La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 726 c.p. atti contrari alla pubblica decenza

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Con la decisione in esame la Consulta, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, ha rimodulato il trattamento sanzionatorio preveduto per la contravvenzione di cui all’art. 726 c.p. (“Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio”) dichiarando tale norma incriminatrice costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309».

Indice:

  1. Il fatto
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  3. Le argomentazioni sostenute dalle parti
  4. Le valutazioni formulate dalla Consulta
  5. Conclusioni

Il fatto

Il Giudice di pace di Sondrio era chiamato a giudicare su un ricorso avverso un’ordinanza-ingiunzione emessa dalla Prefettura della Provincia di Sondrio per il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di 5.000 euro, in relazione alla violazione dell’art. 726 cod. pen. (atti contrari alla pubblica decenza).

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Questo giudice di pace sollevava questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 726 del codice penale, come sostituito dall’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui punisce gli atti contrari alla pubblica decenza con una sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, anziché con una sanzione amministrativa da 51 a 309 euro.

In particolare, tale organo giudicante osservava, da un lato, che, a seguito della modifica apportata dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, l’art. 726 cod. pen. – che in precedenza prevedeva una contravvenzione punita con la pena alternativa dell’arresto fino a un mese o dell’ammenda da 10 a 206 euro – prevede oggi un illecito amministrativo, punito con la sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro, dall’altro, che l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), in tema di sanzioni amministrative, stabilirebbe una presunzione di colpa in capo al trasgressore (erano richiamate: Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenze 10 febbraio 2009, n. 3251, 21 gennaio 2009, n. 1554 e 11 giugno 2007, n. 13610), e che nel caso di specie non sarebbero state rinvenibili circostanze ed elementi tali da far ritenere che il coefficiente soggettivo in capo al ricorrente sia il dolo non avendo quest’ultimo fornito la prova dell’assenza di colpa, la sua condotta avrebbe dovuto pertanto considerarsi colposa, tenuto conto altresì della considerazione secondo cui il fatto de quo avrebbe dovuto comunque essere sanzionato ai sensi dell’art. 726 cod. pen., che non distingue tra ipotesi dolose e colpose; donde la rilevanza della questione prospettata.

Ciò posto, in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente rilevava che la disposizione censurata avrebbe comminato una sanzione pecuniaria sproporzionata per eccesso rispetto alla sanzione amministrativa, da 51 a 309 euro, prevista per le condotte colpose di atti osceni dall’art. 527, terzo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e, a suo avviso, tale sproporzione avrebbe determinato una violazione dell’art. 3 Cost. in quanto condotte colpose di minore gravità, come quelle sussumibili nell’art. 726 cod. pen., sarebbero state sanzionate in modo notevolmente più severo delle condotte di cui all’art. 527, terzo comma, cod. pen., nonostante quest’ultima disposizione si riferisce a fatti più gravi in quanto dotati necessariamente di una connotazione sessuale; connotazione di cui sono invece privi gli atti contrari alla pubblica decenza (erano all’uopo richiamate Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenze 29 luglio 2011, n. 30242 e 11 giugno 2004, n. 26388).

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.

Ad avviso di questa Avvocatura, invero, la questione sarebbe stata anzitutto inammissibile sotto il duplice profilo dell’insufficienza della descrizione della fattispecie concreta e della carente motivazione della rilevanza della questione, che sarebbe affermata in modo meramente apodittico, avendo il rimettente prospettato la questione con esclusivo riferimento alle condotte colpose di violazione dell’art. 726 cod. pen., ma non avrebbe indagato sulla ricorrenza nel caso sottoposto al suo esame dei presupposti di tale connotazione soggettiva, bensì si sarebbe limitato all’errata e apodittica constatazione che non vi sarebbe stata prova di una deliberata volontà di offesa del bene giuridico protetto da parte del contravventore, e ciò sull’assunto che l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 stabilisce una presunzione di colpa, evidenziando contestualmente come on sarebbe stato però corretto affermare che il dolo richiede una deliberata volontà di offesa, essendo invece sufficiente che la coscienza e la volontà si indirizzino sulla condotta e, nei reati di evento, sul risultato della medesima.

