La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 568, comma 4, del c.p.p.: vediamo in che modo

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(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 568, co. 4)

     Indice:

  1. Il fatto
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  3. Le argomentazioni sostenute dalle parti
  4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
  5. Conclusioni

1. Il fatto

La Corte di Appello di Milano, in accoglimento della richiesta scritta del Procuratore generale, aveva dichiarato, con sentenza predibattimentale e senza la partecipazione delle parti, non doversi procedere nei confronti degli imputati in ordine al delitto di «associazione per delinquere, con il ruolo di promotori e organizzatori, finalizzata alla commissione di più delitti di illegale esportazione di materiali di armamento e comunque di illegale contrattazione finalizzata alla suddetta esportazione, nonché di esportazione non autorizzata di materiale a duplice uso, civile e militare», perché estinto per prescrizione maturata nelle more della celebrazione del giudizio di gravame.

In particolare, già all’esito dell’udienza preliminare, e quindi nel giudizio di primo grado, era stata già pronunciata sentenza di non luogo a procedere, nei confronti dei due imputati, per insussistenza dei fatti in ordine a ulteriori capi di imputazione sempre per analoghe condotte mentre il Tribunale ordinario di Como, in sede di giudizio di primo grado, aveva assolto gli imputati per non aver commesso il fatto inerente ad altra contestazione e dichiarato estinto per prescrizione il delitto contemplato da autonomo capo.

Ciò posto, la sentenza emessa dai giudici di seconde cure era stata oggetto di distinti ricorsi per Cassazione proposti dai difensori degli imputati che, a loro volta, ne avevano dedotto la nullità assoluta e insanabile perché, all’esito di una camera di consiglio svoltasi senza avviso alle parti, aveva dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, nonostante dagli atti risultasse, a loro avviso, evidente l’insussistenza della condotta associativa.

Detto questo, nel giudizio innanzi alla Cassazione, era stata rimessa la decisione del ricorso per Cassazione alle Sezioni unite, ritenendosi di non condividere il principio di diritto enunciato, con riguardo ad analoga vicenda processuale, dalle stesse Sezioni unite con la sentenza 27 aprile-9 giugno 2017, n. 28954 secondo cui: «[n]ell’ipotesi di sentenza predibattimentale d’appello, pronunciata in violazione del contraddittorio, con la quale, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.»; quindi, secondo tale regola giurisprudenziale, la Corte di Cassazione non può annullare con rinvio la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione emessa dalla Corte di Appello senza fissazione di udienza con avviso alle parti, in specie all’imputato appellante avverso la pronuncia di condanna in primo grado, perché il giudice del rinvio non potrebbe fare altro che reiterare la declaratoria di estinzione del reato.

Chiarito ciò, va altresì fatto presente che, nel rimettere il ricorso alle Sezioni unite, si sosteneva che una siffatta sentenza, più che affetta da nullità assoluta e insanabile, sarebbe abnorme, perché pronunciata in difetto di potere in concreto, atteso che la legge processuale non consente che il giudizio d’appello sia definito con una sentenza predibattimentale con la conseguenza che, riguardo ad essa, non potrebbe operare, per tale ragione, la regola di elaborazione giurisprudenziale della prevalenza della causa estintiva su eventuali cause di invalidità occorse nei gradi di merito, fermo restando che, sempre in quella occasione, era stato oltre tutto evidenziato che l’utilizzo della regola della prevalenza della causa estintiva con riguardo ad una sentenza predibattimentale di appello adottata de plano, in assenza di giudizio, pone il sistema processuale in tensione con il principio costituzionale del contraddittorio e del giusto processo.

Orbene, a fronte di tale remissione, dal canto suo, il Presidente aggiunto della Corte di Cassazione aveva restituito il ricorso alla Sezione per una nuova valutazione sulla effettiva sussistenza dell’interesse all’impugnazione, osservando che nessuno dei due ricorrenti aveva manifestato la volontà di rinunciare alla prescrizione maturata e dichiarata dalla Corte di Appello.

