La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354: vediamo in che modo

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Corte cost., 7 aprile 2020 (ud. 7 aprile 2020, dep. 24 aprile 2020), n. 74 (Presidente Cartabia, Redattore Viganò)

 

(Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ordin. penit., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50)

(Riferimento normativo: L. 26/07/1975, n. 354, art. 50, c. 6)

Il fatto

Il giudice a quo  (Magistrato di sorveglianza di Avellino) era stato investito dell’istanza di un detenuto volta a ottenere l’applicazione, in via provvisoria e urgente, dell’affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, della semilibertà; istanza a corredo della quale era allegato un attestato di offerta di lavoro.

L’istante era detenuto per l’espiazione di una pena complessiva di sei anni e cinque mesi di reclusione risultante dal cumulo di quelle inflitte con tre sentenze di condanna; pena che avrebbe dovuto avere termine – tenuto conto del periodo di liberazione anticipata maturata – il 30 agosto 2021.

Ciò posto, dal rapporto informativo della casa circondariale emergeva come l’interessato avesse tenuto una condotta «esente da rilievi di natura disciplinare, e partecipe delle varie opportunità trattamentali» nonché avesse già fruito di tre permessi premio ed era stato recentemente ammesso al lavoro all’esterno della struttura penitenziaria.

Ad avviso del giudice a quo, tuttavia, tali elementi positivi non sarebbero stati ancora sufficienti per la concessione, in via provvisoria e urgente, di una misura che interrompe completamente il contatto quotidiano con il carcere, quale l’affidamento in prova al servizio sociale, e ciò, tenuto conto, per un verso, della natura dei reati per i quali l’istante ha riportato condanna (spaccio continuato di sostanze stupefacenti, ricettazione e bancarotta fraudolenta), sintomatici di una non irrilevante capacità a delinquere e della «verosimile contiguità del condannato con ambienti delinquenziali»; per altro verso, del fatto che la sperimentazione della condotta all’esterno del carcere «è iniziata soltanto da poco»: circostanze che renderebbero necessario «un ulteriore congruo periodo di osservazione e di sperimentazione» anche attraverso la concessione prodromica di benefici «più contenuti» dato che, come ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, il criterio della gradualità nella concessione dei benefici penitenziari, pur non costituendo una regola assoluta, risponde a un razionale apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione cui è ispirato il principio stesso del trattamento penitenziario e ciò soprattutto quando – come nella specie – i reati commessi appaiano sintomatici di una certa pericolosità sociale.

Proprio in questa logica, sussisterebbero, di contro, ad avviso del giudice rimettente, i presupposti per la concessione della semilibertà la quale avrebbe consentito al detenuto di non perdere un’opportunità di lavoro, atta a supportare il suo processo di reinserimento sociale ma l’accoglimento della relativa istanza risulterebbe, tuttavia, precluso dal fatto che il condannato, pur avendo espiato più della metà della pena, doveva ancora scontare una pena detentiva residua superiore a sei mesi: limite entro il quale soltanto, in forza del combinato disposto degli artt. 50, commi 1 e 6, e 47, comma 4, ordin. penit., la misura in questione può essere applicata in via provvisoria e urgente dal magistrato di sorveglianza visto che l’art. 50, comma 1, ordin. penit. prevede che «[p]ossono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e la pena della reclusione non superiore a sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale» mentre il successivo comma 6 stabilisce, poi, che «[n]ei casi previsti dal comma 1, se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale, la semilibertà può essere altresì disposta successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena» richiamando, al riguardo, nei limiti della compatibilità, l’art. 47, comma 4, ordin. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale.

Tale ultima disposizione – dopo aver previsto che l’istanza di concessione della misura è proposta al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione – soggiunge a sua volta che, «[q]uando sussiste un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l’istanza può essere proposta al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di detenzione» il quale, ove siano «offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga, dispone la liberazione del condannato e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova con ordinanza».

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

A fronte di tale quadro normativo, il giudice a quo dubitava della legittimità costituzionale della limitazione in discorso.

