La Cassazione chiarisce in cosa consiste la prova indiziaria nel processo penale

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(Ricorsi dichiarati inammissibili)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 192, c. 2)

Il fatto

La Corte d’appello di Roma confermava la responsabilità degli imputati F. S., F. A. e P. M. in ordine ai reati di cui agli artt. 615 ter e 640 ter cod. pen. (capi b e d) della rubrica) nonché, in parziale riforma della sentenza del 6/7/2016, emessa dal Tribunale di Roma – appellata sia dagli imputati che dalla parte civile – riconosceva gli stessi responsabili anche in ordine al reato di cui all’art. 617 quater cod. pen. (capo c) e, per l’effetto, stante la revoca di costituzione di parte civile nei confronti di F. A. e S., condannava il solo P. al risarcimento del danno in favore della parte civile anche in ordine al reato di cui all’art. 617 quater cod. pen. rimettendo le parti dinanzi al giudice civile per la liquidazione. 

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite dei loro difensori, deducendo i seguenti motivi comuni: 1) violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza ed illogica valutazione dei canoni normativi in materia di prova indiziaria, con riferimento all’art. 615 ter, commi 1 e 2 n. 1, cod. pen. posto che, secondo la prospettazione difensiva, la Corte d’appello di Roma avrebbe confermato la responsabilità degli imputati in ordine al reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico sulla base di mere congetture e forzature dei dati indiziari sprovvisti dei caratteri della gravità, precisione e concordanza rilevandosi, in particolar modo, che il computer della M. M. C., nel quale erano stati rinvenuti alcuni dati della P. S.p.a., non era nella disponibilità dei fratelli F. e che il perito dott. O. si era dichiarato impossibilitato a stabilire quando, come e chi fosse entrato effettivamente nel server della società P. S.p.a.; 2) violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in ordine alla sussistenza del reato di frode informatica di cui all’art. 640 ter cod. pen. nonché in ordine all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. in materia di prova indiziaria atteso che, secondo la difesa, ai fini dell’integrazione dell’elemento materiale del reato in questione, sarebbe necessaria una condotta di alterazione ovvero di manipolazione sul sistema informatico e non invece un semplice intervento invito domino su dati, informazioni o programmi informatici, come ritenuto erroneamente dalla Corte, con conseguente confusione tra la fattispecie di cui all’art. 640 ter cod. pen. e quella di cui all’art. 615 ter cod. pen.; 3) violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 lett. b) ed e), c.p.p. in ordine alla sussistenza della fattispecie di cui all’art. 617 quater cod. pen. nonché all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. in materia di prova indiziaria visto che, secondo la difesa, la condanna in ordine al suddetto reato sarebbe stata fondata su un travisamento del dato probatorio, in particolare sul travisamento delle dichiarazioni del dott. O..

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto inammissibile alla stregua delle seguenti considerazioni.

Con riguardo alla prima doglianza, il Supremo Consesso riteneva come occorresse innanzitutto precisare che la prova critica (o indiretta), fondata sull’utilizzazione degli indizi, consiste essenzialmente nella deduzione di un fatto ignoto da un fatto noto attraverso un procedimento gnoseologico che poggia su massime di esperienza – ricavate cioè dall’osservazione del normale ordine di svolgimento delle vicende naturali ed umane – alla cui stregua è possibile affermare che il fatto noto è legato al fatto da provare da un elevato grado di probabilità ovvero di frequenza statistica, che rappresenta la base giustificativa della regola di inferenza, su cui poggia il metodo logico-deduttivo della valutazione degli indizi.

Premesso ciò, si rilevava inoltre come la giurisprudenza di legittimità avesse chiaramente enucleato i principi che regolano la prova indiziaria sottolineando, in primo luogo, che il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe, nel senso che devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e, quindi, non consistere in mere ipotesi o congetture ovvero in giudizi di verosimiglianza (Sez. 4, n. 2967 del 25/01/1993; Sez. 2, n. 43923 del 28/10/2009).

Detto questo, gli ermellini facevano altresì presente che gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti posto che l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. subordina alla presenza di questi tre concorrenti requisiti l’equiparazione della prova critica (o indiretta) alla prova rappresentativa (o storica o diretta) e, conseguentemente, in mancanza anche di uno solo dei suddetti requisiti, gli indizi non possono assurgere al rango di vera e propria prova idonea a fondare la dichiarazione di responsabilità penale (Sez. 4, n. 22391 del 2/4/2003).

