Corte di Cassazione, Ordinanza n.5487 del 26.2.2019.
Precedenti giurisprudenziali: Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n.18392; Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017; Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824: Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. Sez. 3, ord., 23 ottobre 2018, n. 26700.
Fatto
Nella sentenza in esame, i ricorrenti avevano chiesto la cassazione della decisione emessa dalla corte di appello di Venezia, la quale aveva riformato la sentenza di primo grado, respingendo la richiesta di risarcimento danni che i ricorrenti avevano promosso nei confronti di una struttura sanitaria locale a causa della morte di un loro congiunto.
In particolare, il loro parente era morto per un attacco ischemico che aveva avuto allorquando si trovava all’interno dell’automobile con la propria moglie e la propria figlia. I ricorrenti imputavano la responsabilità del decesso alla struttura sanitaria, in considerazione del fatto che il loro congiunto era stato visitato, poche decine di minuti prima di morire, da un medico di detta struttura, al quale aveva riferito (durante la visita) di avere dolore al fianco sinistro, anche nel caso in cui veniva effettuata pressione con le dita sul lato sinistro del costato. Inoltre, la responsabilità addotta dai ricorrenti si fondava anche sul fatto che il paziente aveva già riferito, in altre due precedenti occasioni, sempre a medici della stessa struttura sanitaria, la presenza di tale dolore al fianco sinistro e in tutte dette occasioni i medici si erano limitati a somministrargli un antidolorifico e a prescrivergli un controllo presso il medico curante, rimandandolo sempre a casa.
I ricorrenti, inoltre, avevano presentato una denuncia relativa ai fatti di cui sopra, la quale aveva condotto ad un procedimento penale che era stato archiviato in considerazione delle conclusioni del consulente tecnico nominato dalla procura. In particolare, il consulente aveva ritenuto che, nel caso di specie, non si potesse configurare una “ragionevole certezza” che se i medici fossero intervenuti tempestivamente effettuando degli accertamenti più approfonditi avrebbero evitato la morte del paziente (grado di probabilità, quello della ragionevole certezza, richiesto in materia penale per la condanna in caso di responsabilità sanitaria). Pur tuttavia, il consulente aveva ritenuto che vi fossero, invece, gli estremi del “più probabile che non” richiesto nei giudizi civili per responsabilità sanitaria al fine di configurare una responsabilità della struttura sanitaria.
Sulla scorta di tale valutazione del consulente, i ricorrenti avevano, quindi, introdotto un giudizio civile davanti al tribunale di Venezia per far accertare la responsabilità della struttura sanitaria relativamente alla morte del proprio parente e per chiedere il risarcimento dei conseguenti danni.
Il tribunale di primo grado aveva, appunto, accolto la domanda di risarcimento e condannato la struttura sanitaria, mentre la corte di appello di Venezia, con la sentenza impugnata, aveva invece escluso la responsabilità della struttura medesima.
I ricorrenti hanno, quindi, promosso ricorso in cassazione per far valere l’erroneità della sentenza di secondo cure poiché – a loro dire – la stessa non ha fatto buon uso dei principi sulla ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria. In particolare, secondo i ricorrenti, i giudici d’appello non avrebbero verificato se la struttura sanitaria convenuta avesse assolto all’onere probatorio sulla stessa gravante di dimostrare la diligenza dei propri medici, nonostante la parte attrice avesse contestato in maniera specifica quali negligenze erano state compiute dai medici. Tali inadempienze, infatti, sarebbero riconducibili al fatto che i medici si erano limitati a prescrivere al paziente un semplice controllo del medico curante e a rimandarlo a casa dopo avergli somministrato degli antidolorifici, invece di approfondire con i necessari accertamenti strumentali la causa del dolore al fianco sinistro lamentata dal paziente. Secondo i ricorrenti, tale omissione può ritenersi causa della morte del paziente, in quanto se i medici avessero tenuto un comportamento positivo (cioè avessero svolto degli accertamenti più approfonditi per verificare la possibile presenza di una patologia cardiaca) si sarebbe evitata la morte del paziente per l’attacco di ischemia avuto in macchina. Secondo i ricorrenti, quindi, sarebbe stato onere della struttura sanitaria dimostrare che anche l’effettuazione di detti accertamenti approfonditi non avrebbe condotto a riscontrare preventivamente i rischi cardiologici che poi hanno condotto alla morte il paziente.