Difatti, alla luce di quanto stabilito dal comma 3-bis dell’art. 47 ordin. penit., il magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria l’affidamento in prova al servizio sociale in relazione a pene, anche residue, fino a quattro anni: limite largamente superiore a quello di sei mesi entro il quale soltanto – per il richiamo dell’art. 50, comma 6, ordin. penit. al comma 1 del medesimo articolo – è consentita la concessione provvisoria della semilibertà.

La norma censurata porrebbe, dunque, per l’accesso alla misura «più contenuta» tramite provvedimento dell’organo monocratico, ad avviso del giudice a quo, una condizione più restrittiva di quella prevista per l’applicazione della misura più ampia e, sempre secondo la sua opinione, un simile assetto si rivelerebbe lesivo del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e della funzione rieducativa della pena (art. 27, primo e terzo comma, Cost.).

Il rimettente richiamava, al riguardo, l’ordinanza della prima sezione penale della Corte di cassazione 18 febbraio-1° marzo 2019, n. 9126 che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit. nella parte in cui esclude che la detenzione domiciliare ordinaria si applichi ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. e ciò sebbene tali condannati possano essere ammessi all’affidamento in prova al servizio sociale.

In questa ordinanza, in particolare, veniva evocato il principio di gradualità del trattamento penitenziario onde porre in evidenza l’incongruenza di un simile regime che inibisce al condannato di accedere alla detenzione domiciliare, pur trattandosi di misura maggiormente contenitiva e perciò maggiormente idonea a fronteggiare la pericolosità residua, rispetto all’affidamento in prova, del quale il medesimo condannato potrebbe invece fruire.

Un ragionamento analogo potrebbe essere svolto, e a più forte ragione – secondo il giudice a quo – con riguardo all’ipotesi in esame visto che si dovrebbe considerare che, «nella stragrande maggioranza dei casi», la semilibertà rappresenta, «in una ipotetica piramide», il gradino immediatamente sottostante all’affidamento in prova che è posto al vertice e che spesso le offerte di lavoro in relazione alle quali è formulata l’istanza di semilibertà hanno una validità limitata nel tempo donde l’esigenza di ottenere un provvedimento favorevole in tempi più brevi di quelli richiesti per la decisione dell’organo collegiale e, ancora, che la semilibertà, essendo collegata allo svolgimento di una attività lavorativa, può avere una efficacia rieducativa maggiore della detenzione domiciliare che è una misura «più contenitiva ma passiva».

Ampliare il limite di pena che consente di proporre l’istanza di semilibertà al magistrato di sorveglianza comporterebbe, dunque, per il giudice rimettente, una accelerazione del percorso rieducativo permettendo al condannato di sperimentare la misura in questione già nel periodo che precede l’udienza davanti al tribunale di sorveglianza e, in tal modo, di aspirare – ove abbia dato prova di affidabilità – alla concessione della misura più ampia proprio da parte dell’organo collegiale.

Di contro, la disciplina censurata impone al condannato che abbia già dato prova della «volontà di recupero» ed espiato la metà della pena (o i due terzi, ove si tratti di condannato per taluno dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit.), ma con pena residua superiore a sei mesi, di attendere i tempi per la decisione del tribunale con il rischio di perdere l’opportunità lavorativa che gli era stata offerta.

Ciò comporterebbe, per il magistrato di Sorveglianza di Avellino, non solo una «sostanziale mortificazione» del principio di gradualità, strettamente collegato alla funzione rieducativa della pena ma anche una disparità di trattamento rispetto ai condannati liberi che fruiscono della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale visto che questi ultimi, ove debbano espiare una pena, anche residua, superiore a sei mesi ma inferiore a quattro anni, possono accedere alla semilibertà in forza dell’art. 50, comma 2, ordin. penit. (che riguarda appunto le pene superiori a sei mesi) anche prima dell’espiazione della metà della pena laddove il tribunale ritenga insussistenti i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova.