La disamina della prova indiziaria nel processo penale proseguiva in questa sentenza essendo ivi chiarito quando gli indizi possono ritenersi gravi, precisi e concordanti.

Si evidenziava a tal riguardo che: a) il carattere della gravità degli indizi attiene alla misura della capacità dimostrativa o grado di inferenza ed esprime l’elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto in cui si identifica il tema di prova (Sez. 6, n. 3882 del 4/11/2011); b) la precisione degli indizi designa la loro idoneità a fare desumere il fatto non conosciuto e varia in relazione inversa alla loro equivocità nel senso che indizi precisi sono quelli che consentono un ristretto numero di interpretazioni tra cui quella pertinente al fatto da provare; c) la concordanza degli indizi indica la loro convergenza verso un identico risultato ed è qualificata dalle interazioni reciproche riscontrabili tra una moltitudine di indizi gravi e precisi che – pur essendo da soli insufficienti a giustificare una determinata conclusione – acquisiscono, tuttavia, il carattere dell’univocità in ragione del reciproco collegamento e della loro simultanea convergenza in una medesima direzione assumendo, così, il crisma della prova e l’efficacia dimostrativa che a questa inerisce (Sez. 6, n. 3882 del 4/11/2011).

Precisati i tratti distintivi che connotano questo tipo di prova, i giudici di piazza Cavour denotavano altresì come la giurisprudenza di legittimità avesse altresì chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti e cioè: 1) il primo è diretto ad accertare il maggiore o il minore livello di gravità e di precisione di ciascun indizio isolatamente considerato; 2) il secondo momento del giudizio di valutazione è costituito da un esame globale e unitario del quadro indiziario tendente a dissolverne la relativa ambiguità (quae singula non probant, simul unita probant) posto che nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talché il limite della valenza di ognuno risulta superato e l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, sicché l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto che (…) non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice(Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992); in altri termini, “in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti), saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria dissolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” (cfr. Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013; Sez. 1, n. 20461, del 12/04/2016).

Si evidenziava infine che, nel giudizio di legittimità, il sindacato sulla correttezza del procedimento indiziario non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi dato che ciò comporterebbe inevitabilmente apprezzamenti riservati al giudice di merito ma deve piuttosto tradursi nel controllo sulla tenuta logico-giuridica della motivazione, così da verificare se sia stata data esatta applicazione ai parametri normativi, dettati dall’art. 192, comma 2°, cod. proc. pen., e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori (Sez. 4, n. 48320 del 12/11/2009; Sez. 1, n. 1343 del 05/12/1994) e, pertanto, l’esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi da parte del giudice di legittimità si sostanzia nel mero controllo – eseguito con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale – sul rispetto, da parte del giudice di merito, dei criteri dettati in materia di valutazione delle prove dall’art. 192 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 20474 del 15/11/2002; Sez. 1, n. 42993 del 25/09/2008; Sez. 5, n. 4663 del 19/12/2014).

Orbene, una volta individuati siffatti criteri ermeneutici, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto il fatto come, nel caso di specie, apparisse essere coerente e logico l’apparato motivazionale della sentenza impugnata laddove la Corte romana aveva affermato la sussistenza del reato di cui all’art. 615 ter cod. pen. sulla base di un quadro indiziario che, globalmente considerato, risultava essere sintomatico della responsabilità degli imputati posto che essi, avendo lavorato fino al 2009 per la P. S.p.a. come agenti e responsabili della filiale, conoscevano perfettamente le modalità operative dell’azienda e, soprattutto, conoscendone le credenziali e le password, potevano accedere al sistema informatico in uso alla predetta società.

Tal che se ne faceva discendere come costoro sapessero come procurarsi i dati sensibili per lo svolgimento di attività di impresa in modo concorrenziale con l’ex società con cui avevano lavorato avendone conservato le password di accesso fermo restando che, con l’ausilio dell’esperto dott. O., nei pc in uso agli imputati presso la M. M. C. S.r.l. e presso l’abitazione del P. erano stati rinvenuti dati e documenti inerenti l’attività commerciale svolta dalla P. S.p.a. tenuto conto altresì del fatto che, ad ulteriore conferma, poi, della riferibilità dei fatti in oggetto agli imputati, si rilevava che, all’epoca dei fatti, il P. era amministratore della M. mentre i fratelli F. erano i responsabili di fatto della predetta società.

