In che modo le versioni alternative fornite dall’imputato possono minare il giudizio di colpevolezza

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Il fatto

La Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma di una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, emessa all’esito di rito abbreviato, aveva rideterminato la pena inflitta all’imputato in mesi due e giorni 20 di reclusione ed Euro 67 di multa confermando la condanna per il concorso nel reato di tentato furto aggravato nei suoi confronti avente ad oggetto il contenuto di bagagli dei passeggeri di un aereo in partenza dall’aeroporto di Lamezia Terme.

In particolare, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, il reato non era stato consumato poiché il tempo di azione dei malviventi era stato troppo ridotto e poiché essi non avevano trovato oggetti di valore od interesse economico; invece, nella prospettazione difensiva, disattesa dai giudici, si evidenziava una condotta di desistenza attiva dell’imputato che avrebbe reso non configurabile il delitto.
Si era inoltre giunti all’individuazione dei due complici ed alla contestazione del reato grazie ad un’attività investigativa portata avanti con indagini tecniche di videointercettazione alla luce dei molti furti verificatisi nelle medesime circostanze su bagagli presenti nella stiva di aerei di linea.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso la pronuncia summenzionata proponeva ricorso l’imputato mediante il suo difensore deducendo in un unico motivo: violazione di legge in relazione all’art. 56 c.p.; mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al motivo concernente l’idoneità ed univocità degli atti; mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione ad altre assoluzioni nell’ambito dello stesso procedimento.

Si argomentava a tal proposito circa l’inidoneità della condotta realizzata dall’imputato – aprire circa 10 bagagli, dopo essersi collocato in fondo alla stiva – ad integrare gli elementi costitutivi del tentativo punibile e si rappresentava l’elemento di contraddizione rappresentato dal fatto che un altro imputato, giudicato separatamente, era stato assolto con la formula perché il fatto non sussiste; analogamente, era stato assolto perché il fatto non costituisce reato anche un altro imputato. Entrambe le sentenze, a loro volta, erano divenute definitive ed erano state allegate dal ricorrente ai fini dell’autosufficienza del ricorso.

In ogni caso, secondo il ricorrente, al più avrebbe potuto ipotizzarsi una condotta di desistenza volontaria realizzata dal ricorrente posto che, pur ammettendo che l’apertura dei bagagli dei viaggiatori sia comportamento non spiegabile, la difesa riteneva come esso non potesse integrare comunque gli atti preparatori qualificabili come tentativo di furto.

Nel provvedimento impugnato, infine, sempre secondo il difensore, sarebbe mancato qualsiasi passaggio motivazionale relativo al problema della configurabilità del tentativo, della desistenza volontaria o meno nel caso di specie mentre risultava essere illogico il riferimento al fatto che la mancanza di oggetti di interesse da asportare costituisse un fattore esterno all’autore della condotta dipendendo invece tale interesse dalla personale valutazione dell’agente e, pertanto, potendo definirsi la scelta tra l’impossessarsi o non di un oggetto un fattore endogeno che ben può porsi alla base di una desistenza volontaria dal proseguire nella realizzazione dell’intento criminoso.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il ricorso veniva reputato inammissibile per manifesta infondatezza.

Si osservava innanzitutto a tal proposito come la motivazione del provvedimento impugnato fosse nient’affatto illogica e si attenesse ai canoni interpretativi dominanti dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di tentativo delittuoso dal momento che, ad avviso del Supremo Consesso, la Corte d’Appello ed il giudice di primo grado, in una doppia pronuncia conforme, avevano evidenziato, ai fini della configurabilità del delitto tentato, la palese direzione a commettere un reato di furto delle azioni poste in essere dai due soggetti – il ricorrente ed il suo complice – ritratti in video ripresa.

