Improcedibilità per incapacità: interviene la Consulta

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La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 70,71,72 e 72-bis c.p.p. nella parte in cui non si riferiscono allo stato psicofisico.
(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen., artt. 70,71,72,72 bis)

u003cstrongu003eCorte costituzionale – sentenza n.65 del 23-02-2023 u003c/strongu003e

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Indice

1. Il fatto


Il Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, in composizione monocratica, era chiamato a giudicare una persona affetta da grave malattia fisica (SLA), che ne aveva progressivamente determinato la paralisi, privandola dell’uso del linguaggio e della stessa autonomia respiratoria ma, fin dal maggio del 2016, il processo era stato rinviato per legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen., in attesa della cessazione della patologia, ma che le evidenze sanitarie ne avevano ormai attestato l’irreversibilità.

2. La questione


A fronte della condizione in cui versava l’imputato, il Tribunale salentino sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis del codice di procedura penale, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, «nella parte in cui non prevede che il [g]iudice dichiari non doversi procedere nei confronti dell’imputato, anche nei casi in cui la sua irreversibile incapacità di partecipare coscientemente al processo discenda da patologie fisiche e non mentali».
Ad avviso del giudice a quo, invero, lo stato di salute, in cui versava la persona accusata, era riconducibile ad una situazione analoga a quella che giustifica la definizione per improcedibilità di cui all’art. 72-bis cod. proc. pen., norma tuttavia espressamente dettata per l’incapacità processuale dell’imputato derivante da patologia mentale, quindi insuscettibile di applicazione all’incapacità irreversibile causata da patologia fisica, e ciò si sarebbe risolto in una violazione dell’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie connotate dalla medesima esigenza, far cessare cioè un processo che, destinato a non essere mai celebrato, assorbe inutilmente risorse pubbliche e altrettanto inutilmente infligge all’imputato una «sofferenza psicologica aggiuntiva a quella derivante da una situazione di salute già compromessa».
In ordine alla questione subordinata, il giudice a quo osservava altresì che, poiché il legittimo impedimento dell’imputato a comparire all’udienza costituisce motivo di sospensione del corso della prescrizione a norma dell’art. 159, primo comma, numero 3), cod. pen., nella specie, attesa l’irreversibilità dell’impedimento, la prescrizione non sarebbe mai maturata, «ed il processo è quindi destinato a durare sino a che, con la morte dell’imputato, non si estinguerà il reato».
Orbene, a parere del rimettente, quanto appena esposto avrebbe comportato un’irrazionale disparità di trattamento rispetto al caso della sospensione del processo per assenza dell’imputato di cui all’art. 420-quater cod. proc. pen., ipotesi nella quale, per effetto del richiamo contenuto nell’art. 159, ultimo comma, cod. pen., la sospensione della prescrizione non può superare il limite fissato dall’art. 161, secondo comma, cod. pen..
Circa la rilevanza delle questioni, il rimettente infine assumeva che, ove fosse stata accolta la principale, il giudizio a quo avrebbe dovuto essere definito per improcedibilità ai sensi dell’art. 72-bis cod. proc. pen. mentre, ove viceversa fosse stata accolta la subordinata, i reati contravvenzionali oggetto dell’imputazione sarebbero risultati prescritti, anche tenendo conto del termine massimo di prescrizione aumentato del periodo di sospensione, nel limite stabilito dal combinato disposto degli artt. 159, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., fermo restando che l’ordinanza di rimessione prospettava tuttavia l’eventualità di un’«armonizzazione per disposizione di legge», con riferimento all’art. l, comma 7, lettera e), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari).


