In materia di ergastolo ostativo, la Consulta attende solo l’intervento del legislatore?

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Corte cost., 15 aprile 2021 (ud. 15 aprile 2021, dep. 11 maggio 2021), n. 97 (Presidente Coraggio, Relatore Zanon)

(Rinviata all’udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale)

Il fatto

La Corte di Cassazione era stata investita del ricorso per Cassazione proposto, contro un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila, da persona irrevocabilmente condannata alla pena dell’ergastolo con una sentenza della Corte di Assise di Palermo e confermata dalla locale Corte di Assise di Appello.

Il ricorrente, in particolare, era stato riconosciuto colpevole di un delitto di omicidio volontario aggravato ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 e la sanzione dell’ergastolo, concernente il reato in questione, originariamente cumulata alle pene inflitte per fatti ulteriori, era in esecuzione dal 1999.

Nel procedimento in questione, il condannato si era rivolto al Tribunale di Sorveglianza per ottenere un provvedimento di liberazione condizionale.

La richiesta, tuttavia, era stata dichiarata inammissibile poiché la pena in corso di esecuzione era stata inflitta per un reato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività della associazione in esso prevista (associazione di tipo mafioso).

In tali condizioni, secondo la Suprema Corte, i benefici penitenziari e la stessa liberazione condizionale avrebbero potuto infatti essere accordati solo se il condannato avesse prestato collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. o si fosse trovato nella impossibilità di collaborare efficacemente ma, nella specie, ciò non era mai stato registrato un atteggiamento collaborativo e, già in precedenti occasioni (da ultimo con ordinanza del 6 novembre 2018), il Tribunale di Sorveglianza aveva negato che potesse riconoscersi, in favore del ricorrente, una situazione “equivalente” di impossibilità a prestare una collaborazione utile.

Su queste premesse il Tribunale di Sorveglianza aveva quindi ritenuto di non procedere a un esame di merito della richiesta del condannato, negando che gli sviluppi recenti della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale consentano il superamento, in via d’interpretazione, della condizione posta dal comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., e dichiarando la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in proposito dalla difesa del ricorrente.

Ciò posto, a sua volta, la Corte di Cassazione, in via preliminare, ricordava che il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, regolato dall’art. 4-bis ordin. penit., è applicabile con riguardo alla liberazione condizionale per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 e, di conseguenza, il beneficio è ammissibile, in rapporto ai delitti elencati al primo comma del citato art. 4-bis, solo nel caso di collaborazione con la giustizia o di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima.

Mancando nella specie invece tale condizione, per gli Ermellini, il Tribunale avrebbe legittimamente omesso l’esame di merito della domanda di liberazione condizionale, sia riguardo al superamento della soglia minima della pena già scontata, sia riguardo al «sicuro ravvedimento» del condannato.

Proprio per questa ragione, avendo il ricorrente già scontato oltre ventisei anni di reclusione (anche grazie a provvedimenti di liberazione anticipata), e risultando elementi sintomatici del suo possibile ravvedimento, si evidenziava la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale (che esamineremo da qui a poco) volte a temperare l’assoluto valore preclusivo della mancata collaborazione atteso che l’accoglimento di tali questioni non implicherebbe ex se l’accoglimento della domanda difensiva, ma modificherebbe la disciplina applicabile dal Tribunale di Sorveglianza, il quale potrebbe e dovrebbe estendere al merito la propria disamina del caso: «il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019).

Si legga anche:”

-Ergastolo ostativo incompatibile con la costituzione: un anno di tempo al Parlamento

-“Ergastolo ostativo”: verso il superamento di una pena disumana e degradante sulla scia garantista della Corte Costituzionale.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza, la Corte di Cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia.

Orbene, se per quanto attiene la rilevanza delle questioni si rinviava a quanto già enunciato poco prima, trattando della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, la Corte di Cassazione dava atto, in primo luogo, dei precedenti di segno contrario, maturati sia nella giurisprudenza costituzionale, che nella stessa giurisprudenza di legittimità.

Veniva richiamata, in particolare, la sentenza della Consulta n. 135 del 2003 che aveva negato l’esistenza di un’assoluta preclusione di accesso al beneficio della liberazione condizionale, dipendendo quella preclusione, piuttosto, da una scelta volontaria dell’interessato, cioè dalla sua decisione di non collaborare con l’autorità giudiziaria e, prima ancora, con la sentenza n. 273 del 2001, la stessa Corte costituzionale aveva considerato legittima la scelta legislativa di individuare nell’atteggiamento di collaborazione un criterio legale di verifica del ravvedimento maturato dal condannato.

Nella stessa logica – proseguiva la rimettente nel suo ragionamento giuridico – la Corte di Cassazione aveva più volte ritenuto compatibile con la Costituzione la disciplina restrittiva dell’accesso ai benefici penitenziari data la possibilità, concessa ai condannati per reati “ostativi”, di conseguire la liberazione condizionale in presenza dell’indice legale di ravvedimento dato dalla scelta collaborativa (sono citate le sentenze della sezione prima penale 22 marzo-1 luglio 2016, n. 27149, e 17 gennaio-16 febbraio 2017, n. 7428).