La Sezione, alla quale era ridestinato il ricorso, ritenendo che la regola di elaborazione giurisprudenziale, condensata nel principio di diritto enunciato dalla sentenza delle Sezioni unite penali n. 28954 del 2017, si ponesse in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza, di inviolabilità del diritto di difesa e di giusto processo, dal canto suo, sollevava questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 129, 568, comma 4, 591, comma 1, lettera a), 601, 605 e 620 del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui, in caso di giudizio di appello definito con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, illegittimamente emessa in fase predibattimentale senza citazione delle parti e comunque senza alcuna forma di contraddittorio, consente alla Corte di Cassazione, investita da rituale ricorso dell’imputato, di dichiarare l’inammissibilità dello stesso per carenza d’interesse e non prevede, invece, la declaratoria di annullamento della sentenza impugnata, con trasmissione degli atti alla Corte di appello per il giudizio nel contraddittorio delle parti.

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Quanto alla rilevanza delle questioni, il Collegio rimettente sosteneva che il richiamato principio costituirebbe diritto vivente, atteso che ad esso si sono allineate le sentenze della Corte di Cassazione, sezione seconda penale, 26 settembre-15 ottobre 2018, n. 46776, nonché sezione terza penale, 30 gennaio-25 maggio 2020, n. 15758, rilevando al contempo come non potrebbe comunque sostenersi che esse costituiscano espressione di un orientamento dissenziente, considerata la diversità delle fattispecie in esame, le sentenze della Corte di Cassazione, sezione seconda penale, 15 gennaio-1° aprile 2020, n. 11042; sezione terza penale, 19 dicembre 2019-20 marzo 2020, n. 10376 e 20 giugno-3 ottobre 2019, n. 40522 dal momento che, in tali sentenze, il diritto dell’imputato allo svolgimento dell’udienza dibattimentale di appello è stato riconosciuto, rispettivamente, a fronte di sentenze predibattimentali pronunciate in assenza di contraddittorio che avevano dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, confermando la confisca disposta in primo grado oppure ordinando la restituzione delle cose sequestrate, con revoca della confisca disposta in primo grado.

Ciò posto, si faceva altresì presente come sia a sua volta connotata da specialità la soluzione indicata dalla più recente giurisprudenza di legittimità in rapporto alla nullità insanabile della sentenza predibattimentale con la quale il giudice di appello dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, qualora in primo grado la parte civile abbia proposto richiesta di condanna dell’imputato al risarcimento dei danni, imponendosi il dibattimento nel contraddittorio delle parti per procedere alla delibazione di merito relativamente ai capi della sentenza che concernono gli interessi civili (Corte di Cassazione, sezione seconda penale, sentenza 25 settembre-18 novembre 2020, n. 32477).

Orbene, con riferimento alle ragioni in base alle quali il Presidente aggiunto della Corte di Cassazione aveva restituito gli atti, l’ordinanza di rimessione riteneva che la soluzione che propende per l’annullabilità senza rinvio della sentenza d’appello dichiarativa della prescrizione del reato pronunciata de plano, in violazione del contradditorio tra le parti, allorché l’imputato rinunci alla prescrizione, allegando, così, un interesse concreto ed attuale alla celebrazione del giudizio di appello da lui promosso (viene al riguardo menzionata ancora la sentenza della Corte di Cassazione n. 15758 del 2020), sarebbe incoerente con l’assetto giurisprudenziale elaborato in proposito dalle stesse Sezioni unite penali visto che questa ricostruzione, ad avviso del giudice a quo, non terrebbe conto che la medesima giurisprudenza di legittimità ammette l’imputato a rinunciare alla prescrizione soltanto una volta che essa sia maturata ma non ancora dichiarata, sicché la peculiarità della vicenda, venuta in rilievo nella specie, era che il medesimo imputato, prima della sentenza predibattimentale d’appello, non avrebbe avuto modo di rinunciare alla prescrizione, in quanto ancora non maturata, e, dopo, si sarebbe invece trovato con una estinzione già dichiarata e quindi non rinunciabile, il che avrebbe dato luogo (come nella sentenza n. 15758 del 2020, prima richiamata) ad un adattamento dell’orientamento affermato dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione in ordine all’interesse dell’imputato al ricorso, ma per motivi diversi dalla nullità assoluta della sentenza predibattimentale d’appello per violazione del contraddittorio.