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3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale


Il giudice delle leggi riteneva come la questione prospettata nel caso di specie fosse fondata.
In particolare, si notava prima di tutto come, già all’indomani dell’entrata in vigore del codice di procedura penale, la medesima Consulta avesse rimarcato l’intangibilità del diritto dell’imputato all’autodifesa, nella prospettiva dell’art. 24 Cost., dichiarando pertanto l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, comma 1, del codice di rito, limitatamente alle parole «sopravvenuta al fatto», le quali, riferite all’infermità mentale quale causa di sospensione del processo, esponevano l’imputato al rischio di subire una condanna in condizioni di minorata difesa, «nei casi in cui l’infermità di mente, non coincidente con la totale incapacità di intendere o di volere, risalga al tempus commissi delicti e perduri nel corso del procedimento» (sentenza n. 340 del 1992).
Si era invero constatata «l’accentuazione del profilo della tutela della difesa personale perseguita dal codice di procedura penale del 1988», emergente dal fatto che l’art. 71 del nuovo codice richiede quale presupposto per la sospensione del processo «uno stato mentale che non consente all’imputato di partecipare coscientemente al processo stesso, e non, come era invece nelle previsioni del codice abrogato, lo stato di infermità di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere» (sentenza n. 281 del 1995).
Oltre a ciò, sempre la Corte costituzionale aveva per di più sottolineato l’essenzialità dell’autodifesa, autonoma e ulteriore rispetto alla difesa tecnica, «soprattutto nell’ambito di quegli atti che richiedono la diretta partecipazione dell’imputato (si pensi all’interrogatorio e all’esame ed alle conseguenti facoltà esercitabili al riguardo)» (ancora sentenza n. 281 del 1995).
In tale direzione, la sentenza n. 341 del 1999, nell’estendere all’assistenza gratuita di un interprete la tutela approntata dall’art. 119 cod. proc. pen. circa la partecipazione processuale del sordo e del muto, aveva inteso garantirne l’effettività, segnatamente «nelle fasi che l’ordinamento affida al principio dell’oralità», occorrendo infatti assicurare «il diritto dell’accusato di essere messo personalmente, immediatamente e compiutamente a conoscenza di quanto avviene nel processo che lo riguarda, e così non solo dell’accusa mossagli, ma anche degli elementi sui quali essa si basa, delle vicende istruttorie e probatorie che intervengono via via a corroborarla o a smentirla, delle affermazioni e delle determinazioni espresse dalle altre parti e dall’autorità procedente; nonché, conseguentemente, il diritto dell’imputato di svolgere la propria attività difensiva, anche in forma di autodifesa, conformandola, adattandola e sviluppandola in correlazione continua con le esigenze che egli stesso ravvisi e colga a seconda dell’andamento della procedura, ovvero comunicando con il proprio difensore».
Orbene, nella prospettiva delle garanzie di effettività del diritto all’autodifesa, il giudice delle leggi, con la sentenza n. 39 del 2004, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 70, 71 e 72 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., aveva osservato che, «[a]nche se l’art. 70 letteralmente si riferisce ad ipotesi di “infermità mentale”, il sistema normativo è chiaramente volto a prevedere la sospensione ogni volta che lo “stato mentale” dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo».
Partecipazione cosciente che – precisava tale sentenza – «non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessariamente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa».
Poste siffatte premesse, si era oltre tutto desunto che, «quando non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell’imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione – nel senso ampio che si è detto – al processo, questo non può svolgersi».
Dunque, la sentenza n. 39 del 2004 aveva messo in luce che la “cosciente partecipazione” – formula attorno alla quale ruota l’intero sistema degli artt. 70 e seguenti cod. proc. pen. – è in realtà un’endiadi, giacché un imputato che non partecipa con l’insieme delle facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione» resta concretamente estraneo al processo che lo riguarda.
L’indicazione interpretativa contenuta nella ora citata sentenza, nel senso di privilegiare la rilevanza dello stato complessivo dell’imputato in funzione di un pieno esercizio dell’autodifesa, e di relativizzare viceversa l’importanza dell’origine fisica o mentale della patologia incidente sull’autonomia della persona, osservava la Consulta nella pronuncia qui in esame, però, non aveva avuto riscontro nella giurisprudenza di legittimità, quando era stata chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 72-bis cod. proc. pen. all’incapacità processuale di natura fisica, rilevandosi al contempo che la negazione di questa applicabilità era stata argomentata, sia sulla base del tenore letterale degli artt. 70 e seguenti cod. proc. pen., sia con il richiamo a un orientamento manifestatosi nella giurisprudenza costituzionale attraverso la sentenza n. 354 del 1996 e le conseguenti ordinanze n. 67 del 1999 e n. 243 del 2013 (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 15 marzo-20 aprile 2021, n. 14853; conforme, Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 30 settembre-3 novembre 2022, n. 41486).