Il trattamento di gran lunga più favorevole riservato ai condannati liberi potrebbe essere giustificato «solo in parte» con la presunzione di minore pericolosità derivante dalla condizione di libertà atteso che le presunzioni assolute risultano incompatibili con i principi di individualizzazione, proporzionalità e umanizzazione della pena mentre nulla esclude che un condannato detenuto, proprio perché ha affrontato un percorso rieducativo all’interno del carcere, abbia raggiunto un livello di rieducazione superiore a quello del condannato in regime di sospensione dell’esecuzione della pena.

Il Magistrato di sorveglianza di Avellino, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, sollevava, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) «nella parte in cui prevede che il Magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria la semilibertà solo in caso di pena detentiva non superiore a sei mesi».

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate inammissibili o infondate.

L’Avvocatura generale dello Stato rilevava a tal proposito come il giudice a quo avesse chiesto alla Corte costituzionale di intervenire sulla scelta discrezionale del legislatore di differenziare il regime di ammissione alla semilibertà, secondo l’entità della pena da scontare, consentendo l’applicazione provvisoria del beneficio solo a fronte di pene di durata non superiore a sei mesi ma tale intervento implicherebbe, tuttavia, a  suo avviso, scelte politiche riservate al legislatore in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, vale a dire una circostanza che renderebbe inammissibili le questioni.

Ciò posto, le censure del rimettente sarebbero, in ogni caso, ad avviso della parte costituita, infondate dato che la previsione normativa contestata si giustificherebbe alla luce dell’esigenza di favorire l’accesso alla semilibertà nei casi in cui la pena detentiva da espiare risulti di durata contenuta e, dunque, non irragionevolmente tale ipotesi è stata differenziata da quella nella quale la pena superi i sei mesi relativamente alla quale l’ammissione al beneficio potrà essere comunque richiesta al tribunale di sorveglianza in presenza delle condizioni indicate dall’art. 50, comma 2, ordin. penit..

Insussistente si paleserebbe, per altro verso, la denunciata disparità di trattamento tra i condannati detenuti e i condannati liberi che fruiscano della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. i quali possono chiedere al tribunale di sorveglianza di accedere alla semilibertà anche prima dell’espiazione della metà della pena visto che un’analoga previsione è contenuta nell’art. 50, comma 2, ordin. penit. con riguardo ai condannati detenuti che versino nelle condizioni previste da tale disposizione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

La Consulta evidenziava prima di tutto come l’eccezione di inammissibilità delle questioni, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, fosse non fondata rilevandosi a tal proposito che se  il giudice a quo formula, in effetti, all’apparenza, un petitum meramente ablativo del limite dei sei mesi di pena detentiva che circoscrive, in base alla norma censurata, la possibilità di applicazione provvisoria della semilibertà con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in fatto, però, ciò di cui il rimettente si doleva era la difformità per difetto di tale limite rispetto a quello valevole, tanto ai fini dell’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova al servizio sociale, quanto ai fini della sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti del condannato libero: limite pari a quattro anni (anche come residuo di maggior pena) in virtù, rispettivamente, dell’art. 47, commi 3-bis e 4, ordin. penit. e dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. quale risultante a seguito della sentenza di questa Corte n. 41 del 2018.

A prescindere da ogni altro rilievo, la rimozione dei vulnera costituzionali non implica, dunque, secondo il giudice delle leggi, alcuna scelta discrezionale nell’ambito di un ventaglio di possibili alternative mentre, al contrario, i contenuti della pronuncia volta a ripristinare la legalità costituzionale in assunto violata restano puntualmente tracciati dalle coordinate del sistema vigente e segnatamente dalla disciplina delle ipotesi evocate come tertia comparationis: disciplina alla quale, nella logica del giudice a quo, andrebbe allineata quella della fattispecie in discussione.

Premesso ciò, nel merito, le questioni prospettate venivano reputate fondate in riferimento all’art. 3 Cost. alla luce delle seguenti considerazioni.