Oltre a ciò, il giudice a quo osservava che proprio la residua possibilità per i condannati alla pena perpetua di ottenere il beneficio della liberazione condizionale, anche attraverso il computo dei periodi di liberazione anticipata, avrebbe finora trattenuto la disciplina dell’ergastolo nell’alveo della compatibilità costituzionale (sono citate, a vario titolo, le sentenze di questa Corte n. 161 del 1997, n. 274 del 1983 e n. 264 del 1974) fermo restando come fosse stato al contempo rilevato che l’esistenza di strumenti per la cessazione di una pena originariamente inflitta per la vita intera, in presenza di significativi progressi trattamentali, era stata tradizionalmente valorizzata, sul piano della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti disumani o degradanti, anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sono citate le sentenze 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro; 29 aprile 2008, Garagin contro Italia; 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito; 15 dicembre 2015, Gurban contro Turchia; 16 aprile 2016, Murray contro Olanda; 17 gennaio 2017, Hutchinson contro Regno Unito; 12 marzo 2019, Petukhov contro Ucraina).

Ebbene, alla luce dei precedenti indicati, secondo il giudice rimettente, dovrebbe considerarsi «inumano e degradante» un trattamento fondato sulla reclusione a vita nell’assenza di qualunque possibilità per il condannato di lasciare il carcere, una volta conseguito l’obiettivo della rieducazione (veniva citata ancora la sentenza Vinter della Corte EDU).

D’altronde, sempre a parere dei giudici di piazza Cavour, nella sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia (definitiva dal 7 ottobre 2019), la Corte di Strasburgo aveva preso in specifica considerazione la compatibilità convenzionale di un regime che subordina l’accesso alla liberazione condizionale alla collaborazione dell’interessato con l’autorità giudiziaria ed aveva concluso che la scelta collaborativa non può rappresentare l’unico parametro per identificare e misurare un percorso di effettiva risocializzazione del condannato, potendo quella scelta far difetto per ragioni diverse dalla conservazione del legame criminale.

In tali condizioni, la presunzione assoluta di perdurante pericolosità – tale da rendere inutile qualunque cosa il condannato decida di fare lungo il percorso trattamentale – escluderebbe per la Suprema Corte per l’ergastolo cosiddetto ostativo quella condizione di “riducibilità”, invece necessaria, affinché la pena “perpetua” sia compatibile con le prescrizioni dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Una decisione – aggiungeva la Corte di cassazione – che riprendeva osservazioni analoghe già svolte da questa Corte in anni precedenti (è citata la sentenza n. 306 del 1993).

Detto questo, nel ragionamento del rimettente, assumeva altresì rilievo centrale la recente pronuncia n. 253 del 2019: in essa, la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto che la disciplina allora vigente istituiva una presunzione assoluta di perdurante pericolosità nel caso di mancata collaborazione, di conseguenza affermando l’illegittimità costituzionale del connesso divieto di accordare permessi premio in caso di reato “ostativo”.

A fondamento del giudizio (dovendosi tra l’altro escludere l’ammissibilità di forme di coercizione sull’atteggiamento processuale degli interessati), la Consulta avrebbe comunque affermato la necessità che il giudice, superando la soglia di ammissibilità rappresentata dalla preclusione concernente i non collaboratori, possa valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento del condannato e, a maggior ragione, tale necessità si manifesterebbe quando, per la rilevante durata del percorso carcerario, il tempo trascorso dal fatto e la prolungata sperimentazione del trattamento rendono elevata la probabilità di seri e profondi mutamenti della personalità del detenuto.

Il regime censurato, dunque, comprimerebbe in misura intollerabile la funzione rieducativa della pena (venivano citate le sentenze n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990).

In definitiva, la Corte di Cassazione assumeva che gli approdi della sentenza Viola contro Italia (concernente un caso sovrapponibile a quello posto ad oggetto del giudizio a quo, e segnata da un giudizio di incompatibilità strutturale della disciplina italiana con l’art. 3 CEDU), unitamente a quelli della sentenza n. 253 del 2019 (che ha introdotto la possibilità di permessi premio anche per gli ergastolani non collaboranti), palesavano la non manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati.

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Le argomentazioni sostenute dalle parti

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, interveniva nel giudizio con atto depositato l’8 settembre 2020 chiedendo che la questione fosse dichiarata inammissibile o comunque non fondata.

A suo avviso, la disciplina censurata sarebbe giustificata dalla rilevantissima gravità dei reati cui è connessa la pena dell’ergastolo, discrezionalmente stabilita dal legislatore, e comunque proporzionata alla rilevanza dei beni giuridici compromessi.

La stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto che le opzioni legislative in materia di tutela della sicurezza pubblica sarebbero insindacabili, purché improntate a ragionevolezza (è citata la sentenza n. 223 del 2015), ciò che non farebbe difetto nel caso in considerazione.

In particolare, non sarebbe affatto arbitraria la presunzione che, nel contesto mafioso, l’atteggiamento non collaborativo sia dovuto alla volontà di non recidere i rapporti con l’ambiente di provenienza. Indipendentemente dall’attualità di quei rapporti, andrebbe comunque prevenuto il rischio di un loro ripristino, che potrebbe inverarsi nel caso di liberazione di soggetti portatori di una pericolosità criminale tanto elevata.

Nelle more del giudizio incidentale, varie memorie scritte erano state depositate da gruppi ed organizzazioni, nel ruolo dichiarato di amici curiae.

In particolare, in data 1° settembre 2020 era stata depositata una opinione scritta dell’associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale rappresentata dal proprio presidente.

Nella memoria, con il supporto di dati statistici, si poneva in evidenza la crescente incidenza percentuale dei condannati all’ergastolo rispetto al novero complessivo dei detenuti in Italia, chiarendo nel contempo come si tratti, nella maggior parte, di condannati per reati “ostativi” (1.250 persone, dunque il 70 per cento circa del gruppo di riferimento).