A fronte di tale giudizio, sempre per la Suprema Corte, ostava alla tesi difensiva dell’imputato, peraltro limitata soltanto a dissentire sull’univoca direzione degli atti compiuti a realizzare un tentativo di reato, l’assoluta inspiegabilità altrimenti dei gesti commessi altrimenti del tutto maniacali o vandalici posto che l’omessa prospettazione da parte dell’imputato di una ricostruzione alternativa plausibile dai fatti in addebito, pur non potendo essere valutata come prova a carico, può costituire un argomento di supporto logico della assenza di ipotesi suscettibili di minare il giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio già espresso sulla base delle prove acquisite (Sez. 6, n. 50542 del 12/11/2019); in altri termini, le versioni alternative fornite dall’imputato rispetto ad una logica prospettazione della ricostruzione del quadro probatorio contenuta nella motivazione del provvedimento impugnato devono avere una loro validità argomentativa e non appartenere al dominio della vaghezza e della mera prospettazione avversativa, priva di elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, non potendo essere detti elementi neppure meramente ipotetici o congetturali quando eventualmente plausibili (Sez. 2, n. 3817 del 9/10/2019; vedi anche Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014).

Ciò posto, anche l’obiezione sulla desistenza veniva stimata infondata in modo evidente.

La Corte d’Appello, per gli Ermellini, aveva adeguatamente risposto al tema della desistenza delittuosa, prospettata dalla difesa, ancorando la sua opzione negativa al fatto che la scelta di non prelevare alcunché dai bagagli violati fosse dipesa dall’oggettiva coincidenza di non aver trovato in essi nulla di valore e dipendesse, dunque, da un fattore di accidentalità esterno, avulso dalla volontà dell’autore della condotta tentata; tale scelta, pertanto, era inidonea a configurare un’ipotesi di desistenza volontaria la quale, a sua volta, come noto, si configura se la decisione di interrompere l’azione da parte dell’autore della condotta non risulti necessitata benché la volontarietà della desistenza non debba essere intesa come spontaneità dato che la giurisprudenza della Cassazione ha più volte affermato che, in tema di desistenza, la mancata consumazione del delitto deve dipendere dalla volontarietà dell’agente, che non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da circostanze esterne che rendono irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’azione criminosa (cfr. Sez. 4, n. 12240 del 13/2/2018 nonché Sez. 2, n. 18385 del 5/4/2013).

Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto alla fattispecie in esame, i giudici di piazza Cavour evidenziava come, nel caso di specie, il ricorrente avesse rapidamente “perquisito” la stiva dell’aereo alla ricerca di beni di valore contenuti nei bagagli dei passeggeri e, non avendoli trovati in un tempo ragionevole all’interno di quelli aperti, avesse dovuto necessariamente abbandonare il campo, per il timore di essere scoperto insieme al suo complice, essendovi verosimilmente tempi contingentati da rispettare per le operazioni di carico/scarico dei bagagli stessi.

Dunque, era questa la dinamica ricostruttiva che emergeva dai provvedimenti dei giudici di merito e che appariva per la Cassazione saldamente ancorata ad una logica probatoria del tutto scevra da aporie argomentative.

Inoltre, veniva altresì rammentato che l’orientamento giurisprudenziale nettamente maggioritario esclude l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 56 c.p., comma 3, nelle ipotesi di tentativo compiuto: una volta posti in essere gli atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato eventualmente diminuita da un terzo alla metà ove si sia adoperato per impedire l’evento di reato, ai sensi dell’art. 56 c.p., comma 4.
In particolare, nelle ipotesi di reati di danno a forma libera – quale è il furto – la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto ossia fino a quando non siano stati posti in essere gli atti da cui origina il processo causale idoneo a produrre l’evento (così Sez. 5, n. 50079 del 15/5/2017) mentre, viceversa, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il c.d. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento (Sez. 5, n. 17241 del 20/1/2020; Sez. 2, n. 16054 del 20/3/2018; Sez. 5, n. 18322 del 30/1/2017; Sez. 2, n. 24551 del 08/05/2015; Sez. 1, n. 11746 del 28/02/2012; in passato, Sez. 1, n. 6141 del 10/12/1979).

In un’ipotesi sovrapponibile a quella di specie, Sez. 2, Sentenza n. 51514 del 05/12/2013, ha ritenuto configurabile il tentativo e non la desistenza volontaria nel caso in cui la condotta delittuosa si sia arrestata prima del verificarsi dell’evento non per volontaria iniziativa dell’agente ma per fattori esterni (nella specie, il mancato rinvenimento di denaro nel luogo obiettivo della rapina) che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana (cfr. in senso conforme Sez. 5, n. 36919 del 11/07/2008).