Si notava innanzitutto come i dubbi di costituzionalità prospettati dal Magistrato di sorveglianza di Avellino attenessero alla procedura di applicazione della semilibertà che, come è noto, è la misura alternativa alla detenzione che consente al condannato e all’internato «di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale» (art. 48, comma 1, ordin. penit.).

Di là da tale comune profilo contenutistico, la misura si scinde al suo interno – secondo una corrente ricostruzione – in tre figure distinte per presupposti e funzioni: la semilibertà per le pene dell’arresto e della detenzione non superiore a sei mesi finalizzata precipuamente a limitare gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata (art. 50, comma 1, ordin. penit.); la semilibertà per pene medio-lunghe cui possono accedere, in base ai progressi compiuti nel corso del trattamento e in vista del graduale reinserimento nella società (art. 50, comma 4, ordin. penit.), i condannati che abbiano espiato almeno la metà della pena (o i due terzi, quanto ai condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis, ordin. penit.) indipendentemente dall’entità della pena residua (art. 50, comma 2, primo periodo, ordin. penit.); infine, la semilibertà cosiddetta “surrogatoria” dell’affidamento in prova al servizio sociale fermo restando che tale ultima figura è stata affiancata alle altre – delineate già ab origine dalla legge sull’ordinamento penitenziario – dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) al fine di realizzare un più razionale coordinamento tra le misure alternative in questione nella logica della progressione nel trattamento posto che ne sono destinatari i condannati che debbano espiare una pena rientrante nel limite di fruibilità dell’affidamento in prova – ossia, attualmente, una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni (art. 47, comma 3-bis, ordin. penit.) – ma che, in concreto, non siano ritenuti ancora meritevoli del beneficio più ampio e, nel qual caso, possono essere ammessi alla misura più contenuta della semilibertà, ancorché non abbiano ancora espiato la metà della pena (art. 50, comma 2, terzo periodo, ordin. penit.).

A fronte di tale quadro normativo, i giudici di legittimità costituzionale osservavano come le censure del rimettente si focalizzassero sulla disposizione del comma 6 dell’art. 50 ordin. penit. il cui testo vigente è frutto della novellazione operata dall’art. 5, comma 1, lettera b), della legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni).

Orbene, la norma censurata stabilisce, al primo periodo, che «[n]ei casi previsti dal comma 1» dello stesso art. 50 ordin. penit. – vale a dire, con riguardo alla semilibertà per pene detentive brevi – «se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale, la semilibertà può essere altresì disposta successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena» visto che, di consueto, a tale forma di semilibertà si accede senza un preventivo passaggio attraverso l’istituto penitenziario grazie al generale meccanismo introdotto dalla stessa legge n. 165 del 1998 con il nuovo art. 656, comma 5, cod. proc. pen.: meccanismo che implica la sospensione ex officio dell’esecuzione della pena detentiva non superiore a tre anni (elevati a quattro dalla sentenza di questa Corte n. 41 del 2018) al fine di consentire al condannato di chiedere, nel termine di trenta giorni, l’ammissione a una misura alternativa dallo stato di libertà.

Il censurato art. 50, comma 6, ordin. penit. si indirizza, dunque, ai condannati che non abbiano saputo o potuto (eventualmente, per l’esistenza di una delle condizioni ostative indicate nel comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen.) avvalersi di tale possibilità.

Riguardo, poi, alle modalità di applicazione della semilibertà per pene non superiori a sei mesi al condannato detenuto, la Consulta evidenziava come la norma denunciata richiami, al secondo periodo, nei limiti della compatibilità, l’art. 47, comma 4, ordin. penit., relativo all’affidamento in prova al servizio sociale rilevando al contempo come il richiamato art. 47, comma 4, ordin. penit. era stato anch’esso oggetto di riscrittura ad opera della legge n. 165 del 1998 nel senso di prevedere che, dopo l’inizio dell’esecuzione della pena, l’istanza di affidamento in prova dovesse essere proposta al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione il quale poteva sospendere l’esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato ove fossero «offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga»: sospensione che rimaneva operante sino alla decisione del tribunale di sorveglianza.