Di grande rilevanza risulterebbe dunque il problema strutturale già rilevato dalla Corte EDU con la nota sentenza Viola, cioè quello del recupero sociale di soggetti che possano considerarsi ravveduti, anche in assenza di atteggiamenti collaborativi.

Secondo l’associazione Antigone, un atteggiamento coercitivo circa le scelte processuali degli imputati e dei condannati, anche quando esercitato indirettamente, contrasterebbe con i principi sovranazionali (era citata la direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali).

Mentre, in fase cautelare, il codice di procedura penale (art. 247, comma 1, lettera a) non annette alcuna valenza negativa al rifiuto dell’imputato di confessare o rendere dichiarazioni etero-accusatorie – prosegue l’opinione – la disciplina censurata implica un ribaltamento di tale principio, nel passaggio dalla fase del processo a quella dell’esecuzione, conseguendone una diminuzione della libertà di determinazione dell’individuo nelle proprie scelte difensive.

La collaborazione potrà invece costituire il presupposto per trattamenti premiali, ma la sua mancanza non potrebbe costituire fondamento per trattamenti deteriori, spinti fino alla preclusione di ogni sbocco rieducativo.

Il 4 settembre 2020 depositava una opinione scritta il Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità – Macrocrimes.

La memoria sosteneva che nel caso di specie dovrebbe affermarsi quanto già la Consulta aveva stabilito per l’accesso degli ergastolani ai permessi premio.

Una presunzione assoluta di perdurante contiguità al contesto criminale, quando fondata sulla mancanza di attiva collaborazione con gli inquirenti, sarebbe, ad avviso di questo Centro studi, priva di ragionevolezza e ciò dovrebbe valere anche riguardo alla liberazione condizionale poiché la ratio decidendi della sentenza n. 253 del 2019 si fonderebbe non già sulle peculiarità di quel beneficio, ma sulle conseguenze generali dell’automatismo costruito dal legislatore: l’asservimento della fase esecutiva alle esigenze dell’investigazione; la svalutazione di ogni concreto ed effettivo progresso nel percorso rieducativo; l’utilizzazione, ai fini indicati, di una generalizzazione inadeguata alla complessità dell’oggetto che dovrebbe illuminare.

Già in precedenza, del resto, la Corte costituzionale avrebbe assimilato la materia delle misure alternative a quella dei permessi premio (sentenze n. 504 del 1995 e n. 306 del 1993), pur indicando questi ultimi come tappa iniziale per un percorso destinato a produrre, se ben praticato, spazi di maggiore libertà (sentenze n. 227 del 1995 e n. 188 del 1990).

Proprio la sequenza tra permesso premio, semilibertà e liberazione condizionale renderebbe, sempre per questo Centro studi, palese l’illegittimità costituzionale dell’attuale disciplina poiché per i detenuti in questione il percorso avviato con il permesso premio resterebbe oggi privo di sbocchi ulteriori.

Da ultimo, l’amicus curiae, nel sollecitare l’accoglimento delle questioni proposte dalla Corte di cassazione, aveva sollecitato declaratorie analoghe, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), sia con riguardo ai condannati all’ergastolo per reati non riconducibili al «contesto mafioso», sia con riferimento ai condannati a pene temporanee per uno o più dei delitti elencati nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.

Il 7 settembre 2020 una opinione scritta era stata depositata dall’associazione Nessuno Tocchi Caino già partecipe, nel ruolo analogo di amicus curiae, del giudizio definito dalla Corte EDU con la sentenza Viola, ormai più volte citata.

L’associazione contestava in particolare, anche sulla base di dati statistici, l’attendibilità della presunzione che vorrebbe le persone condannate all’ergastolo, e non collaboranti, come soggetti ancora pericolosi a lungo tempo dall’inizio della esecuzione della pena.

Si concentrava, poi, sulle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale nel senso che la Corte di Strasburgo avrebbe progressivamente chiarito la necessità di una procedura ordinaria di valutazione del percorso rieducativo seguito dal condannato all’ergastolo, in vista dell’eventuale sua liberazione e quella stessa Corte avrebbe poi stabilito che le condizioni per un ipotetico accesso alla liberazione condizionale devono essere note al condannato fin dall’inizio dell’esecuzione della pena, e che tali condizioni non potrebbero consistere, in via esclusiva, nell’assunzione di atteggiamenti collaborativi, dovendosi piuttosto valutare, secondo criteri oggettivi e prestabiliti, il progresso del detenuto nell’opera di rieducazione (sentenza 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio).

Tale ultimo concetto – proseguiva l’amicus curiae – era stato ripreso appieno nella decisione Viola (ormai definitiva e vincolante) che avrebbe escluso la legittimità convenzionale di una presunzione assoluta di pericolosità fondata sulla mancanza di collaborazione con l’autorità, ed avrebbe al tempo stesso stabilito che la disciplina italiana dell’ergastolo ostativo limiterebbe eccessivamente la prospettiva di liberazione degli interessati.

La memoria proseguiva osservando come la giurisprudenza di Strasburgo avesse disapprovato ripetutamente, e più in generale, sia l’introduzione di automatismi vincolanti nella disciplina dei provvedimenti cautelari che comprimono la libertà personale degli individui, sia il ricorso ad automatismi concernenti le modalità esecutive della pena dell’ergastolo e, sul versante italiano, si citava la sentenza della Consulta n. 253 del 2019.