D’altra parte, sempre ad avviso di questa parte, il rimettente non avrebbe illustrato le specifiche circostanze che lo avevano condotto a escludere la connotazione dolosa del fatto, mentre l’asserito «impellente bisogno» del ricorrente avrebbe potuto al più configurare, ove dimostrato processualmente, uno stato di necessità valevole come esimente.

Ciò posto, allo stesso modo, si reputava parimenti errato anche il presupposto interpretativo secondo il quale la colpa negli illeciti amministrativi andrebbe presunta ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, giacché tale disposizione «risponde invece alla esigenza di individuare l’elemento soggettivo richiesto in via generale per la sanzionabilità di violazioni amministrative, il quale, come per le medesime fattispecie anteriormente inquadrate come reati contravvenzionali, prescinde dalla natura colposa o dolosa della condotta, rilevando soltanto la suitas della condotta» (è richiamata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 18 giugno 2020, n. 11777).

Infine, sempre ad avviso dell’Avvocatura generale, l’ordinanza de qua non avrebbe dato conto «del vaglio preliminare in ordine alla tempestività dell’opposizione» ai sensi dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981, «né della delibazione del fondamento dei motivi di impugnazione, che in tale tipo di giudizio circoscrivono la res in iudicio deducta».

Oltre a ciò, in via subordinata, la difesa statale chiedeva che la questione fosse comunque dichiarata non fondata dal momento che il più mite trattamento sanzionatorio stabilito per gli atti osceni colposi non risulterebbe irragionevole alla luce dell’evoluzione dei costumi sessuali, che ha condotto a qualificare come non lesive dei valori tutelati dall’art. 527 cod. pen. e, più in generale, a considerare come di ridotto disvalore condotte meramente colpose contrastanti con la moralità sessuale mentre inalterata risulterebbe, invece, l’esigenza di sanzionare condotte colposamente contrastanti con le regole del vivere civile, oggi percepite come più fortemente antisociali che in passato, in quanto funzionali «al fine primo dell’ordinamento giuridico: “ne cives ad arma veniant”», e ciò sarebbe apparso di particolare rilievo in relazione alla «sempre più vasta convivenza di gruppi culturali di origine estremamente diversa sul territorio nazionale per effetto del fenomeno migratorio».

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

In ordine all’eccezione sollevata dalla Presidenza del Consiglio, per il tramite dell’Avvocatura generale, circa l’inammissibilità della questione, in relazione alla insufficiente descrizione della fattispecie e alla carente motivazione sulla rilevanza, la Corte costituzionale la stimava infondata posto che la fattispecie è, a suo avviso, descritta in termini succinti ma chiari: il ricorrente era stato sorpreso a urinare nel parcheggio adiacente a una discoteca, nonostante i bagni di quest’ultima fossero regolarmente funzionanti e ciò bastava, per la Corte, per considerare applicabile la disposizione censurata, senza che occorressero ulteriori accertamenti in punto di fatto, alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconduce all’art. 726 cod. pen. la condotta consistente nell’urinare in un luogo pubblico, o comunque aperto al pubblico (Corte di Cassazione, sezione settima penale, sentenze 27 ottobre 2017-13 aprile 2018, n. 16477 e 17 gennaio 2017, n. 20852; sezione terza penale, sentenza 6 novembre 2013, n. 48096), non constando d’altra parte circostanze di fatto idonee a far supporre la sussistenza di cause esimenti, rilevando al contempo che, dall’applicabilità dell’art. 726 cod. pen. nel caso di specie, ne discendeva pianamente la rilevanza della questione posta dal giudice a quo che dubitava della legittimità costituzionale della cornice sanzionatoria attualmente prevista dal legislatore, essendo evidente che – in caso di rigetto della questione – avrebbe dovuto essere confermata la sanzione irrogata e impugnata dal ricorrente, pari al minimo edittale di 5.000 euro.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, per altro verso, e contrariamente a quanto argomentato dall’Avvocatura generale dello Stato, non inficiava la rilevanza della questione l’eventuale errore compiuto dal giudice a quo circa la natura dolosa o colposa della condotta ascritta al ricorrente visto che, tanto nell’uno come nell’altro caso, ad avviso del Giudice delle leggi, la disposizione censurata avrebbe dovuto trovare comunque applicazione dal momento che l’illecito amministrativo – così come accade per le contravvenzioni – è punito indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, e la distinzione tra i diversi titoli di responsabilità rileva soltanto ai fini della commisurazione della sanzione, ferma restando però l’inderogabilità del minimo edittale, la cui eccessiva entità è per l’appunto denunciata dal rimettente.