Pur tuttavia, ad avviso della Consulta, il richiamo alle pronunce emesse dalla medesima Corte di costituzionale da ultimo citate non si attagliava al quadro normativo ridefinito dall’inserimento dell’art. 72-bis cod. proc. pen.
Invero, se, nel dichiarare inammissibile la questione volta a introdurre una causa di sospensione processuale per infermità irreversibile non mentale, la citata sentenza n. 354 del 1996 sottolineava che la nuova ipotesi sospensiva «determinerebbe, come automatico effetto sul piano del diritto sostanziale, l’inserimento di un nuovo caso di sospensione del corso della prescrizione del reato e, quindi, la creazione di conseguenze penali contra reum che certamente è inibita a questa Corte», tale rilievo, ad avviso della Corte, non può ripetersi nell’attuale contesto normativo, né per l’odierna questione principale, giacché trattasi ora di estendere all’imputato non una causa di sospensione del processo – con un riflesso sfavorevole sul corso della prescrizione –, bensì una causa immediata di proscioglimento, riveniente dal tertium comparationis dell’art. 72-bis cod. proc. pen.
Il riferimento esclusivo alla sfera psichica dell’imputato, che in linea astratta può dedursi – e che la giurisprudenza di legittimità come si è visto desume – dall’impiego dell’aggettivo «mentale» nel testo dell’art. 72-bis cod. proc. pen., determina quindi, per la Consulta, un’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato, il quale non possa esercitare l’autodifesa in modo pieno a causa di un’infermità mentale stricto sensu, e quello che versi nella medesima impossibilità per un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa – per riprendere la locuzione della sentenza n. 39 del 2004 – le facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione», rilevandosi al contempo che, per ricondurre la norma censurata a legittimità costituzionale, sotto il profilo dell’art. 3 Cost., occorre dunque sostituire nel relativo testo alla parola «mentale» la parola «psicofisico».
In effetti, anche per patologie diverse da quelle definibili in termini nosografici come malattie mentali, occorre che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere qualora sussistano le condizioni indicate dall’art. 72-bis cod. proc. pen., cioè qualora lo stato psicofisico dell’imputato sia tale da impedirne in modo irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento nel senso del pieno esercizio delle facoltà di autodifesa e non ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca, fermo restando che quest’ultima condizione negativa risponde alle eventuali ragioni di difesa sociale, nell’ipotesi in cui l’imputato, per quanto gravemente infermo, manifesti una rilevante pericolosità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 29 gennaio-23 marzo 2020, n. 10516) mentre, laddove viceversa siano presenti tutte le condizioni indicate dalla norma, l’improcedibilità va dichiarata senza che occorra disporre la sospensione del procedimento agli effetti dell’art. 71 cod. proc. pen., né attendere la maturazione del termine di prescrizione del reato (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 8-19 luglio 2022, n. 28242).
D’altro canto, ai sensi dell’art. 345, comma 2, cod. proc. pen., l’azione penale è riproponibile pure dopo che sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere in ragione dello stato psicofisico dell’imputato, se questo stesso stato incapacitante «viene meno o si accerta che è stato erroneamente dichiarato».
Del resto, per il giudice delle leggi, l’estensione della definizione per improcedibilità alle ipotesi di irreversibile incapacità psicofisica dell’imputato non fa altro che perfezionare, alla luce del principio di uguaglianza, l’intervento di cui alla legge n. 103 del 2017, tenuto conto altresì del fatto che quest’ultima, d’altronde, ha adottato una soluzione di chiusura formale del processo concretamente non celebrabile, poi ripresa dal legislatore – per le evidenti economie di sistema – con la trasformazione dell’assenza dell’imputato da causa di sospensione del processo a fattispecie di improcedibilità (art. 420-quater cod. proc. pen., sostituito dall’art. 23, comma 1, lettera e, del d.lgs. n. 150 del 2022).
Di conseguenza, per tutto quanto esposto, era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».
Inoltre, atteso il «rapporto di chiara consequenzialità con la decisione assunta» (ex plurimis, sentenze n. 175 del 2022, n. 49 del 2018 e n. 274 del 2017), dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, cod. proc. pen. se ne faceva discendere, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale: dell’art. 70, comma 1, cod. proc. pen., relativo agli accertamenti sulla capacità dell’imputato, nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché a quella «psicofisica»; dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., relativo alla sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico»; dell’art. 72, comma 1, cod. proc. pen., relativo alla revoca dell’ordinanza di sospensione, nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché a quello «psicofisico», e, nel comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».