In data 8 settembre 2020 il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in persona del presidente, depositava una opinione volta a sollecitare l’accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte di Cassazione, ma anche l’estensione della declaratoria di illegittimità costituzionale alle norme che precludono in assoluto, nel campo dei reati “ostativi”, l’accesso ai benefici penitenziari del lavoro esterno e della semilibertà.

Il Garante comunicava che, alla data del 1° settembre 2020, sarebbero stati presenti nelle carceri italiane 1.800 condannati all’ergastolo, ben 1.271 dei quali sottoposti al regime ostativo trattandosi di un numero in costante aumento essendo ogni anno i condannati per reati ostativi più numerosi di quelli che accedono alla liberazione condizionale (appena 38 persone nell’ultimo triennio).

Altri dati erano forniti, nell’opinione in esame, a proposito della cospicua giurisprudenza della Corte EDU a proposito della compatibilità fra ergastolo e art. 3 CEDU.

Secondo il Garante, nel periodo compreso fra il 2013 ed il 2019, i giudici di Strasburgo si sarebbero espressi 16 volte sulla compatibilità tra la Convenzione e discipline dell’ergastolo non segnate da adeguate prospettive di recupero degli interessati negando la violazione solo in due delle pronunce richiamate, a dimostrazione della particolare stabilità dell’orientamento ormai maturato.

D’altronde, sempre secondo il Garante, la più recente sentenza Viola andrebbe qualificata almeno come “quasi-pilota” visto che definisce strutturale l’automatismo connesso alla mancanza di collaborazione, e prefigura la futura trattazione di numerosi casi analoghi.

Nell’opinione si ricordava come, al paragrafo 143 della sentenza, la Corte EDU abbia prescritto allo Stato italiano di «mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili»; ciò sul presupposto che, pur ammettendo che «lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso», debba consentirsi di palesare la rottura con l’ambiente criminale «anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente».

La dichiarazione di illegittimità costituzionale sollecitata dalla Corte di Cassazione, dunque, ad avviso di tale Garante, varrebbe a risolvere il problema di adeguamento dell’ordinamento nazionale alle prescrizioni convenzionali nonché anche a prevenire questioni sul piano eurounitario posto che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già posto sotto attenzione i rapporti tra condizioni carcerarie disumane e degradanti e consegne regolate dalla disciplina del cosiddetto mandato di arresto europeo, e potrebbe presto interrogarsi sul rilievo da conferire alla previsione di pene perpetue non suscettibili di evolvere verso un esito di risocializzazione.

In data 8 settembre 2020 era stata depositata l’opinione, quale contributo di amicus curiae, dell’organizzazione di volontariato L’altro diritto ODV – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità anch’essa segnalando il ruolo analogo rivestito, innanzi alla Corte EDU, nel giudizio culminato con la sentenza Viola contro Italia.

Tale ultima sentenza, ricordava la memoria, avrebbe particolare rilievo non solo perché puntualmente rilevante per il caso odierno, ma anche perché il competente collegio della Corte europea, in data 8 ottobre 2019, aveva rigettato la richiesta del Governo italiano di rinvio del ricorso alla grande camera, ciò che indicherebbe come il decisum attenesse a un orientamento ormai consolidato.

Nella memoria, inoltre, era richiamata, quale precedente decisivo per la soluzione dell’odierno quesito di legittimità costituzionale, anche la sentenza n. 253 del 2019, che del resto farebbe seguito a una giurisprudenza costituzionale per larghi versi omologa, tanto da assumere un ruolo determinante anche nella decisione sovranazionale (sono citate le sentenze n. 149 del 2018, n. 239 del 2014, n. 306 del 1993 e n. 204 del 1974).

L’opinione sottolineava particolarmente che l’elemento, cui la legge rimette in modo esclusivo la valutazione della pericolosità dell’ergastolano, cioè la collaborazione con l’autorità giudiziaria, attiene normalmente a condotte tenute prima della condanna mentre trascura l’andamento dell’esecuzione e la risposta del detenuto al percorso trattamentale.

La giurisprudenza, di merito e legittimità, avrebbe invece riconosciuto che l’atteggiamento processuale rappresenta un dato storico, fisiologicamente estraneo alla dinamica evolutiva della rieducazione in fase esecutiva.

Un dato oltretutto condizionato da circostanze casuali e transeunti come, ad esempio, l’esito delle indagini o l’atteggiamento dei coimputati.

La scelta in merito alla collaborazione, nel caso di soluzione negativa, può dipendere dal conflitto tra affetti, dal timore di rappresaglie, dalla consapevolezza di una qualità di vita fortemente condizionata dalle limitazioni insite in un programma di protezione mentre, al tempo stesso, la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che le scelte collaborative non documentano necessariamente una revisione critica del comportamento criminale, e una connessa diminuzione di pericolosità (sono citate le sentenze n. 504 del 1995, n. 361 del 1994 e n. 306 del 1993), ben potendo dipendere da scelte utilitaristiche o da contrasti tra gruppi criminali.

Il difensore della parte privata nel giudizio principale (il condannato ricorrente S.F.P.) aveva contestualmente depositato una memoria di costituzione nel giudizio incidentale di costituzionalità e una istanza di rimessione in termini e tale ultima richiesta era stata accolta dal Presidente della Corte costituzionale sicché la costituzione in giudizio di S.F. P. doveva considerarsi per la Consulta tempestiva.