Il Supremo Consesso, dunque, alla stregua di questo compendio probatorio, riteneva come la Corte d’appello di Roma avesse ragionevolmente concluso, con motivazione logica ed adeguata, nel senso dell’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 615 ter cod. pen..

Terminata la disamina del primo motivo, anche il secondo veniva stimato infondato.

Si osservava a tal proposito come alla struttura del reato di cui all’art. 640 ter cod. pen.,  la norma in questione incrimina due condotte e, segnatamente: 1) la prima consiste nell’alterazione, in qualsiasi modo, del funzionamento di un sistema informatico o telematico e, per alterazione, deve intendersi ogni attività o omissione che, attraverso la manipolazione dei dati informatici, incida sul regolare svolgimento del processo di elaborazione e/o trasmissione dei suddetti dati e, quindi, sia sull’hardware che sul software; in altri termini, il sistema  continua a funzionare ma, appunto, in modo alterato rispetto a quello originariamente programmato mentre, per sistema informatico o telematico, deve intendersi un complesso di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso l’utilizzazione (anche parziale) di tecnologie informatiche che sono caratterizzate – per mezzo di un’attività di codificazione e decodificazione – dalla registrazione o memorizzazione, per mezzo di impulsi elettronici, su supporti adeguati, di dati ossia di rappresentazioni elementari di un fatto, effettuata attraverso simboli (bit), in combinazione diverse, e dall’elaborazione automatica di tali dati in modo da generare informazioni costituite da un insieme più o meno vasto di dati organizzati secondo una logica che consenta loro di esprimere un particolare significato per l’utente; 2) la seconda condotta, prevista dall’art. 640 ter c.p., è costituita dall’intervento senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico ad esso pertinenti.

Dopo aver concluso la disamina di questa norma incriminatrice sottolineando come si tratti di un reato a forma libera che, finalizzato pur sempre all’ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, si concretizza in un’illecita condotta intensiva ma non alterativa del sistema informatico o telematico (Sez. 2, n. 13475 del 06/03/2013), si esaminava l’art. 615 ter cod. pen. facendo presente come questo illecito penale risulti essere integrato dalla condotta di colui che – pur essendo abilitato – acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema (SS.UU., n. 4694 del 27/10/2014).

Chiarito ciò, gli ermellini notavano come, sulla base di queste premesse, apparisse essere corretto e coerente il tessuto motivazionale logico-giuridico posto a sostegno della riconosciuta responsabilità degli imputati anche in ordine al reato di cui all’art. 640 ter cod. pen.  senza che ciò comporti la sovrapposizione di quest’ultima fattispecie a quella prevista dall’art. 615ter cod. pen,, trattandosi difatti di fattispecie incriminatrici diverse, suscettibili di concorso formale posto che, come rilevato in sede nomofilattica (Sez. 5, n. 1727 del 30/09/2008), il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello “ius excludendi alíos”, anche in relazione alle modalità che regolano l’accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l’alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto.

Orbene, a fronte di ciò, il Supremo Consesso osservava come la condotta materiale del reato di frode informatica si fosse sostanziata, nel caso di specie, nell’intervento invito domino – attuato tramite l’utilizzo delle password di accesso, conosciute dagli imputati in virtù del pregresso rapporto lavorativo con la P. S.p.a. – su dati, informazioni o programmi contenuti nel sistema informatico in uso alla predetta società il tutto con il conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno consistente nello sviamento della clientela dalla P. S.p.a..