La Sezione prima penale della Corte di cassazione riteneva, quindi, di dover fare applicazione nel giudizio a quo della regola di prevalenza della causa estintiva sulla nullità assoluta della sentenza, cristallizzata nel diritto vivente, non potendo sperimentare diverse soluzioni interpretative, dopo aver tentato la rimessione alle Sezioni unite a norma dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen..

In particolare, l’ordinanza di rimessione sottolineava come proprio l’assenza di una rinuncia degli imputati alla prescrizione già dichiarata (ove pur ritenuta efficace) imporrebbe di valutare l’ammissibilità dei ricorsi in esame secondo la non condivisa interpretazione giurisprudenziale, non stimandosi condivisibile l’affermazione secondo cui l’annullamento della sentenza emessa de plano, e quindi in assenza di giudizio, sarebbe del tutto inutile perché funzionale soltanto alla possibilità per gli imputati ricorrenti di rinunciare alla prescrizione nel corso di una udienza partecipata dinnanzi al giudice del rinvio, quando costoro hanno chiaramente dimostrato la volontà di volersi avvalere della causa estintiva.

In proposito, si osservava anzi che, ove la rinuncia fosse stata fatta, la situazione sarebbe significativamente mutata e verrebbe sottratta all’ambito operativo della regola giurisprudenziale della prevalenza della causa estintiva sulla eventuale nullità, anche assoluta dato che una valida rinuncia sgombrerebbe il campo dalla causa di estinzione del reato e inibirebbe il ricorso al criterio della prevalenza, premessa dell’apprezzamento della carenza di interesse al ricorso mentre, invece, è proprio l’assenza di rinuncia alla prescrizione ad accordare rilevanza alla regola plasmata dalle Sezioni unite e a dare centralità alla loro ricostruzione interpretativa.

L’annullamento della sentenza impugnata, piuttosto, per il giudice rimettente, sarebbe naturalmente finalizzato allo svolgimento del giudizio di appello, nel quale, seppure non siano state avanzate richieste di rinnovazione istruttoria, potrebbe procedersi con la dovuta ampiezza, ben maggiore di quanto consentito nel processo di legittimità, a quel controllo in ordine alla prevalenza di una eventuale causa di proscioglimento nel merito sulla causa di estinzione del reato, a cui rimanda in termini di doverosità legata all’evidenza della prova di innocenza l’art. 129, comma 2, cod. proc. pen..

Oltre a ciò, l’ordinanza di rimessione evidenziava ancora, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, che il difensore di uno dei ricorrenti aveva prospettato nell’udienza dinanzi alla Corte di cassazione l’ulteriore interesse allo svolgimento del giudizio di merito sull’impugnazione correlato all’art. 1, comma 1015, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023) il quale condiziona il diritto al rimborso delle spese legali all’eventualità che l’imputato sia assolto nel processo penale perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.