Allo stesso modo, sempre per la Consulta, non poteva addebitarsi al giudice a quo di non avere dato conto nell’ordinanza di rimessione della tempestività dell’opposizione e della sua fondatezza, laddove fosse stata accolta la questione di legittimità costituzionale prospettata visto che, da un lato, l’esigenza di una puntuale motivazione sulla rilevanza della questione, pur costantemente affermata dalla Corte costituzionale, non può essere estesa sino a pretendere che il giudice a quo si impegni nella confutazione di tutte le pensabili eccezioni di rito, rilevabili su istanza di parte o d’ufficio, che ostino all’esame del merito della domanda nel giudizio che pende avanti a sé, salvo che nel caso in cui sussistano plausibili ragioni – emergenti dalla stessa ordinanza di rimessione – che possano condurre a dubitare di tale ammissibilità (sentenza n. 102 del 2020), dall’altro lato, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, emergeva, sempre per la Corte, con evidenza, il convincimento del giudice che il fatto materiale contestato al ricorrente sussista, e che l’unica ragione per la quale potrebbe essere accolta la sua opposizione consiste nell’eccessività della sanzione pecuniaria irrogata: eccessività determinata, per l’appunto, dalla disposizione della cui legittimità costituzionale lo stesso rimettente dubita, e ciò che, ancora, confermava, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la rilevanza della questione prospettata.

Premesso ciò, entrando nel merito della questione, la Consulta stimava opportuno procedere ad un preliminare inquadramento del contesto normativo nel quale essa si colloca, il che era fatto nei seguenti termini: “Prima della modifica apportata dall’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, l’art. 726, primo comma, cod. pen. configurava una contravvenzione, da ultimo punita con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 10 a 206 euro. La condotta era – e tuttora è – descritta come il fatto di «[c]hiunque, in luogo pubblico o aperto e esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza». L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale intervenuta dal 1930 a oggi su questa disposizione si è essenzialmente concentrata sul problema della distinzione del suo ambito applicativo da quello della fattispecie di atti osceni, originariamente configurata dall’art. 527 cod. pen. come delitto. Nella sua versione originaria, l’art. 527 cod. pen. al primo comma sanzionava con la reclusione da tre mesi a tre anni «[c]hiunque, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni»; mentre, all’allora secondo comma, prevedeva una mera pena pecuniaria (da ultimo fissata nella multa da trecento a tremila lire) nell’ipotesi in cui il fatto avvenisse «per colpa».

Secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi sulle originarie disposizioni del codice penale e poi costantemente ribadita, «la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave, il pudore sessuale, suscitando nell’osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione» (Corte di cassazione, sezione settima penale, sentenza n. 16477 del 2018; in senso conforme, sezione terza penale, sentenza 5 dicembre 2013-4 febbraio 2014, n. 5478). Sulla base di tale criterio, si è ad esempio ritenuto che costituiscano atti contrari alla pubblica decenza l’urinare in luogo pubblico (supra, punto 2), l’esporre il corpo nudo in una spiaggia pubblica non riservata ai nudisti (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 20 giugno 2012, n. 28990 e 27 giugno 2005, n. 31407), l’essere sorpresi addormentati e completamente nudi in un’autovettura al fianco di una donna semisvestita (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 22 maggio 2012, n. 23234), il palpeggiarsi i genitali davanti ad altri soggetti in modo scostumato e scomposto ma non espressivo di «concupiscenza» e di «dimostrazione di “libido”» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 11 giugno 2004, n. 26388). Viceversa, sono stati ritenuti integrare la più grave fattispecie di atti osceni l’essere sorpresi, completamente nudi, a compiere un atto sessuale all’interno di un’autovettura parcheggiata su una piazza centrale del paese senza alcuna specifica cautela per evitare di essere visti (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 29 luglio 2011, n. 30242), il toccamento lascivo di parti intime del proprio corpo, sia pure al di sopra degli abiti (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 13 gennaio 2015, n. 19178), il fatto di mostrare e toccarsi i genitali in una spiaggia affollata di bagnanti (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza n. 5478 del 2013) o in una piscina (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 27 febbraio 2020, n. 16465), e in generale gli atti esibizionistici, tra cui in particolare la masturbazione in luogo pubblico (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 21 gennaio 2022, n. 3318, e 17 giugno 2021, n. 32687). Da tale casistica si evince in definitiva che il criterio discretivo tra i due illeciti, per come inteso dal diritto vivente, non risiede nella circostanza che l’autore mostri o meno le parti intime del proprio corpo, quanto nel particolare atteggiamento soggettivo che accompagna la condotta: laddove la nudità sia esibita in modo da non convogliare un messaggio di natura sessuale, essa configurerà – al più – la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza; mentre risulterà integrata la fattispecie di atti osceni quando la condotta dell’agente convogli chiaramente un tale messaggio, senza che – in tal caso – sia neppure necessaria l’esibizione diretta degli organi genitali. (…) Sull’impianto originario del codice penale si sono succeduti vari interventi che hanno avuto a oggetto le due fattispecie in questione. Anzitutto, l’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) ha trasformato in mero illecito amministrativo la fattispecie di atti osceni colposi, di cui all’allora secondo comma dell’art. 527 cod. pen. Successivamente, l’art. 3, comma 22, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Diposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha introdotto nell’art. 527 cod. pen. un nuovo secondo comma, che prevedeva l’aumento da un terzo alla metà della pena prevista dal primo comma, per l’ipotesi in cui il fatto «è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano». Infine, l’art. 2, commi 1, lettera a), e 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 ha trasformato in altrettanti illeciti amministrativi, rispettivamente, il primo comma dell’art. 527 cod. pen., che configura la fattispecie base di atti osceni dolosi, e l’art. 726 cod. pen., in questa sede censurato. Parallelamente, l’art. 2, comma 1, lettera b), dello stesso d.lgs. n. 8 del 2016 ha previsto un’autonoma cornice edittale per l’ipotesi di cui all’art. 527, secondo comma, cod. pen., conservandone la natura di delitto. (…) In sintesi, il quadro che risulta da tali interventi è così composto: – la fattispecie base di atti osceni dolosi è, oggi, prevista dall’art. 527, primo comma, cod. pen. come illecito amministrativo, punibile con la sanzione pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro; – la fattispecie (costituente lex specialis rispetto all’ipotesi base del primo comma) di atti osceni commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, prevista dall’attuale secondo comma dell’art. 527 cod. pen., ha conservato carattere di delitto, ed è punita con la reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi;

– la fattispecie di atti osceni colposi è prevista dall’attuale terzo comma dell’art. 527 cod. pen. come illecito amministrativo, al quale è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 51 a 309 euro;

– la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza prevista dall’art. 726 cod. pen. è anch’essa divenuta un illecito amministrativo, al quale è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro, il cui ammontare è oggetto delle censure del rimettente”.

Ebbene, terminato questo excursus normativo, oltre che giurisprudenziale, la Corte costituzionale riteneva la questione prospettata fondata per i seguenti motivi.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che la recente giurisprudenza della Consulta ha affermato che il principio della proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito si applica anche al di fuori dei confini della responsabilità penale, e in particolare alla materia delle sanzioni amministrative a carattere punitivo, rispetto alle quali esso trova il proprio fondamento nell’art. 3 Cost., in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione (sentenza n. 112 del 2019) posto che tali sanzioni «condividono (…) con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto (diverso dalla libertà personale, la cui compressione in chiave sanzionatoria è riservata alla pena); restrizione che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata» (sentenza n. 185 del 2021; in senso conforme, ancora la sentenza n. 112 del 2019, nonché le sentenze n. 212 e n. 88 del 2019 e n. 22 del 2018).