La parte assumeva in particolare che, nella specie, il ravvedimento del condannato, nonostante fosse sempre mancata una scelta di collaborazione, sarebbe stato pienamente provato, così come sarebbero sussistite le ulteriori condizioni per l’accesso alla liberazione condizionale.

 

La giurisprudenza nazionale (era operato un riferimento alla sentenza della Corte di cassazione, sezione prima, 4-27 febbraio 2009, n. 9001) e quella di Strasburgo (era riprodotta nella memoria, a più riprese, la motivazione delle sentenze Vinter contro Regno Unito e Viola contro Italia, già citate), avrebbero infatti chiarito che il finalismo rieducativo della pena va assicurato anche per gli ergastolani, e che non può essere pregiudicato dalla loro posizione di non collaboranti, quando il loro ravvedimento sia comprovato aliunde, anche per la doverosa tutela del diritto individuale al silenzio.

Secondo la parte, sarebbe significativa, sebbene non pertinente al caso di specie, anche la recente giurisprudenza sul divieto di applicazione retroattiva dei limiti ostativi posti dall’art. 4-bis ordin. penit.: erano citate le sentenze n. 193 e n. 32 del 2020 della Consulta ed era prodotto un provvedimento di merito con il quale la liberazione condizionale era stata accordata a persona condannata all’ergastolo per un fatto antecedente all’introduzione dei limiti ostativi per il beneficio in questione.

Nella memoria, tra l’altro, erano riprese diffusamente anche le motivazioni alla base della sentenza costituzionale n. 253 del 2019, al fine di argomentare contro la presunzione assoluta di pericolosità sociale insita nella normativa censurata.

La parte insisteva inoltre affinché fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme censurate dal giudice rimettente alla luce dei parametri da questi evocati prospettandosi anche l’asserita e concomitante violazione degli artt. «24 e 111 Cost. (e 6 e 7 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Conclusioni in tutto analoghe contrassegnavano d’altronde il nuovo atto di costituzione depositato dalla parte, con una breve memoria difensiva al fine essenziale di produrne una versione con sottoscrizione autenticata dal direttore dell’istituto di attuale reclusione dell’interessato (autenticazione in precedenza non potuta conseguire).

Infine, la stessa parte aveva depositato un’ulteriore memoria con diversi allegati allo scopo di sollecitare nuovamente l’accoglimento delle questioni sollevate e di replicare alle allegazioni dell’Avvocatura generale dello Stato.

Veniva, in particolare, censurato l’assunto per cui la sola collaborazione con la giustizia avrebbe costituito un segnale affidabile di rottura dei legami con la prassi e gli ambienti criminali. L’esperienza avrebbe insegnato, in realtà, che anche noti collaboratori di giustizia sarebbero ritornati a delinquere dopo aver fruito dei benefici di legge.

Di converso, i casi di liberazioni condizionali recentemente disposte con riguardo a condannati per reati antecedenti all’entrata in vigore delle norme censurate varrebbero a dimostrare che anche i responsabili di reati siffatti, per quanto non collaboranti, possono pervenire a esiti di «sicuro ravvedimento».

All’udienza pubblica del 23 marzo 2021, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura generale dello Stato precisava le richieste formulate con l’atto di intervento, prospettando la pronuncia di una sentenza interpretativa di rigetto.

Si prendeva infatti atto da parte dell’Avvocatura che già attualmente la legge rimuove la preclusione di accesso ai benefici penitenziari nel caso di condannati che si siano trovati nell’impossibilità di prestare un’utile collaborazione fermo restando che, nella più recente giurisprudenza di legittimità, sempre secondo l’Avvocatura generale, si scorgerebbero segni di apertura in favore d’un possibile apprezzamento delle ragioni soggettive per le quali il condannato potrebbe essersi determinato a un atteggiamento negativo.

Riconoscendo invero al giudice di sorveglianza spazi di apprezzamento discrezionale delle ragioni indicate – in sede di interpretazione costituzionalmente adeguata della normativa vigente – sarebbe di fatto eliminato ogni automatismo e sarebbero quindi recuperate le ragioni già espresse dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019 e dalla Corte EDU con la più volta citata sentenza Viola contro Italia.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Consulta osservava prima di tutto che, sia nell’evoluzione legislativa, sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a orientare in favore della compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio costituzionale di risocializzazione sono state le previsioni che, in progresso di tempo, hanno consentito al condannato a tale pena di accedere alla liberazione condizionale.

Per prima, la legge 25 novembre 1962, n. 1634 (Modificazioni alle norme del Codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale), aveva stabilito, modificando, con il suo art. 2, l’art. 176, terzo comma, cod. pen., che la liberazione condizionale potesse essere accordata anche al condannato all’ergastolo, nel concorso di ulteriori presupposti, dopo che egli avesse «effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena».

Il riferimento testuale alla esecuzione effettiva della pena aveva peraltro condotto la prevalente giurisprudenza a negare che la soglia indicata potesse de facto ridursi attraverso la concessione, ai condannati alla pena perpetua, di periodi di liberazione anticipata ex art. 54 ordin. penit.

In ogni caso, la sentenza della Consulta n. 264 del 1974 aveva risolto nel senso della non fondatezza la questione della compatibilità tra l’art. 22 cod. pen. e l’art. 27, terzo comma, Cost. anche attraverso un riferimento alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ormai riconosciuta al condannato pur nel caso in cui risultasse privo dei mezzi utili all’adempimento delle obbligazioni nascenti da reato (preoccupazione che, tra le altre, alimentava nella specie i dubbi del giudice a quo).