La decisione della Corte di Cassazione
La corte di cassazione, pur non ritenendo condivisibile la modalità di ripartizione dell’onere probatorio suggerito dai ricorrenti, ha comunque accolto il ricorso.
Gli ermellini hanno, infatti, ricordato che nei giudizi per responsabilità medica sussistono due diversi nessi di causalità: il primo riguarda l’evento dannoso; il secondo riguarda l’impossibilità di adempiere. Soltanto dopo aver dimostrato l’esistenza del primo ciclo causale, si andrà a valutare l’esistenza o meno del secondo. Ebbene, il danneggiato dall’evento di malpractice medica è onerato dal dimostrare il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso: in particolare, egli deve provare l’esistenza di un nesso di causalità fra l’insorgenza della malattia o il suo aggravamento e la condotta posta in essere dal sanitario. Invece, il danneggiante deve provare che egli non poteva adempiere correttamente: in particolare, il sanitario deve dimostrare l’esistenza di una causa imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile la prestazione.
In considerazione di ciò, ricorda la corte di cassazione, in presenza di cause ignote, si può addebitare il mancato assolvimento dell’onere della prova al danneggiante o al danneggiato a seconda se la causa incognita riguarda l’evento dannoso o riguarda la possibilità di adempiere. In particolare, nel caso in cui rimanga incerta la causa dell’evento dannoso sarà l’attore danneggiato a non aver assolto l’onere della prova sullo stesso gravante; invece, nel caso in cui rimanga incerto il fatto se fosse stato possibile o meno adempiere alla prestazione (e quindi se la condotta omessa dal sanitario avrebbe o meno impedito l’evento dannoso) sarà il convenuto danneggiante a non aver assolto l’onere della prova sullo stesso gravante.
Secondo gli ermellini, quindi, nel caso di specie, avrebbero dovuto essere i ricorrenti a dimostrare che la condotta omissiva da parte dei sanitari sia stata la causa del decesso secondo il principio del “più probabile che non”: in altri termini, i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare che se i medici avessero effettuato gli accertamenti diagnostici più approfonditi ci sarebbe stato il 50% +1 di possibilità che l’evento mortale non si sarebbe verificato.
Ciò nonostante, secondo gli Ermellini la corte di appello ha comunque errato nella misura in cui, compiere tale accertamento e conseguentemente nell’escludere l’assolvimento dell’onere probatorio, non ha valutato la complessiva condotta omissiva tenuta dalla struttura sanitaria, così come era stata riferita dagli attori (cioè il fatto che in tre diversi episodi il paziente si era recato presso la struttura sanitaria lamentando il dolore e i medici, in tutte dette occasioni, non avevano effettuato gli accertamenti diagnostici approfonditi). L’errore del giudice di secondo grado è stato essersi limitato a verificare se il giorno dell’ultima visita, alla quale è seguita la morte del paziente dopo poche decine di minuti, sarebbe stato evitato l’attacco ischemico qualora i medici avessero svolto gli accertamenti diagnostici approfonditi.
Sulla base di tali motivazioni, quindi, la corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato nuovamente la causa alla corte di appello affinché decida tenendo conto che nella valutazione del nesso causale tra la condotta omissiva dei medici dell’evento dannoso il consulente tecnico d’ufficio dovrà prendere in considerazione l’intera e complessiva condotta omissiva posta in essere dai medici e non soltanto quella compiuta nell’ultima visita che ha preceduto la morte del paziente.
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