Si trattava, per la Corte costituzionale, di una disciplina anomala in quanto annetteva al provvedimento “cautelare” del magistrato di sorveglianza un contenuto più ampio (la completa libertà) rispetto a quello della pronuncia conclusiva del tribunale di sorveglianza (rispettivamente, la liberazione sottoposta a prescrizioni, nel caso dell’affidamento in prova, e la possibilità di trascorrere parte della giornata fuori dell’istituto, nel caso della semilibertà per pene detentive brevi) vale a dire un’anomalia che, pur tuttavia, la Consulta aveva ritenuto non risolversi in vizio di illegittimità costituzionale (ordinanze n. 446 del 2008 e n. 375 del 1999).

A rimuovere l’anomalia ha peraltro provveduto l’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, sostituendo l’art. 47, comma 4, ordin. penit. posto che la novella ha  riconosciuto al magistrato di sorveglianza il potere di disporre, nelle more della pronuncia del tribunale di sorveglianza, non più la sospensione dell’esecuzione della pena ma l’applicazione provvisoria della misura.

Il citato art. 47, comma 4, ordin. penit. stabilisce, in particolare, nel testo attuale, che l’istanza di applicazione della misura va proposta al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione consentendo, tuttavia, di proporla al magistrato di sorveglianza competente in relazione al medesimo luogo «[q]uando sussiste un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione».

Il magistrato di sorveglianza – alle stesse condizioni già previste in precedenza (ove, cioè, siano offerte «concrete indicazioni» in ordine all’esistenza dei presupposti per l’affidamento in prova e alla sussistenza del grave pregiudizio e non vi sia pericolo di fuga) – dispone quindi l’applicazione provvisoria della misura con ordinanza la quale conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza (cui sono trasmessi gli atti); decisione che deve intervenire nel termine (ordinatorio) di sessanta giorni.

Tal che se ne faceva discendere come la procedura di applicazione provvisoria introdotta nel 2013 – alla quale risulta attualmente riferito il richiamo contenuto nell’art. 50, comma 6, ordin. penit. – non sia estesa alla semilibertà “surrogatoria” dell’affidamento in prova.

Orbene, proprio di tale limitazione si doleva il rimettente ritenendola in contrasto in primo luogo con il principio di eguaglianza.

Il giudice a quo rilevava, in particolare, che, alla luce del combinato disposto dei commi 3-bis e 4 dell’art. 47 ordin. penit., il magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria l’affidamento in prova al servizio sociale in rapporto a pene fino a quattro anni: limite, dunque, largamente superiore a quello di sei mesi operante per l’applicazione provvisoria della semilibertà.

Ebbene, ad avviso del giudice delle leggi, tale assetto si porrebbe in aperta contraddizione con il criterio della gradualità nella concessione dei benefici penitenziari: criterio che – per costante indicazione della giurisprudenza di legittimità – pur non assurgendo a regola assoluta, risponde a un razionale apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione cui è ispirato il principio stesso del trattamento penitenziario (tra le ultime, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 gennaio-22 maggio 2019, n. 22443, e 4 giugno-6 novembre 2018, n. 50026) dato che, nella logica gradualistica, la semilibertà precede e “prepara” l’affidamento in prova che è misura evidentemente più ampia in quanto recide ogni rapporto tra il condannato e l’istituto penitenziario traducendosi in un regime di libertà assistita e controllata.

Sarebbe, perciò, irragionevole, per la Corte di legittimità costituzionale, che l’accesso alla misura “minore” resti soggetto, per l’aspetto considerato, a un regime più restrittivo di quello valevole per la misura “maggiore”.