La sentenza si chiudeva con un riferimento alla di poco precedente pronuncia n. 204 del 1974 che a sua volta aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la norma attributiva al Ministro della giustizia del potere di concedere la liberazione condizionale e, da qui in avanti, la decisione sarebbe spettata all’autorità giudiziaria che «con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerterà se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».

Successivamente, anche il beneficio della liberazione anticipata veniva esteso ai condannati all’ergastolo.

La sentenza della Consulta n. 274 del 1983 aveva infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 54 ordin. penit. nella parte in cui non prevedeva, ai soli fini della maturazione della soglia di pena che consente la richiesta di liberazione condizionale, la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo le detrazioni di pena previste da quella norma.

A seguito di questa pronuncia, l’art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) modificava l’art. 176, terzo comma, cod. pen., riducendo a ventisei anni la soglia minima di pena eseguita a carico del condannato prima del suo potenziale accesso alla liberazione condizionale, ed eliminando il riferimento al carattere “effettivo” dell’esecuzione.

Nel contempo, al fine di superare ogni residua controversia sulla rilevanza dei periodi di liberazione anticipata nel computo della pena da scontare prima della richiesta di liberazione condizionale, il legislatore modificava anche l’ultimo comma dell’art. 54 ordin. penit. specificando che la regola di equivalenza alla esecuzione effettiva si applica anche ai condannati all’ergastolo.

Per effetto di queste scelte, l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di fattore di riequilibrio nella tensione tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fine), da una parte, e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato, dall’altra.

La successiva giurisprudenza della Corte costituzionale ha confermato questo ruolo della liberazione sotto condizione.

Con la sentenza n. 168 del 1994 è stata in effetti dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione legislativa dell’ergastolo per i delitti commessi da minori, per contrasto con l’art. 31 Cost., oltre che con l’art. 27 Cost., nella prospettiva della speciale tutela loro dovuta.

La pronuncia in questione sottolineava che quest’ultimo precetto costituzionale appare soddisfatto dall’estensione ai condannati all’ergastolo non solo dell’istituto della liberazione condizionale, ma anche di altre misure premiali, che anticipano il reinserimento sociale come effetto del sicuro ravvedimento del detenuto: «[t]utti gli anzidetti correttivi finiscono con l’incidere sulla natura stessa della pena dell’ergastolo, che non è più quella concepita alle sue origini dal codice penale del 1930. La previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice la connotava».

Un’ulteriore decisione di accoglimento (sentenza n. 161 del 1997) riassume, per la Consulta, “icasticamente” le acquisizioni fin qui descritte.

Esprimendosi in punto di reiterabilità della richiesta di liberazione condizionale, pur dopo un provvedimento di revoca adottato a norma dell’art. 177, comma primo, seconda parte, cod. pen. (secondo cui, in caso di revoca del beneficio, «il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale»), la decisione, invero, introduce, per il solo condannato all’ergastolo, la possibilità di ottenere nuovamente il beneficio stesso sempreché ne siano nuovamente maturate le condizioni tenuto conto altresì del fatto che la pronuncia osserva che il divieto della riammissione alla liberazione condizionale escluderebbe in modo permanente i condannati all’ergastolo dal processo rieducativo e di reinserimento sociale in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. aggiungendo che, invece, alla stregua dei principi costituzionali, il connotato di perpetuità dell’ergastolo non può autorizzare, sia pure dopo l’esito negativo di un periodo trascorso in liberazione condizionale, una preclusione assoluta all’ottenimento di un nuovo beneficio, naturalmente se sussista il presupposto del sicuro ravvedimento.

La conclusione è netta: «[s]e la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale».

Compiuto tale excursus giurisprudenziale e normativo, il giudice delle leggi osservava, a questo punto della disamina, come una giurisprudenza ispirata ai medesimi principi si sia andata formando presso la Corte EDU.

A partire dalla sentenza della grande camera 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro fino alla stessa, recente, sentenza Viola contro Italia del 2019, la Corte di Strasburgo ha difatti affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa, che fa divieto di sottoporre chiunque «a tortura» od a «pene o trattamenti inumani o degradanti», è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.

In disparte alcune tendenze all’abbassamento delle garanzie di concretezza e prevedibilità degli strumenti per la liberazione del condannato “rieducato” (giunte fino a giudicare sufficiente, nella sentenza della grande camera 17 gennaio 2017, Hutchinson v. Regno Unito, la previsione di strumenti politico-amministrativi fondati «on compassionate grounds»), la Corte EDU ha in particolare chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società, e ciò perché è appunto l’idea della necessaria “riducibilità”, de iure e de facto, della pena dell’ergastolo che può articolarsi in ulteriori corollari a partire da quello che considera ben possibile imporre soglie minime di esecuzione effettiva della pena prima di poter accedere alla scarcerazione (si vedano tra le altre, oltre alla già citata sentenza 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, le decisioni: 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria).

Pur tuttavia, secondo i giudici di legittimità costituzionale, la ben nota disciplina “ostativa” contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., approvata all’indomani delle stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso, mette in tensione i principi sin qui descritti posto che, anche per i condannati all’ergastolo a seguito di reati connessi alla criminalità organizzata, tale disciplina, da una parte eleva la utile collaborazione a presupposto indefettibile per l’accesso (anche) alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico del detenuto non collaborante, una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta, in tesi, alla mancata rescissione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata.

Si tratta quindi di una presunzione assoluta perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa che lo esclude in radice dall’accesso ai benefici penitenziari e, appunto, fra questi, alla liberazione condizionale.