Chiarito ciò, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il Collegio rimettente ripercorreva l’elaborazione della regola giurisprudenziale di prevalenza della causa estintiva sulla eventuale nullità, anche assoluta, incorsa nel giudizio di merito, menzionando le sentenze delle Sezioni unite penali, 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490; 28 novembre 2001-11 gennaio 2002, n. 1021; 3 febbraio-14 luglio 1995, n. 7902; 31 gennaio-24 febbraio 1987, n. 2407, e 27 novembre 1982-1° marzo 1983, n. 1785 fermo restando che uno speciale rilievo veniva attribuito alla sentenza delle Sezioni unite penali 27 febbraio-8 maggio 2002, n. 17179, relativa a una ipotesi di nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione a giudizio dell’imputato, equiparata all’omessa citazione dell’imputato medesimo dal momento che, in quella occasione, era stato precisato che il principio della priorità della causa estintiva del reato rispetto anche alle questioni di nullità assoluta, fatto salvo il caso dell’evidente innocenza dell’imputato, ritraibile dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., incontra due limiti: il primo, allorché l’esame della questione di nullità processuale assoluta e insanabile assuma carattere pregiudiziale rispetto alla causa estintiva, ponendosi come «antecedente logico, legato in modo strumentalmente necessario, alla declaratoria della causa estintiva, nel senso che l’accertamento di questa presuppone il regolare svolgimento del giudizio di merito, per l’acquisizione di dati fattuali funzionali all’applicabilità della prescrizione»; il secondo, nel senso che l’immediata applicabilità della causa estintiva non si ponga «in contrasto con le linee essenziali del sistema», giacché «comunque sul punto specifico è assicurato il contraddittorio tra le parti».

Il giudice a quo sottolineava dunque che questa sentenza regolava una nullità che, pur se assoluta, non aveva però compresso il contraddittorio preliminare alla pronuncia sulla causa estintiva mentre, viceversa, nel diritto vivente creatosi a seguito della sentenza delle Sezioni unite penali n. 28954 del 2017, sarebbe «proprio il contraddittorio a venir meno, in modo radicale e assoluto, con preclusione quindi anche al suo strutturarsi in ordine alla ricorrenza o meno della causa estintiva».

Nel caso della sentenza predibattimentale di appello adottata de plano viene pertanto a mancare del tutto il giudizio e il diritto vivente, di conseguenza, per il giudice a quo, si porrebbe perciò in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza, di inviolabilità del diritto di difesa e di indefettibilità del giusto processo, rappresentando il contraddittorio tra le parti il postulato ineliminabile di ogni pronuncia terminativa del processo che abbia forma di sentenza; in altri termini, una sentenza sul merito dell’azione penale pronunziata senza alcuna forma di interlocuzione con la difesa dell’imputato appare come decisione emessa «al di fuori di un giudizio», dando così luogo ad una nullità per assenza del processo, sicché con riguardo ad essa non può operare la regola della prevalenza della formula terminativa del procedimento per una delle ipotesi previste dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen..


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3. Le argomentazioni sostenute dalle parti 

L’imputato, per il tramite del difensore, depositava atto di costituzione e chiedeva che venissero dichiarare fondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale, richiamando le difese svolte nel ricorso per Cassazione per sostenere la nullità assoluta e insanabile della sentenza d’appello, emessa all’esito di camera di consiglio tenutasi senza dare avviso alle parti ed a fronte delle ragioni che evidenziavano la insussistenza del fatto.

Depositava atto di intervento anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili o comunque non fondate.

Nel dettaglio, il Presidente del Consiglio dei ministri deduceva che sussiste in materia un conflitto risalente nel tempo e tuttora perdurante tra le Sezioni semplici e le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, tale da denotare una “mobilità interpretativa” confermata anche dalle sentenze richiamate nell’ordinanza di rimessione e dal provvedimento di restituzione degli atti adottato dal Presidente aggiunto. 

Orbene, per l’Avvocatura generale dello Stato, il Collegio rimettente non si sarebbe fatto carico, in particolare, di valutare gli effetti della mancata rinuncia degli imputati alla maturata prescrizione, richiamandosi al contempo le pronunce della giurisprudenza di legittimità che, proprio alla stregua dei principi enunciati nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, n. 28954 del 2017, hanno poi individuato ulteriori deroghe alla regola di prevalenza della causa estintiva sulla nullità.

Ciò posto, la difesa statale eccepiva, poi, l’inammissibilità della questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., per difetto di motivazione sul punto.