Orbene, per la Consulta, ai fini della verifica della proporzionalità della cornice edittale censurata, dunque, occorreva anzitutto valutare il grado di disvalore dell’illecito sanzionato, trattandosi questa di una valutazione reputata dalla stessa Corte non del tutto agevole in relazione alla laconicità del testo dell’art. 726 cod. pen., che si limita a vietare il compimento di «atti contrari alla pubblica decenza» in luogo pubblico, ovvero aperto o esposto al pubblico.

Ebbene, tale verifica era compiuta incominciando dalla constatazione secondo la quale la giurisprudenza di legittimità formatasi su tale disposizione consente di identificarne l’ambito applicativo in condotte lesive del «normale sentimento di costumatezza», che generano «fastidio e riprovazione»: condotte quasi invariabilmente associate, nella prassi, alla scopertura di parti intime del corpo, attuata però senza convogliare messaggi di natura sessuale, che determinerebbero l’inquadramento nel più grave illecito di atti osceni, rilevandosi al contempo che, tra tali condotte, compare con una certa frequenza nei repertori giurisprudenziali proprio l’urinare in un luogo pubblico: condotta il cui disvalore potrebbe oggi essere percepito, più che nella momentanea scopertura di una parte intima del corpo, nel fatto stesso di insudiciare luoghi abitualmente frequentati dal pubblico, fermo restando che, in ogni caso, per il Giudice delle leggi, si tratta di condotte certamente in grado di ingenerare molestia e fastidio, ma altrettanto indubbiamente di disvalore limitato, risolvendosi – in definitiva – in una espressione di trascuratezza rispetto alle regole di buona educazione proprie di una civile convivenza.

Detto questo, era altresì fatto presente che, a fronte di un simile limitato disvalore, ad avviso della Consulta, la previsione di una sanzione minima di 5.000 euro e di una massima di 10.000 euro non poteva che apparire manifestamente sproporzionata.

Difatti, per la Corte di legittimità costituzionale, per quanto debba riconoscersi un ampio margine di discrezionalità al legislatore nell’individuare la misura della sanzione appropriata per ciascun illecito amministrativo, una tale discrezionalità non poteva che sconfinare nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio, come nei casi in cui la scelta sanzionatoria risulti macroscopicamente incoerente rispetto ai livelli medi di sanzioni amministrative previste per illeciti amministrativi di simile o maggiore gravità, il che è giocoforza affermare a proposito dell’illecito amministrativo all’esame, sol che si confronti la sanzione per esso stabilita e quelle comminate, ad esempio, per illeciti amministrativi di assai frequente realizzazione come quelli previsti in materia di circolazione stradale, molti dei quali – lungi dal determinare mera molestia o fastidio nell’occasionale spettatore – espongono a grave pericolo l’incolumità e la vita stessa di altri utenti del traffico, qual può essere, per esempio, il caso di chi abbia superato con la propria auto di oltre 60 km/h il limite massimo di velocità consentita, magari nel mezzo di un centro abitato, è soggetto oggi a una sanzione amministrativa compresa tra 845 e 3.382 euro.

Ed allora, per la Corte, una tale disparità sanzionatoria non può non ingenerare, in chi risulti colpito da una sanzione così severa, il sentimento di aver subito una ingiustizia, il quale, a sua volta, ha le proprie radici proprio nel vulnus avvertito a quel «valore essenziale dell’ordinamento giuridico di un Paese civile» tutelato dall’art. 3 Cost., e rappresentato dalla «coerenza tra le parti di cui si compone» (sentenza n. 204 del 1982).