Non sorprende, dunque, per la Consulta, che – nell’ambito dell’ampia giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla disciplina ostativa, per oltre venticinque anni (dalla sentenza n. 306 del 1993 fino alla più recente n. 253 del 2019) – la Corte costituzionale sia stata chiamata a occuparsi della peculiare condizione dei condannati alla pena perpetua per reati connessi alla criminalità organizzata, verificando, in particolare, se tale disciplina collida con la ricordata necessità costituzionale di “riducibilità” dell’ergastolo.

Orbene, nel giudizio sulla censura di violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., sollevata sul citato art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., appunto nella parte in cui impedisce del tutto, in assenza di un’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., l’accesso alla liberazione condizionale, si evidenziava come la risposta della sentenza n. 135 del 2003 fosse stata negativa: l’inaccessibilità (anche) alla liberazione condizionale, per il detenuto che non collabora, non è frutto di un automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità prevista dalla disposizione censurata.

L’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale (e agli altri benefici penitenziari) è insomma per la Consulta una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo».

Ciò posto, veniva altresì rilevato che, già a partire dalla sentenza n. 306 del 1993, la stessa giurisprudenza costituzionale maturata sulla disciplina “ostativa” contiene, tuttavia, le premesse per una risposta diversa.

In primo luogo, è stato più volte affermato (sentenze n. 253 del 2019 e n. 306 del 1993) che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali rilevandosi al contempo come questi siano argomenti particolarmente presenti alla Corte EDU, soprattutto nella sentenza Viola contro Italia. Nelle parti di tale ultima pronuncia espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, veniva infatti sottoposta a critica una disciplina che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli.

Afferma a tal proposito la Corte di Strasburgo che considerare la collaborazione con le autorità quale unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato conduce a trascurare gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto dal momento che «non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia».

 

Da questo punto di vista, aggiungeva la sentenza n. 253 del 2019 della Consulta, la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante mostra la propria irragionevolezza perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire.

In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale mostra come possa essere dubbia la “libertà” della scelta, sui cui insisteva la sentenza n. 135 del 2003.

In realtà, la disciplina ostativa prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.

Per il condannato all’ergastolo a seguito di un reato ostativo, lo “scambio” in questione può invero assumere una portata drammatica allorché lo si obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine.

In casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli.

Qui, anche per i condannati all’ergastolo che aspirano alla libertà condizionale, può essere ripetuto per la Corte quanto osservato nella sentenza n. 253 del 2019: quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati pur precisandosi subito dopo che ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione quanto piuttosto negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale.

Essenzialmente per questi motivi valevano per il giudice delle leggi per le questioni all’odierno esame alcune rationes decidendi già poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019.

In particolare, si affermava nella pronuncia qui in commento che la presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente atteso che non è affatto irragionevole presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà posto che, anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria valutabile dal Tribunale di Sorveglianza.

Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, per i giudici di legittimità costituzionale, infatti, alla Magistratura di Sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.

L’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio alle determinate e rigorose condizioni già previste dalla stessa sentenza n. 253 del 2019, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che, appunto, devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della Magistratura di Sorveglianza particolarmente nel caso in cui il detenuto abbia affrontato un lungo percorso carcerario, come accade per i condannati a pena perpetua.

Ebbene, a fronte di quanto sin qui enunciato, si notava inoltre come, nelle questioni di legittimità costituzionale decise con la sentenza n. 253 del 2019, si fosse trattato di valutare l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non consentiva, al detenuto non collaborante, l’accesso al permesso premio, cioè a un beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione mentre, nel presente giudizio, si tratta(va) invece di sottoporre a scrutinio la medesima norma, unitamente alle altre censurate, nella parte in cui non consentono che un soggetto condannato all’ergastolo, il quale non collabori utilmente con la giustizia, possa chiedere, dopo un lungo tempo di carcerazione, una valutazione in concreto circa il suo sicuro ravvedimento, premessa per l’accesso alla libertà condizionale e, quindi, per la estinzione della pena (in esito, peraltro, a un ulteriore periodo di vigilanza dell’autorità).

Da un lato, rispetto al caso precedente, per la Consulta, la posta in gioco è ancora più radicale giacché, in termini ordinamentali, erano in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione; mentre, dal punto di vista del condannato, era in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena.

Dall’altro lato però, proprio per il profilo da ultimo sottolineato, era qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo del periodo di libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso-premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli.

Come rilevato dalla Corte costituzionale in precedenza, inoltre, anche nel caso all’odierno esame, la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato fermo restando però che tale presunzione permane giacché non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza.

Le ragioni di una tale generalizzazione erano tra l’altro ben note per la Consulta: “l’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (sentenza n. 253 del 2019; in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017)”

Queste ragioni, ribadite in questa pronuncia, erano reputate di notevolissima importanza non potendosi considerare affievolite in progresso di tempo essendo ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia.

Peraltro, veniva per giunta ribadito che, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone, appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017) e, in costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimentoex art. 176 cod. pen..

Chiarito ciò, a questo punto della disamina, si notava come, nella sentenza n. 253 del 2019, la Consulta avesse stabilito che, in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), caratterizzati dalle specifiche connotazioni criminologiche appena descritte, ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.

 

In quel caso, a integrazione della vigente disciplina di ordinamento penitenziario, la pronuncia di accoglimento aveva richiamato profili costituzionalmente necessari di natura probatoria.