Nel merito, l’interveniente sosteneva che le censure mosse in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. sarebbero state comunque non fondate, non avendo la Corte rimettente effettuato il bilanciamento degli interessi in gioco, né valutato le ricadute sul principio di durata ragionevole del processo. L’Avvocatura evidenziava tra l’altro che l’art. 129 cod. proc. pen. è norma di sistema, di tal che la soluzione offerta dalle Sezioni unite penali nella sentenza n. 28954 del 2017 risulterebbe opportunamente orientata ad evitare che, in nome solo dell’ortodossia della forma, si pervenga, dando prevalenza alla causa di nullità sulla causa estintiva, all’inutile dilatazione dell’attività processuale, il cui epilogo realisticamente non potrebbe che portare al medesimo esito.

4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Veniva, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il Collegio rimettente non si sarebbe fatto carico, alla luce del conflitto tuttora perdurante tra le Sezioni semplici e le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, di valutare gli effetti della mancata rinuncia degli imputati alla maturata prescrizione.

Difatti, ad avviso del Giudice delle leggi, la Corte rimettente si era dimostrata consapevole della possibilità di privilegiare una diversa lettura del dato normativo contenuto nel censurato combinato disposto, rispettosa dei precetti della Carta fondamentale, ma riferiva che, non condividendo il principio di diritto enunciato dalla sentenza delle Sezioni unite penali n. 28954 del 2017, aveva esperito anche la strada dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., ma che il ricorso era stato restituito alla sezione semplice per una nuova valutazione sulla effettiva sussistenza dell’interesse all’impugnazione e, in tal senso, l’ordinanza di rimessione motivava la propria esigenza di doversi uniformare all’interpretazione oramai radicata nella giurisprudenza di legittimità, qualificabile come «diritto vivente», e ne richiede, proprio su tale presupposto, la verifica di conformità ai parametri costituzionali (sentenze n. 29 del 2019 e n. 39 del 2018).

Orbene, a fronte di ciò, la Sezione prima penale della Corte di Cassazione chiariva dunque che lo scrutinio di legittimità costituzionale non era stato invocato allo scopo di ottenere un avallo all’interpretazione da essa prescelta giacché atteneva, piuttosto, al significato in cui le disposizioni censurate «vivono» secondo l’indirizzo giurisprudenziale consacrato nella indicata decisione delle Sezioni unite penali e ampiamente condiviso, e denunciava perciò il contrasto di tale orientamento, cui non intenderebbe uniformarsi, con i richiamati parametri costituzionali (tra le altre, sentenze n. 122 del 2017, n. 200 del 2016, n. 126 del 2015 e n. 242 del 2014).

L’ordinanza di rimessione, inoltre, spiegava altresì perché l’interpretazione enunciata dalle Sezioni unite nell’esercizio della propria funzione nomofilattica non potesse dirsi contraddetta da alcune successive pronunce delle sezioni semplici le quali avevano deciso su fattispecie che presentavano connotati peculiari, tenuto conto oltre tutto del fatto che la Corte costituzionale ha avuto già occasione di affermare, a proposito dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, il quale costituisce l’omologo, nel processo civile, dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., che l’onere, per la Sezione semplice, di nuova rimessione alle Sezioni unite allorché non intenda condividere il principio di diritto dalle medesime enunciato, non è affatto preclusivo della facoltà, per la medesima Sezione semplice, di promuovere direttamente questione di legittimità costituzionale in ordine alle disposizioni come interpretate appunto dalle Sezioni unite (sentenze n. 13 del 2022 e n. 33 del 2021).

Oltre a quanto sin qui enunciato, veniva anche precisato che, alla stregua delle doglianze formulate nella stessa ordinanza di rimessione, il sindacato di costituzionalità è da restringere al contenuto precettivo dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., in tema di interesse a proporre l’impugnazione, poiché le ulteriori disposizioni indicate non concorrono in via immediata ad esprimere il censurato «diritto vivente», oltre che ad essere chiarito che, poiché la citata disposizione si limita a prevedere che «[P]er proporre impugnazione è necessario avervi interesse», ciò che veniva in discussione nel presente giudizio non è la disposizione in quanto tale, ma l’interpretazione che di essa ha dato il diritto vivente nella specifica situazione in cui si sia in presenza di una sentenza predibattimentale di appello, adottata in assenza di contraddittorio e senza avviso alle parti, dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione sopravvenuta nelle more della celebrazione del giudizio di appello.

