In caso di minaccia realizzata evocando il mero possesso di un’arma -non oggetto di porto nè di esibizione alla persona offesa della minaccia-, non può affermarsi che l’arma in questione sia servita per commettere il reato

Redazione 16/02/21
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(Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 612, c. 2)

Il fatto

Il Gip del Tribunale di Prato, quale giudice della esecuzione, respingeva l’opposizione introdotta dal condannato in tema di confisca di armi e cartucce.

In particolare, fermo restando che in sede di cognizione era stata applicata la pena nei confronti del condannato per il reato di maltrattamenti ai sensi dell’art. 572 c.p., e lesioni, in ambito familiare e tenuto conto che la ragione per cui veniva mantenuta in essere, pure a fronte delle osservazioni dell’opponente, la statuizione di confisca stava, per il giudice di merito, nella ritenuta applicabilità delle previsioni di legge di cui all’art. 240 c.p., e L. n. 152 del 1975, art. 6.

In particolare, si affermava che seppure l’arma (di cui l’imputato era legittimamente in possesso) non venne mai utilizzata materialmente per commettere i reati, costui, nella condotta minacciosa tenuta, ne avrebbe evocato il possesso come potenziale strumento di ulteriore offesa (..prima o poi ti ammazzo.. anche se mi portate via le armi..).

Secondo il giudice della esecuzione si versava, pertanto, in condizione di confisca obbligatoria, nè la prospettata cessione delle armi ad un terzo era considerato un aspetto da potersi ritenere neutralizzante.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per cassazione – a mezzo del difensore – il condannato deducendo erronea applicazione di legge e vizio di motivazione.

Si affermava a tal proposito che la confisca obbligatoria è prevista (L. n. 152 del 1975, art. 6) in riferimento ai “reati concernenti le armi” ma per tali illeciti penali vanno intesi quelli nei quali la condotta delittuosa deriva dalla fabbricazione, uso, porto, detenzione, alienazione o comunque quelli riconducibili al possesso dell’arma medesima.

Nel caso in esame la minaccia, correlata alla imputazione di maltrattamenti, era stata commessa, secondo il giudice della esecuzione, con l’arma (peraltro solo evocata) ma, per il ricorrente, non poteva dirsi per ciò solo applicabile la speciale previsione del citato art. 6 non trattandosi di un reato “concernente” le armi e dunque non vi sarebbe stata per la difesa quella stretta correlazione posta dalla legge a base della confisca e ciò anche in riferimento alle ulteriori ipotesi di cui all’art. 240 c.p. trattandosi di armi legalmente detenute e non qualificabili come strumento utilizzato per commettere il reato.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato fondato per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto come fosse pacifico che l’arma di cui si discuteva non era mai stata impugnata dal condannato nel corso delle liti verbali o degli insulti oggetto di ricostruzione processuale in riferimento all’accusa di maltrattamenti, nè le lesioni di cui alla imputazione risultavano essere state procurate a mezzo dell’arma.

A fronte di ciò, il giudice della esecuzione riteneva applicabile la speciale previsione di legge di cui alla L. n. 152 del 1975, art. 6, che  a sua volta contiene un espresso rinvio al contenuto del primo capoverso dell’art. 240 c.p., (..il disposto del primo capoverso del art. 240 c.p., si applica..) e rende obbligatoria la disposizione di confisca, in relazione a tutti i reati concernenti le armi, per ogni altro oggetto atto ad offendere nonché per le munizioni e per gli esplosivi.

Il reato “concernente le armi”, in tale ottica, rilevava il Supremo Consesso, sarebbe stato quello di minaccia – segmento fattuale della condotta di maltrattamenti – perché il condannato, in sostanza, avrebbe verbalmente “evocato” l’arma, da lui posseduta legalmente, come strumento di potenziale utilizzo a fini lesivi in un contesto di animosità verbale (fermo restando che costui avrebbe, secondo il tenore delle frasi riportate nella ordinanza impugnata, minacciato di uccidere anche in caso di avvenuto sequestro delle armi).

Orbene, in relazione a questa fattispecie, gli Ermellini evidenziavano come il rapporto instaurato dal legislatore tra la disposizione speciale dell’art. 6, e la previsione generale di confisca pertinenziale di cui all’art. 240 c.p., ponga il tema della individuazione del significato della espressione “reati concernenti le armi” (contenuta nella disposizione speciale) ed orienti alla sua risoluzione nei modi che seguono.

I reati concernenti le armi sono, in primis, quelli previsti dalla legislazione speciale in materia che tendono ad incriminare le plurime condotte aventi ad oggetto l’arma in quanto tale (porto abusivo, cessione, alterazione ed altro).

Ebbene, lì dove venga in rilievo l’arma come oggetto correlato ad una diversa fattispecie incriminatrice, la relazione funzionale deve essere qualificata esclusivamente nei modi descritti dalla previsione di legge di cui all’art. 240 c.p., comma 1, (in particolare le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato) trattandosi della condizione che legittima tanto l’applicazione della previsione generale (art. 240) che di quella speciale (art. 6) la cui finalità è quella di rendere obbligatoria – in simili casi – una confisca che sarebbe, altrimenti, solo facoltativa. Ora, per i giudici di piazza Cavour, è evidente che la costruzione sintattica operata nel corpo dell’art. 240 c.p. impone di ritenere presente una forma di utilizzo “materiale” dell’arma anche come semplice strumento di minaccia (realizzata brandendo l’arma) e non già una mera evocazione potenziale dell’utilizzo della medesima.

Non pareva quindi al Collegio di potersi affermare che, nel caso di mera evocazione del suo possesso, l’arma fosse stata servita per commettere il reato,atteso che la espressione verbale resta una manifestazione di intenti e l’arma non realizza – in quanto non esibita – la pretesa potenzialità di accresciuta intimidazione.

Non essendovi la possibilità di applicare la previsione di legge di cui all’art. 240 c.p., per il Supremo Consesso, veniva meno nella fattispecie in esame – in ogni caso – la possibilità di ritenere applicabile la previsione speciale di cui alla L. n. 152 del 1975, art. 6, fermo restando, ad ogni modo, la possibile adozione di forme diverse (rispetto alla confisca penale) di inibizione al possesso dell’arma stante la manifestazione di pericolosità soggettiva del detentore.

La Cassazione, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, previo annullamento della decisione impugnata, stabiliva il seguente principio di diritto cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto uniformarsi: in caso di minaccia realizzata evocando il mero possesso di un’arma -non oggetto di porto nè di esibizione alla persona offesa della minaccia-, non può affermarsi che l’arma in questione sia servita per commettere il reato ed è pertanto esclusa la confisca della medesima non versandosi nè nella ipotesi dell’art. 240 c.p., nè in quella, ad essa correlata, della L. n. 152 del 1975, art. 6.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi affermato il principio di diritto appena richiamato, ossia che, in caso di minaccia realizzata evocando il mero possesso di un’arma -non oggetto di porto né di esibizione alla persona offesa della minaccia-, non può affermarsi che l’arma in questione sia servita per commettere il reato ed è pertanto esclusa la confisca della medesima non versandosi nè nella ipotesi dell’art. 240 c.p., nè in quella, ad essa correlata, della L. n. 152 del 1975, art. 6.

Tale provvedimento, quindi, può essere preso nella dovuta considerazione al fine di escludere l’applicazione di una di queste misure ablative ove si verifichi una situazione di questo genere.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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