Orbene, per il giudice delle leggi, anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione e, a fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.

Ciò posto, veniva inoltre considerato che, in questo giudizio, erano stati sospettati di illegittimità costituzionale aspetti centrali e, per così dire, “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali: sia quanto alle fattispecie di reato (delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste), sia con riferimento all’entità della pena inflitta (l’ergastolo), sia in relazione al beneficio avuto di mira, la liberazione condizionale, che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena.

Ebbene per il giudice delle leggi, in tali condizioni, un intervento meramente “demolitorio” da parte sua avrebbe potuto mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa.

Da questo punto di vista, potrebbe, ad esempio, risultare incongrua per la Consulta, se compiuta con i limitati strumenti a disposizione del giudice costituzionale, l’equiparazione, per le condizioni di accesso alla libertà condizionale, tra il condannato all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata, che non abbia collaborato con la giustizia, e gli ergastolani per delitti di contesto mafioso collaboranti.

Dunque, se è vero che la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica, è altrettanto vero che appartiene alla discrezionalità legislativa, e non già alla Corte costituzionale, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione trattandosi quindi di tipiche scelte di politica criminale destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti e che eccedono perciò i poteri della Consulta atteso che esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale.

In loro assenza, alla luce della peculiarità del fenomeno criminale in esame, l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, per la Consulta, avrebbe potuto determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema rilevandosi al contempo che, non a caso, la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha sostenuto che la disciplina in questione pone «un problema strutturale», tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi, «di preferenza per iniziativa legislativa» così come non a caso lo stesso legislatore, già dopo la più volte menzionata sentenza n. 253 del 2019, si era attivato in direzione di una disciplina di “assestamento” del sistema.

 

Un resoconto delle conclusioni acquisite e delle intenzioni di riforma maturate era tra l’altro stato offerto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (istituita con l’omonima legge 7 agosto 2018, n. 99) che ha rassegnato, in data 20 maggio 2020, una «Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale».

In argomento, inoltre, risultavano presentate proposte di legge (XVIII legislatura, A.C. n. 1951), e anche il Governo, nel riferire per mezzo della Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa circa lo stato di esecuzione della sentenza Viola contro Italia, aveva evocato una situazione “dinamica” di sviluppo della disciplina in questione.

Questi dati mostravano quindi per la Corte, con eloquenza, la necessità che l’intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario – che l’ordinanza di rimessione sollecita la Consulta a compiere – fosse, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa.

Chiarito ciò, sempre considerando che le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame coinvolgevano aspetti “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali (quanto alle fattispecie di reato, all’entità della pena e al beneficio avuto di mira), la necessità appena ricordata si stimava apprezzabile anche da un ulteriore angolo visuale.

Se, difatti, il giudice rimettente, per parte sua, chiedeva che l’illegittimità costituzionale delle norme censurate fosse dichiarata con stretta aderenza al caso di specie, e quindi con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso (oltre che, naturalmente, per i soli ergastolani e con riguardo al solo beneficio della liberazione condizionale), si evidenziava tuttavia come sia noto che il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. comprende ormai anche reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale (per alcune di queste fattispecie non è impossibile una condanna all’ergastolo, specie avuto riguardo ai «delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza») così come è altresì noto che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. impedisce al condannato non collaborante l’accesso a tutti i benefici penitenziari (salvo la liberazione anticipata e, dopo la sentenza n. 253 del 2019, il permesso premio).

Da ciò se ne faceva conseguire come possa scaturire un’incerta coerenza della disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata.

Per ultimo, ma non da ultimo, la normativa risultante da una pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita, per il giudice delle leggi, a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza nel senso che, in esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio (in virtù, come appena ricordato, della sentenza n. 253 del 2019) mentre, all’esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà.

Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, per la Consulta, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame.

Per tutti questi motivi, ravvisandosi esigenze di collaborazione istituzionale, inducevano la Consulta a disporre, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia rimanendo nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo ritenendosi come dovesse spettare in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata mentre compito della Corte costituzionale sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018).

Conclusioni

La “non decisione” della Consulta in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Cassazione è il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico.

La Corte costituzionale, difatti, non si limita sic et simpliciter a demandare al potere legislativo di intervenire sulla materia, ma indica essa stessa utili criteri a cui il Parlamento potrà fare riferimento per adottare una legislazione conforme alla nostra Legge fondamentale in subiecta materia.

In particolare, nell’ordinanza qui in commento, sono gli stessi giudici di legittimità costituzionale, dopo avere fatto presente che la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato fermo restando però che tale presunzione permane giacché non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza e che la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione e, a fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino, ad indicare delle possibili vie da potersi intraprendere ex lege quali l’emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione (esempi: la collaborazione: può richiedere la denuncia a carico di terzi; comportare pericoli per i propri cari, rischiare altresì di determinare autoincriminazioni anche per fatti non ancora giudicati) ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione e, ad ogni modo, ribadendosi la necessità  che siano al contempo acquisiti altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.

Ciò posto, un altro “suggerimento” che la Consulta dà all’organo legislativo in questo provvedimento è quello di considerare la possibilità di modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata rispetto ai quali non si pone un problema di collaborazione, o meglio, mancata collaborazione nei termini prospettati nell’ordinanza emessa dalla Cassazione quale giudice remittente.

Non resta dunque che aspettare come e in che modo il legislatore interverrà recependo le indicazioni fornite dalla Consulta in tale ordinanza.

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Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione).   Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.

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