Non si escludeva, infine, la rilevanza delle questioni il fatto, riferito nell’ordinanza di rimessione e valorizzato dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri nel corso della discussione in pubblica udienza, che una delle parti private avesse individuato un possibile interesse idoneo a giustificare il superamento della regola, consacrata nel principio di diritto del quale il Collegio rimettente deve fare applicazione, della prevalenza della causa estintiva del reato per prescrizione sulla declaratoria di nullità della sentenza predibattimentale impugnata perché ciò che veniva in rilievo nel giudizio principale era proprio l’applicazione della contestata regola con riferimento all’ipotesi – ricorrente nel caso di specie e da apprezzare nella sua oggettività – in cui l’imputato non abbia rinunciato alla prescrizione. 

L’eventuale esistenza di un possibile, diverso interesse idoneo a corroborare il superamento della regola di elaborazione giurisprudenziale – esistenza in ordine alla quale nell’ordinanza di rimessione non viene svolta alcuna valutazione – non esclude  invero la rilevanza delle questioni, dal momento che il rimettente, per la Corte, correttamente, riteneva di dovere applicare quella regola sulla base del motivato e dirimente rilievo che gli imputati non hanno inteso rinunciare alla prescrizione, e da qui la rilevanza delle questioni, assumendosi carattere pregiudiziale rispetto ad altre soluzioni il superamento della regola che imporrebbe la prevalenza della causa estintiva del reato rispetto all’accertamento della nullità della sentenza impugnata.

Premesso ciò, le questioni sollevate dalla Corte di Cassazione erano reputate fondate, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito innanzitutto come l’interpretazione giurisprudenziale dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., sul profilo dell’interesse richiesto quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, consolidata come diritto vivente ed oggetto della invocata verifica di compatibilità con i precetti costituzionali, sia rinvenibile nella motivazione della richiamata sentenza delle Sezioni unite penali n. 28954 del 2017, avendo questa decisione ribadito in premessa il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, emergente anche da precedenti arresti delle medesime Sezioni unite penali, secondo cui nel giudizio di appello non è consentita la pronuncia di sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’art. 469 cod. proc. pen., ovvero del precedente art. 129, e ciò perché la disciplina del proscioglimento prima del dibattimento di cui all’art. 469 cod. proc. pen. è dettata soltanto per il giudizio di primo grado e perché l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non ammette pronunce de plano atteso che il richiamo di tale norma ad «ogni stato e grado del processo» presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio, e dunque un giudizio in senso tecnico, ossia il dibattimento di primo grado, il processo di appello o il processo di cassazione posto che, solo in tali ambiti, si realizza la piena dialettica processuale fra le parti e il giudice dispone di tutti gli elementi per la scelta della formula assolutoria più favorevole per l’imputato.

Ebbene, precisato ciò, era osservato come la prima conclusione raggiunta dalle Sezioni unite penali sia che la sentenza predibattimentale di appello di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione, emessa de plano, senza la preventiva interlocuzione delle parti processuali, è viziata da nullità assoluta e insanabile, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lettere b) e c), e 179, comma 1, cod. proc. pen., in quanto concreta la «massima violazione del contraddittorio», rappresentando quest’ultimo garanzia di valore costituzionale e  «postulato indefettibile di ogni pronuncia terminativa del processo».

La sentenza delle Sezioni unite penali n. 28954 del 2017 ha affrontato poi il problema della pregiudizialità della declaratoria di estinzione del reato rispetto ad una siffatta causa di nullità, ribadendo che il principio di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., impone nel giudizio di cassazione, qualora ricorrano contestualmente una causa estintiva del reato e una nullità processuale assoluta e insanabile, di dare prevalenza alla prima, salvo che l’operatività della causa estintiva non presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservate al giudice di merito, nel qual caso assume rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio.