Concluso l’esame anche di questo secondo motivo, venendo ad analizzare il terzo, questo veniva ritenuto parimenti infondato giacché, una volta richiamate da parte della stessa Corte le argomentazioni già svolte in ordine alla valutazione della prova indiziaria, venivano considerate coerenti e corrette le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello per affermare la responsabilità degli imputati anche per il reato di cui all’art. 617 quater cod. pen. posto che, ad avviso del Supremo Consesso, la Corte territoriale aveva ragionevolmente ritenuto dimostrate le intercettazioni delle comunicazioni trasmesse a mezzo posta elettronica all’interno della P. S.p.a. sulla base delle dichiarazioni rese dal dott. O. il quale, in particolare, aveva rilevato che nei pc in uso agli imputati erano presenti e-mail indirizzate alla sede centrale della P. o alle filiali della stessa e che queste erano state aperte, scaricate e copiate fraudolentemente ossia tramite l’indebito uso delle password di accesso al sistema informatico in uso all’odierna parte civile.

Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante in quanto si chiarisce cosa deve intendersi per prova indiziaria secondo quanto previsto dall’art. 192, c. 2, c.p.p..

Come è noto, difatti, questa norma procedurale dispone che l’“esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”.

Ebbene, come appena scritto, il Supremo Consesso, in questa decisione, spiega come e in che termini è applicabile questa norma procedurale in particolar modo attraverso il richiamo a pregressi orientamenti nomofilattici con cui la Cassazione ha affrontato già nel passato tali problematiche,

In particolare, in questa decisione, vengono formulati i seguenti criteri ermeneutici: 1) il procedimento indiziario deve muovere da premesse certe nel senso che devono corrispondere a circostanze fattuali non dubbie e, quindi, non consistere in mere ipotesi o congetture ovvero in giudizi di verosimiglianza; 2) gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti posto che l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. subordina alla presenza di questi tre concorrenti requisiti l’equiparazione della prova critica (o indiretta) alla prova rappresentativa (o storica o diretta) e, conseguentemente, in mancanza anche di uno solo dei suddetti requisiti, gli indizi non possono assurgere al rango di vera e propria prova idonea a fondare la dichiarazione di responsabilità penale; 3) il carattere della gravità degli indizi attiene alla misura della capacità dimostrativa o grado di inferenza ed esprime l’elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto in cui si identifica il tema di prova; 4) la precisione degli indizi designa la loro idoneità a fare desumere il fatto non conosciuto e varia in relazione inversa alla loro equivocità nel senso che indizi precisi sono quelli che consentono un ristretto numero di interpretazioni tra cui quella pertinente al fatto da provare; 5) la concordanza degli indizi indica la loro convergenza verso un identico risultato ed è qualificata dalle interazioni reciproche riscontrabili tra una moltitudine di indizi gravi e precisi che – pur essendo da soli insufficienti a giustificare una determinata conclusione – acquisiscono, tuttavia, il carattere dell’univocità in ragione del reciproco collegamento e della loro simultanea convergenza in una medesima direzione assumendo, così, il crisma della prova e l’efficacia dimostrativa che a questa inerisce; 6) il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti e cioè: 1) il primo è diretto ad accertare il maggiore o il minore livello di gravità e di precisione di ciascun indizio isolatamente considerato; 2) il secondo momento del giudizio di valutazione è costituito da un esame globale e unitario del quadro indiziario, tendente a dissolverne la relativa ambiguità; 7) in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti), saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria dissolversi consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana; 8) nel giudizio di legittimità, il sindacato sulla correttezza del procedimento indiziario non può consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi dato che ciò comporterebbe inevitabilmente apprezzamenti riservati al giudice di merito ma deve piuttosto tradursi nel controllo sulla tenuta logico-giuridica della motivazione così da verificare se sia stata data esatta applicazione ai parametri normativi, dettati dall’art. 192, comma 2°, cod. proc. pen., e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori e, pertanto, l’esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi da parte del giudice di legittimità si sostanzia nel mero controllo eseguito con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale e sul rispetto, da parte del giudice di merito, dei criteri dettati in materia di valutazione delle prove dall’art. 192 cod. proc. pen..

Orbene, tali principi di diritto non possono non essere presi nella dovuta considerazione, in quanto in linea, come già detto prima, con una giurisprudenza costante formatasi sul punto, ogni volta in cui si deve verifiche la sussistenza o meno di una prova indiziaria processualpenalmente rilevante a norma dell’art. 192, c. 2, c.p.p..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, proprio per la sua evidente funzione chiarificatrice su tale aspetto processuale, di conseguenza, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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