4. Conclusioni


Con la decisione in esame la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72-bis, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico» nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui si riferisce all’infermità «mentale», anziché a quella «psicofisica»; l’illegittimità costituzionale dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico»; l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui si riferisce allo stato «di mente», anziché a quello «psicofisico», e, nel comma 2, nella parte in cui si riferisce allo stato «mentale», anziché a quello «psicofisico».
Dunque, tali disposizioni legislative prevedono adesso, per effetto di questa pronuncia, quanto segue: 1) “Quando non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che, per infermità psicofisica sopravvenuta al fatto, l’imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice, se occorre, dispone anche di ufficio, perizia” (art. 70, co. 1, cod. proc. pen.); 2) se, “a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 70, risulta che lo stato psicofisico dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è reversibile, il giudice dispone con ordinanza che il procedimento sia sospeso, sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere” (art. 71, co. 1, cod. proc. pen.); 3) allo “scadere del sesto mese dalla pronuncia dell’ordinanza di sospensione del procedimento, o anche prima quando ne ravvisi l’esigenza, il giudice dispone ulteriori accertamenti peritali sullo stato psicofisico dell’imputato” (art. 72, co. 1, primo periodo, cod. proc. pen.); 4) la “sospensione è revocata con ordinanza non appena risulti che lo stato psicofisico dell’imputato ne consente la cosciente partecipazione al procedimento ovvero che nei confronti dell’imputato deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere” (art. 72, co. 2, cod. proc. pen.); 5) se, “a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 70, risulta che lo stato psicofisico dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento, pronuncia sentenza di non luogo a procedere o sentenza di non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”.
Ciò posto, la Consulta non fornisce una definizione di stato psicofisico che possa rilevare nel caso di specie, se non in via indiretta, ove si fa riferimento ad un’infermità di natura mista, anche di origine fisica, la quale tuttavia comprometta anch’essa le facoltà di «coscienza, pensiero, percezione, espressione», da cui può inferirsi che il suddetto stato annoveri qualunque infermità, fisica o psichica che sia, e quindi pure quelle patologie diverse da quelle definibili in termini nosografici come malattie mentali, purché sia in grado di determinare questa compromissione.
Il suddetto stato, inoltre, può rilevare in riferimento alle norme procedurali succitata, solo nella misura in cui sussistano le condizioni indicate dall’art. 72-bis cod. proc. pen., cioè qualora lo stato psicofisico dell’imputato sia tale da impedirne in modo irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento nel senso del pieno esercizio delle facoltà di autodifesa e non ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.
Non resta dunque che vedere come queste disposizioni legislative, così come riformulate dall’intervento della Consulta con la pronuncia qui in commento, saranno interpretate da parte dei giudici di legittimità ordinaria.

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