Le questioni concernenti le nullità processuali assolute e insanabili, ad avviso delle Sezioni unite penali, possono, dunque, assumere carattere pregiudiziale rispetto alla causa estintiva solo allorché questa non emerga ictu oculi dalla mera ricognizione allo stato degli atti, ma presupponga un accertamento di fatto.

Le finalità perseguite dall’istituto previsto dall’art. 129 cod. proc. pen., che opera con carattere di pregiudizialità nel corso dell’intero iter processuale, impedendo qualsiasi ulteriore superflua attività sarebbero, peraltro, bilanciate con l’eventuale interesse dell’imputato a proseguire il giudizio, in vista di un auspicato proscioglimento con formula liberatoria di merito, ove questi rinunci alla prescrizione, acquisendo altresì pari rilievo la sollecita definizione del processo, che trova fondamento nella previsione di cui all’art. 111, secondo comma, Cost..

La sentenza n. 28954 del 2017 ha così ribadito che solo un interesse concreto dell’imputato alla rinnovazione del giudizio di merito, viziato da nullità assoluta per violazione del contraddittorio, può giustificare la declaratoria di nullità e l’annullamento del provvedimento impugnato. 

Non di meno, la Corte di Cassazione può pronunciare, anche d’ufficio, la formula di merito di cui al comma 2 dell’art. 129 cod. proc. pen., rispetto a quella di estinzione del reato applicata dal giudice di primo o di secondo grado, secondo lo schema decisorio dell’annullamento senza rinvio ex art. 620, comma 1, lettera l), cod. proc. pen., sempre che l’evidenza della prova risulti dalla motivazione della sentenza impugnata e dagli atti del processo, specificamente indicati nei motivi di gravame, di modo che la valutazione richiesta alla Cassazione si limiti ad una “constatazione”, piuttosto che ad un “apprezzamento” (secondo un principio affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezioni unite penali, 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490).

Ed allora, a fronte di quanto sin qui esposto, per la Consulta, il bilanciamento tra l’interesse dell’imputato ad impugnare per la mancata valutazione di cause di proscioglimento nel merito, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., la sentenza predibattimentale d’appello, che abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione senza alcun contraddittorio, e il principio di ragionevole durata del processo, come operato dalla interpretazione radicata nella giurisprudenza di legittimità non condivisa dal rimettente, non appare rispettoso dell’art. 24, secondo comma, e dell’art. 111, secondo comma, Cost., stando all’elaborazione costituzionale del diritto di difesa e della garanzia del contraddittorio, avendo il Giudice delle leggi più volte affermato, anche di recente, che la nozione di “ragionevole” durata del processo (in particolare penale) è sempre il frutto di un bilanciamento delicato tra i molteplici – e tra loro confliggenti – interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo, in maniera da coniugare l’obiettivo di raggiungere il suo scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo, sicché una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. può essere ravvisata soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza e si riveli quindi privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 260 del 2020, n. 124 del 2019, n. 12 del 2016 e n. 159 del 2014).

Difatti, se è ben vero che, in una recentissima pronuncia, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare, con riferimento ad una particolare disciplina del giudizio di sorveglianza, relativa a un modulo procedimentale a contraddittorio differito, che istituti i quali assicurano una sollecita definizione del contenzioso costituiscono attuazione di un preciso vincolo costituzionale, poiché «[l]a ragionevole durata è un connotato identitario della giustizia del processo» (sentenza n. 74 del 2022), tuttavia, ad avviso della Corte di legittimità costituzionale, non può non rilevarsi che una cosa è la disciplina di un procedimento nel quale, sia pure in forma differita, è pur sempre assicurato il contraddittorio, altra cosa è l’assunzione di una decisione con una forma non prevista per il giudizio di appello, senza alcuna possibilità di recuperare il contraddittorio e avverso la quale l’unico rimedio esperibile è il ricorso per Cassazione, tenuto conto altresì del fatto che, del resto, nella medesima pronuncia, si è ribadito che il legislatore, nel perseguire il doveroso obiettivo di accelerare la definizione dei procedimenti, deve compiere «un bilanciamento costituzionalmente sostenibile – tutto interno alla logica degli artt. 24 e 111 Cost. – tra tale obiettivo e la salvaguardia delle altre componenti del giusto processo e dello stesso diritto di difesa», fermo restando che la sentenza n. 317 del 2009 ha già precisato che il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale delineato proprio dall’art. 111 Cost..