In relazione a tale criticità, i giudici di legittimità costituzionale notavano come la stessa Consulta si fosse già occupata in due occasioni di questioni volte a censurare che fossero previste, per la fruizione della semilibertà, condizioni oggettive per certi versi più rigorose di quelle richieste per l’affidamento in prova e, in entrambi i casi, era stata negata l’esistenza dei vulnera denunciati escludendo che, alla luce delle differenze strutturali tra le due misure, possa ravvisarsi un’esigenza costituzionale di allineamento dei relativi requisiti di ammissibilità (sentenze n. 338 del 2008 e n. 100 del 1997) visto che affidamento in prova e semilibertà restano tuttora misure distinte non solo sul piano dei contenuti ma anche su quello dei presupposti di ordine soggettivo.

Per l’affidamento in prova è, infatti, richiesta una prognosi positiva riguardo alla capacità della misura di contribuire alla rieducazione del reo e di prevenire il rischio della recidiva (art. 47, comma 2, ordin. penit.) laddove, invece, l’ammissione alle varie forme di libertà si fonda su presupposti più blandi che ruotano sostanzialmente attorno all’esistenza delle condizioni per un graduale reinserimento sociale del condannato (art. 50, commi 4 e 6, ordin. penit.) e dunque ciò esclude che possa ravvisarsi tra le due misure «una sorta di rapporto di continenza» (sentenza n. 338 del 2008),a fronte del quale sarebbe senz’altro irragionevole precludere il “meno” al soggetto che potrebbe (astrattamente) aspirare al “più”.

Il fatto che il condannato presenti ancora un certo grado di pericolosità, tale da non consentire una valutazione favorevole circa la prevenzione del rischio di recidiva attraverso le prescrizioni – anche molto stringenti – che possono accompagnare l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 5, ordin. penit.), si presta, in particolare, per la Consulta, a giustificare la scelta legislativa di stabilire requisiti di ordine oggettivo distinti e più rigorosi per l’ammissione a una misura – quale la semilibertà – «che, comunque, implica un atto di fiducia dello Stato» nei confronti del condannato consentendone l’uscita dall’istituto penitenziario per una parte del giorno (in questi termini, sentenza n. 338 del 2008, con specifico riguardo all’esclusione dalla semilibertà – a differenza che dall’affidamento in prova – dei condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. che non abbiano ancora espiato i due terzi della pena, anche quando la pena residua non superasse – all’epoca – i tre anni).

In senso similare si evidenziava come la Corte costituzionale si fosse di recente espressa anche con riguardo ai rapporti tra l’affidamento in prova e altra misura alternativa alla detenzione parimenti meno favorevole, quale la detenzione domiciliare, dichiarando non fondate le questioni al riguardo sollevate dalla prima sezione penale della Corte di cassazione con l’ordinanza pure diffusamente richiamata dall’odierno rimettente a sostegno delle proprie tesi.

Sulla base di un ragionamento analogo, mutatis mutandis, a quello dianzi ricordato, si era ritenuta, in particolare, non censurabile sul piano costituzionale l’esclusione dalla detenzione domiciliare ordinaria dei condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit.: condannati dei quali pure non è precluso l’affidamento in prova (sentenza n. 50 del 2020).

In tali occasioni, era stato rilevato che un diverso assetto della disciplina della materia, nel segno di una maggiore espansione delle misure alternative alla detenzione, era certamente possibile (sentenza n. 50 del 2020) e forse anche auspicabile (sentenza n. 100 del 1997) ma che esso restava rimesso alle scelte discrezionali del legislatore in tema di politica dell’esecuzione penale.

Nei casi ora ricordati, tuttavia, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano come si discutesse della disciplina dei presupposti sostanziali per l’ammissione alla misura mentre il caso in oggetto era per la Corte diverso e meritava una differente soluzione posto che la discriminazione tra semilibertà e affidamento in prova censurata dal magistrato di sorveglianza rimettente concerne non già le condizioni di accesso alla misura – che, per quanto attiene al limite di pena, risultano già da tempo allineate in forza di quanto dispone l’art. 50, comma 2, terzo periodo, ordin. penit. – ma la possibilità di beneficiare di un accesso “accelerato” tramite una procedura di applicazione provvisoria che eviti al condannato i tempi di attesa della decisione del tribunale di sorveglianza e i pregiudizi ad essi connessi.

