L’obbligo di repechage quale limite del giustificato motivo oggettivo di licenziamento – Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 19.02.2008, N. 4068

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E’ principio oramai consolidato in giurisprudenza che il datore di lavoro, convenuto nel giudizio di impugnazione del licenziamento comminato al proprio dipendente, abbia l’onere di provare la legittimità delle ragioni poste a fondamento di quella scelta, e cioè il fatto che quelle ragioni possano integrare una giusta causa ovvero un giustificato motivo di interruzione del rapporto di lavoro.
Parimenti, è altrettanto noto che, qualora la cessazione del rapporto lavorativo sia avvenuta per motivazioni di carattere obbiettivo inerenti all’organizzazione aziendale, tale prova debba riguardare, da un lato, l’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo e, dall’altro, l’impossibilità di ricollocare il dipendente all’interno della struttura aziendale, adibendolo a mansioni anche diverse rispetto a quelle svolte in precedenza, purché di natura equivalente, (c.d. “obbligo di repechage”) .
In tal caso, tuttavia, mentre sotto il primo profilo questa incombenza assume connotati chiari ed inequivocabili, dovendo la prova riferirsi a fatti positivi concernenti l’andamento dell’attività produttiva o la modifica strutturale, logistica ed organizzativa dell’azienda, (ad es.: la riduzione sensibile degli affari, la sopravvenuta chiusura di una filiale o di un cantiere, la soppressione del posto di lavoro per l’acquisto di nuovi macchinari), per ciò che riguarda l’inattuabilità di repechage del dipendente, il relativo onere probatorio si presenta di non facile interpretazione.
La prova, infatti, non solo riguarda evidentemente un fatto di natura negativa, ma si estende necessariamente a tutta la struttura dell’impresa, alle unità produttive in cui la stessa si articola e, secondo un orientamento della giurisprudenza, anche alle eventuali società ad essa collegate, intese quali possibili alternative presso cui impiegare il dipendente licenziato.
Da questo punto di vista, appaiono evidenti le difficoltà che, in concreto, si presentano al datore di lavoro chiamato a dimostrare l’oggettiva impossibilità di adibire il lavoratore nell’ambito della propria azienda, il quale si ritrova a dover assolvere ad un onere la cui ampiezza e gravosità sono tali da rendere incerte la portata e l’efficacia degli elementi probatori offerti a suffragio della propria tesi.
La problematica, solo incidentalmente sfiorata dalla giurisprudenza, trova una più chiara definizione nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, N. 4068 del 19 febbraio 2008, con la quale, la Suprema Corte, nel dirimere sulla legittimità di un licenziamento comminato sulla base del giustificato motivo oggettivo della chiusura dell’agenzia presso cui lavorava il dipendente, ha colto l’occasione per specificare il contenuto ed i limiti della prova relativa all’inattuabilità del repechage.    
In primis, la Corte, richiamandosi agli orientamenti precedenti, ha rilevato che, in tema di repechage, l’inesistenza di un posto di lavoro alternativo presso il quale reimpiegare il dipendente costituisce un fatto negativo che può trovare conferma anche in elementi probatori di natura indiziaria e presuntiva.
Niente di nuovo rispetto al passato.
Con riferimento a questo principio e a mero titolo esemplificativo, si ricordano infatti le numerose sentenze nelle quali la giurisprudenza ha ritenuto sussistere il giustificato motivo oggettivo di licenziamento a fronte dell’allegazione di fatti concernenti: la mancanza, all’epoca del licenziamento, di vuoti d’organico riguardanti mansioni equivalenti a quelle rioccupate dal lavoratore, la mancanza, successivamente alla risoluzione del rapporto di lavoro e per un congruo arco di tempo, di nuove assunzioni relative a personale destinato alle stesse mansioni del dipendente licenziato,l’obiettiva riduzione del volume degli affari, la mancata apertura, al tempo del licenziamento, di nuove unità produttive, (uffici, agenzie, cantieri), presso le quali poter trasferire il soggetto licenziato ovvero il dichiarato rifiuto, da parte di quest’ultimo, della proposta di trasferimento presso altra sede dell’azienda.
Tuttavia, aldilà della varietà di tipologia degli elementi che possono essere offerti a sostegno dell’insussistenza dell’obbligo di repechage, ciò che, secondo la Corte, rileva maggiormente al fine della loro valutazione è il fatto che essi vengano mantenuti entro limiti di ragionevolezza, intesa quale attinenza, verosimiglianza ed effettività.
In questa prospettiva, il principio della ragionevolezza si pone pertanto come punto di riferimento per l’assolvimento dell’onere incombente sul datore di lavoro, rivelandosi non solo quale chiave interpretativa degli elementi probatori sottoposti al vaglio del Giudice, ma anche quale parametro di valutazione della legittimità dei presupposti su cui si fonda la risoluzione del rapporto di lavoro.
Ma viè di più!
La ragionevolezza viene infatti utilizzata dalla Suprema Corte anche quale tramite per introdurre, ed è questo il punto di maggior rilievo, il principio dell’onere di allegazione incombente sul lavoratore.
Partendo dal presupposto che la prova relativa al repechage, avendo ad oggetto un fatto negativo ed estendendosi a tutta la struttura produttiva dell’impresa, rischia concretamente di risolversi in una prova impossibile, la Corte ha affermato l’esistenza di tale onere in capo al lavoratore, il quale, pertanto, ha l’obbligo di introdurre nel processo circostanze ed elementi idonei a suffragare l’attuabilità del reimpiego all’interno dell’organizzazione aziendale, indicando in concreto quali posti di lavoro si erano resi disponibili al tempo del licenziamento.
A ben vedere, il principio assume una portata determinante in quanto, attraverso la sua affermazione, la giurisprudenza sembra voler individuare in maniera chiara e definitiva, non solo i limiti della prova relativa al repechage, all’interno dei quali si può considerare assolto l’onere probatorio incombente sul datore di lavoro, ma anche il nodo nevralgico su cui deve svolgersi la fase istruttoria del giudizio e, conseguentemente, l’oggetto stesso della materia del contendere.  
In definitiva, mentre da un lato, spetta comunque al datore di lavoro comprovare la legittimità dei motivi posti a fondamento del comminato licenziamento (giustificato motivo oggettivo e impossibilità di repechage), dall’altro, incombe sul dipendente l’onere di allegare i fatti che possano far desumere l’effettiva esistenza della possibilità del suo reimpiego. Il datore di lavoro, da parte sua, al fine di dimostrare invece l’impossibilità di adibire il dipendente in posti di lavoro alternativi, potrà limitarsi a rispondere alle allegazioni dedotte dal lavoratore, con la conseguenza che, qualora il dipendente non ottemperi al proprio dovere, l’impossibilità del repechage si riterrà effettivamente comprovata.
 
 
Corte delle Rose, 8 – 31015 Conegliano (TV)

Salamon Alberto

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