Del resto, sempre per la Consulta, l’eccessività del minimo di 5.000 euro si coglieva agevolmente anche nel confronto con lo specifico trattamento sanzionatorio oggi previsto per gli atti osceni: illecito, quest’ultimo, che – a dispetto della distinta collocazione sistematica nel codice penale – è sempre stato considerato dalla dottrina e dalla giurisprudenza in rapporto di gravità maggiore rispetto a quello, fenomenologicamente contiguo, di atti contrari alla pubblica decenza, tanto che il principale problema esegetico relativo all’illecito in esame è rappresentato proprio dalla definizione della linea di demarcazione rispetto agli atti osceni, in relazione a tipologie di condotte spesso caratterizzate dal comune denominatore dell’esposizione di parti intime del corpo.

Oltre a ciò, era altresì notato che, se la fattispecie base di atti osceni dolosi, prevista dall’art. 527, primo comma, cod. pen. è, oggi, qualificata come illecito amministrativo, sottoposto ad una sanzione amministrativa che, nel minimo, è anch’essa pari a 5.000 euro, una tale equiparazione era però ritenuta dalla stessa Corte costituzionale contraria alla tradizione penalistica italiana, che – come appena rilevato – ha sempre individuato una chiara differenza di disvalore tra atti osceni e atti (meramente) contrari alla pubblica decenza, qualificando i primi come delitto punibile (se commesso con dolo) con la reclusione da tre mesi a tre anni, i secondi come contravvenzione soggetta all’arresto da cinque giorni a un mese o, in alternativa, a una blanda ammenda (da ultimo, da 10 a 206 euro), tenuto conto altresì del fatto che il quadro edittale, stabilito per gli atti contrari alla pubblica decenza, consentiva d’altra parte al trasgressore di definire il procedimento a proprio carico mediante il semplice pagamento di un’oblazione pari, ex art. 162-bis cod. pen., alla metà del massimo dell’ammenda, e dunque di 103 euro, il cui effetto era quello di estinguere il reato.

Né il drastico innalzamento, attuato dall’intervento di depenalizzazione del 2016, della sanzione pecuniaria rispetto all’ammenda previgente – che era poi l’unica pena effettivamente applicata nella prassi per contravvenzioni come l’art. 726 cod. pen. nella formulazione previgente – risultava essere, sempre per la Consulta, in alcun modo spiegabile sulla base di un maggior disvalore acquisito dagli atti contrari alla pubblica decenza rispetto al passato, come ipotizzato dall’Avvocatura generale dello Stato, essendo vero, semmai, il contrario.

Difatti, l’illecito ora in esame sanziona – oggi come ieri – condotte scostumate e inurbane, atte a ingenerare molestie e fastidio negli spettatori; mentre la fattispecie di atti osceni – anche nella sua forma base di cui all’art. 527, primo comma, cod. pen. – comprende condotte connotate da gravità tutt’altro che trascurabile, come in particolare gli atti esibizionistici, i quali sono spesso percepiti dalla persona che ne sia involontariamente spettatrice come atti aggressivi, idonei a ingenerarle il comprensibile timore di successivi atti di natura violenta, e ciò tanto più quando il fatto sia compiuto in luoghi isolati e la persona verso cui l’atto si rivolge sia per qualche ragione vulnerabile: dovendosi in proposito tener presente che il delitto di cui al secondo comma dell’art. 527 cod. pen., il solo illecito penale residuato agli interventi di depenalizzazione, si realizza soltanto quando il fatto sia commesso «all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori».

Tra l’altro, a fronte di ciò, l’evoluzione dei costumi sessuali su cui ragionava l’Avvocatura generale, dello Stato, e la conseguente minore sensibilità collettiva nei confronti della nudità del corpo in sé considerata, per il Giudice delle leggi, non attenuavano affatto la gravità delle condotte da ultimo menzionate stante il fatto che di tali condotte oggi semmai si riconosce, assai più chiaramente di quanto non accadesse in passato, la dimensione lesiva non solo e non tanto del «pudore» – e cioè del bene giuridico collettivo, concepito a sua volta quale species dei beni «moralità pubblica» o del «buon costume», alla cui tutela è dichiaratamente funzionale il delitto di atti osceni, secondo la sistematica del codice del 1930 –, quanto soprattutto degli interessi e dei diritti fondamentali delle persone nei cui confronti tali condotte sono, spesso, specificamente indirizzate.

