per i quali il mutamento di condizione giuridica conseguente allo scioglimento – collocabile in una dimensione temporale istantanea, non rimovibile da una causa sopravvenuta – risulta irreversibile, né di quelli pervenuti ai singoli coniugi nella fase temporale compresa tra lo scioglimento della comunione e la riconciliazione, data la conservazione della rilevanza interinale dello scioglimento, che impedisce alla riconciliazione, per mancanza di retroattività, di eliminare dai patrimoni dei singoli coniugi intestatari gli effetti acquisitivi dei diritti pervenuti nel periodo mediano” (P. Parente in “Scioglimento della comunione legale per separazione personale e ricostituzione per riconciliazione”, 1999, pp. 1168- 1070).

[10] Come correttamente evidenziato in dottrina “Non basta la volontà di uno solo dei coniugi, come avveniva in passato, quando legittimato a chiedere la separazione era il solo coniuge offeso dalla colpa dell’altro. Ora la separazione può essere ottenuta anche su iniziativa dello stesso coniuge, al quale potrebbe essere poi anche addebitata: sicché non è configurabile l’antico negozio unilaterale del perdono” (Pino A., in Diritto di famiglia, Padova, 1998, pp. 166-168).

Salvatore Tartaro

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