In altre parole, per desistere, all’agente basta non continuare nel proprio comportamento e ciò è possibile fin quando il comportamento tenuto o non integra ancora la condotta tipica o, comunque, non esaurisce quanto egli può compiere per perfezionare il reato con altri atti tipici contestuali mentre per recedere l’agente deve attivarsi per interrompere il processo causale già posto in moto dalla condotta e che, altrimenti, sfocerebbe verosimilmente nell’evento.

In relazione a tale orientamento nomofilattico, la Cassazione non ignorava come in passato un’altra tesi avesse avuto spazio nella giurisprudenza di legittimità ordinaria sostenendosi la compatibilità della desistenza col tentativo compiuto in quanto detta esimente è configurata dal legislatore come causa di esclusione ab extrinseco ed ex post dell’antigiuridicità del fatto sicché la sua applicazione presuppone che l’azione sia penalmente rilevante perché pervenuta nella fase del tentativo punibile (Sez. 6, n. 203 del 20/12/2011; Sez. 2, n. 42688 del 24/09/2008; Sez. 6, n. 24711 del 21/04/2006; Sez. 2, n. 2226 del 24/10/1983; Sez. 2, n. 5669 del 02/02/1972) ma tuttavia si denotava al contempo come l’orientamento in esame sia stato correttamente indicato (vedi Sez. 2, n. 16054 del 2018, cit.) come un’opzione dal fondamento quasi meramente assertivo derivato dalla collocazione sistematica nella disposizione sul tentativo che presupporrebbe il “fatto punibile” senza porla in relazione con l’attenuante, successiva sia dal punto di vista logico sia da quello sistematico, del pentimento operoso.

Ebbene, nel caso di specie, ci si trovava dinanzi ad un caso in cui il tentativo può dirsi sicuramente compiuto ed in cui – così come nella pronuncia Sez. 2, n. 51514 del 05/12/2013 – il ricorrente ed il suo complice non erano stati in grado di rinvenire oggetti di valore nei bagagli violati e solo per tale ragione, evidentemente, si erano fermati dal continuare nella realizzazione dell’intento criminoso già perfezionato quanto meno a livello di tentativo di furto.

In relazione a tale approdo ermeneutico, la Suprema Corte osservava la spiegazione difensiva, secondo cui la scelta tra se continuare a rovistare tra i bagagli ovvero desistere rappresentava un’opzione interiore dell’autore della condotta e non un fattore esterno ad essa, di talché sarebbe stato possibile configurare una desistenza dal delitto, si proiettava, invero, verso la prosecuzione dell’azione (l’apertura di ulteriori bagagli) e non teneva conto, invece, di quanto già realizzato: la violazione ripetuta dei bagagli altrui, tramite l’apertura ed il rovistare in essi, già avvenuta e risultata non fruttuosa semplicemente per la mancanza di rinvenimento di refurtiva “utile” e di valore che in sé realizza un’ipotesi di tentativo compiuto incompatibile con la desistenza volontaria nei reati a forma libera.

Detto questo, venivano infine considerate irrilevanti le assoluzioni di altri due soggetti coinvolti sicché ben può essere plausibile e giustificata la differente decisione dei giudici di merito, per le diverse circostanze di realizzazione della condotta dei due soggetti assolti e i loro stessi comportamenti, rispetto a quanto realizzato dal ricorrente.

 

Conclusioni

 

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si spiega in che modo le versioni alternative fornite dall’imputato possono minare il giudizio di colpevolezza.

Difatti, citandosi precedenti conformi, viene affermato che le versioni alternative fornite dall’imputato rispetto ad una logica prospettazione della ricostruzione del quadro probatorio contenuta nella motivazione del provvedimento impugnato, per potere per l’appunto minare il giudizio di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio già espresso sulla base delle prove acquisite, devono avere una loro validità argomentativa e non appartenere al dominio della vaghezza e della mera prospettazione avversativa, priva di elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, non potendo essere detti elementi neppure meramente ipotetici o congetturali quando eventualmente plausibili.

E’ pertanto richiesto, argomentando a contrario, che le versioni alternative fornite dalla difesa per scaglionare il proprio assistito debbano fondarsi su elementi concreti e reali non potendo costoro essere meramente ipotetici o congetturali.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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