Sicché anche da questo angolo visuale la, sia pur parziale, equiparazione sanzionatoria tra i due illeciti realizzata dal legislatore delegato del 2016, si confermava, per la Corte, come priva di qualsiasi ragionevole giustificazione.

Accertato così il vulnus al principio di proporzionalità della pena, a questo punto della disamina, per la Consulta, occorreva valutare se e come fosse possibile ricondurre a legalità costituzionale la disposizione censurata.

Al riguardo, soccorreva, per la Corte costituzionale, la recente ma ormai copiosa giurisprudenza elaborata in questa sede secondo la quale – una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione – «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 62 del 2022), risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018).

Ebbene, in relazione a tale giurisprudenza costituzionale, preso atto di come il rimettente avesse indicato, quale soluzione “costituzionalmente adeguata”, la cornice edittale stabilita per la peculiare ipotesi di atti osceni realizzati «per colpa», per i quali, ai sensi dell’art. 527, terzo comma, cod. pen., è prevista la sanzione amministrativa pecuniaria da 51 a 309 euro, per il Giudice delle leggi, tale soluzione appariva essere congrua dato che, per quanto la condotta integrante l’illecito di atti osceni colposi sia caratterizzata, dal punto di vista materiale, dal necessario coinvolgimento della sfera sessuale da parte dell’agente, che resta invece estranea agli atti contrari alla pubblica decenza, la natura meramente colposa della condotta – evidenziata dall’assenza di consapevolezza, da parte di chi pone in essere la condotta, della percepibilità da parte di terzi dell’atto sessuale compiuto – esclude in radice quella dimensione aggressiva posseduta, invece, dagli atti sessuali deliberatamente compiuti in pubblico, spesso diretti verso una o più vittime determinate mentre la visione involontaria di atti sessuali compiuti da altri senza alcuna intenzione aggressiva o comunque maliziosa nei confronti di terzi potrà, al più, ingenerare nello spettatore un senso di fastidio e di molestia sostanzialmente analogo a quello provocato dalla generalità degli atti inurbani e scostumati riconducibili, appunto, alla fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza.

Né tale conclusione, sempre ad avviso della Consulta, avrebbe potuto essere inficiata dall’obiezione per cui l’illecito di atti contrari alla pubblica decenza comprende anche condotte dolose, a differenza di quanto accade per l’illecito di cui all’art. 527, terzo comma, cod. pen. dal momento che, rispetto alla generalità degli illeciti amministrativi, come accade per le contravvenzioni, il fuoco del disvalore del fatto non risiede, per la Corte, nel peculiare atteggiarsi dell’elemento soggettivo (che rileva normalmente soltanto quale criterio di quantificazione della sanzione), bensì nella materialità della condotta, e in particolare nella sua oggettiva dimensione di offensività per gli interessi protetti dalla norma, la quale, a sua volta pare, per l’appunto, non distante da quella caratteristica dell’illecito di atti osceni, allorché compiuto meramente per colpa, restando comunque ferma, naturalmente, la possibilità per il legislatore di individuare altra e in ipotesi più congrua cornice sanzionatoria, che tenga più specificamente conto delle peculiarità dell’illecito amministrativo censurato rispetto a quello di atti osceni colposi, purché nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità dell’illecito e severità della sanzione, che risulta invece macroscopicamente violato dalla disposizione qui esaminata.

La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 726 del codice penale, come sostituito dall’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309».

Conclusioni

Con la decisione in esame la Consulta, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, ha rimodulato il trattamento sanzionatorio preveduto per la contravvenzione di cui all’art. 726 cod. pen. (“Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio”) dichiarando tale norma incriminatrice costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309».

Dunque, per effetto di tale pronuncia, dovrà adesso essere considerato questo trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello previsto prima che venisse emessa la sentenza qui in commento.

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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