In effetti, una volta che il legislatore abbia ritenuto, nella sua discrezionalità, di dover omologare semilibertà e affidamento in prova riguardo al quantum di pena che permette di fruire della misura – così come è avvenuto con l’introduzione della semilibertà “surrogatoria” – non v’è più alcuna ragione per lasciare (contraddittoriamente) disallineato in peius il beneficio “minore” quanto alla possibilità di accesso anticipato e provvisorio al beneficio in presenza di un pericolo di grave pregiudizio, tramite provvedimento dell’organo monocratico.

La mancata estensione della procedura prevista dall’art. 47, comma 4, ordin. penit. alla semilibertà “surrogatoria”, ad avviso della Consulta, aveva una giustificazione con riferimento alla precedente disciplina recata dalla disposizione ora citata la quale – come si è ricordato – attribuiva al magistrato di sorveglianza il potere di disporre tout court la sospensione dell’esecuzione della pena e la messa in libertà del condannato, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza: meccanismo che appariva inopportuno estendere a soggetti privi dei requisiti di affidabilità richiesti per l’accesso all’affidamento in prova e condannati a una pena che, per la sua entità, non poteva dirsi sicuramente indicativa di una ridotta pericolosità.

A fronte di ciò, si considerava come un’analoga giustificazione non fosse più rinvenibile, per converso, in relazione alla procedura di applicazione provvisoria della misura in presenza di situazioni di urgenza e sulla base di un filtro di merito del magistrato di sorveglianza, introdotta dal d.l. n. 146 del 2013, come convertito, in sostituzione del predetto meccanismo.

Soprattutto, come notava il rimettente, l’attesa dei tempi – fisiologicamente più lunghi – richiesti per la decisione del tribunale di sorveglianza potrebbe far perdere al condannato, che pure sia già in possesso di tutti i requisiti per la fruizione della misura, l’opportunità di lavoro in relazione alla quale è stata formulata l’istanza di semilibertà e, con essa, l’effetto risocializzante connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa extra moenia anche in vista della successiva ammissione al beneficio più ampio tenuto conto altresì del fatto che l’ammissione alla misura avviene pur sempre in via provvisoria sotto la condizione della conferma da parte del tribunale di sorveglianza.

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la Consulta affermava come l’art. 50, comma 6, ordin. penit. andasse dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ordin. penit., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50 (e dunque quando la pena detentiva da espiare sia superiore a sei mesi, ma non a quattro anni) fermo restando che le ulteriori censure formulate dal giudice rimettente, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’asserita disparità di trattamento fra i condannati detenuti e condannati che fruiscono della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. nonché, in riferimento all’art. 27, primo e terzo comma, Cost., restavano assorbite.

Conclusioni

Con questa pronuncia la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 50, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ordin. penit., in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50.

Dunque, per effetto di questa sentenza, è consentito al detenuto di potere usufruire della semilibertà in via provvisoria, quando siano offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e vi sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso art. 50 della legge n. 354 del 1975 (e dunque quando la pena detentiva da espiare sia superiore a sei mesi ma non a quattro anni).

Orbene, un tale provvedimento è, ad avviso di chi scrive, condivisibile sia perché, in punto di diritto, la Consulta ha spiegato chiaramente il perché tale pronuncia rappresenta una scelta decisoria differente rispetto a quanto fatto nel passato (trattandosi di casi diversi), sia perché, come ben evidenziato anche dal giudice a quo, l’attesa dei tempi – fisiologicamente più lunghi – richiesti per la decisione del tribunale di sorveglianza potrebbe far perdere al condannato, che pure sia già in possesso di tutti i requisiti per la fruizione della misura, l’opportunità di lavoro in relazione alla quale è stata formulata l’istanza di semilibertà e, con essa, l’effetto risocializzante connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa extra moenia anche in vista della successiva ammissione al beneficio più ampio.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, dunque, non può che essere positivo.

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