In tale sentenza si è, quindi, affermato quanto segue: «[u]na diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata. In realtà, non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24, secondo comma, Cost.: diritti garantiti da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto espansivo dell’art. 6 CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo».

I principi dettati sia dall’art. 111, secondo comma, Cost., sia dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, delineano, così, per la Consulta, la ragionevole durata come canone oggettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia e come diritto delle parti, comunque correlati ad un processo che si svolge in contraddittorio davanti ad un giudice imparziale.

Ciò posto, veniva pertanto rilevato che l’interesse ad impugnare, per conseguire la declaratoria di nullità di una sentenza di appello di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione emessa de plano, senza alcuna attivazione del contraddittorio tra le parti, e dunque al di fuori di un «giusto processo» ex art. 111 Cost., non è bilanciabile con le esigenze di ragionevole durata sottese all’operatività della disciplina della immediata declaratoria delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., così come tanto meno il conclamato sacrificio del contraddittorio e del diritto di difesa può giustificarsi, nella prospettiva dell’utilità concreta dell’impugnazione, in base ad una prognosi di superfluità del dispiegamento di ulteriori attività processuali in sede di rinvio, volte a pervenire al proscioglimento con formula di merito poiché la Corte costituzionale ha già da tempo sottolineato l’essenzialità che riveste il contraddittorio, anche ai fini dell’accertamento della causa estintiva del reato (sentenza n. 91 del 1992), nonché la rilevanza dell’interesse dell’imputato prosciolto per estinzione del reato a sottoporre la mancata applicazione delle formule più ampiamente liberatorie alla verifica di un giudice di merito, piuttosto che alla Corte di Cassazione (sentenza n. 249 del 1989, relativa alla disciplina del previgente codice di procedura penale).

Coerente con tali principi, del resto, notavano i giudici di legittimità costituzionale nella sentenza qui in commento, è l’art. 469 cod. proc. pen. che, nel consentire al giudice di primo grado la possibilità di definire il giudizio con sentenza adottata in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. e salva l’applicabilità del comma 2 di tale articolo, prevede che detta sentenza sia adottata «sentiti il pubblico ministero e l’imputato e se questi non si oppongono», sicché l’istituto, pur perseguendo la finalità deflattiva di evitare i dibattimenti superflui, comunque non priva le parti del diritto all’ascolto delle loro ragioni.

Oltre a ciò, si riteneva infine necessario sottolineare che la sostanziale soppressione di un grado di giudizio, conseguente alla forma predibattimentale della sentenza di appello, non soltanto non trova fondamento nel codice di rito, ma, essendo adottata in assenza di contraddittorio, limita l’emersione di eventuali ragioni di proscioglimento nel merito e, di fatto, comprime la stessa facoltà dell’imputato di rinunciare alla prescrizione, in maniera non più recuperabile nel giudizio di legittimità, la cui cognizione è fisiologicamente più limitata rispetto a quella del giudice di merito.

La Consulta, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 568, comma 4, del codice di procedura penale, in quanto interpretato nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse ad impugnare, il ricorso per Cassazione proposto avverso sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

5. Conclusioni

Con la decisione qui in commento, la Consulta interviene sull’art. 568, co. 4, cod. proc. pen. che, come è noto, prevede che per “proporre impugnazione è necessario avervi interesse” dichiarandolo costituzionalmente illegittimo in quanto interpretato nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse ad impugnare, il ricorso per Cassazione proposto avverso sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

Di conseguenza, per effetto di questa pronuncia, è ammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato e, pertanto, sarà possibile proporre una impugnazione di questo genere.

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione perché, alla luce di quanto ivi statuito, sarà adesso possibile ricorrere per Cassazione in tale caso.

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