Imparzialita’ e buon andamento nel pubblico impiego alla luce dei principi costituzionali

Redazione 26/09/04
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di Renzo Remotti

Imparzialità e dirigenza pubblica dopo il processo di contrattualizzazione.

Non vi è dubbio che l’imparzialità sia il valore fondante della pubblica amministrazione. Lo stabilisce esplicitamente il primo comma dell’art. 97 della Costituzione, è ribadito dal primo comma lettera d) dell’art. 2 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 s.m. ed è, infine, presupposto da tutta la legislazione in materia di pubblica amministrazione. L’articolo venne introdotto per avere “un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti.” [1] Del resto il divieto di porre in essere atti di natura discriminatoria (art. 3 Cost.) presuppone necessariamente l’imparzialità dell’attività amministrativa. In particolare il secondo comma del medesimo articolo introduce un vero e proprio obbligo dello Stato, secondo cui si deve realizzare politiche tese a rimuovere ogni situazione che possa essere fonte di discriminazioni. Per quanto concerne la pubblica amministrazione l’obbligo di non discriminazione implica l’imparzialità dell’azione pubblica. Non solo ma, dato che alla pubblica amministrazione è affidata una buona parte della realizzazione dei diritti individuali (diritto all’istruzione etc.), imparzialità significa tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Basti un esempio. La libera consultabilità della documentazione storica, di cui agli artt. 122 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è un valore strettamente collegato alla libertà della ricerca scientifica (art. 33, primo comma Cost.). E’ evidente che se l’amministrazione archivistica non garantisce la dovuta imparzialità, concedendo di fatto l’accesso ai documenti solo a studiosi appartenenti a una determinata area politica o ideologica, la libertà di ricerca non viene garantita.

Ciò è tanto più vero in seguito alla sentenza Cassazione S.U. 50099, che ha ammesso la risarcibilità del danno in relazione a violazioni di interessi legittimi. Di fatto questa storica pronuncia ha equiparato diritti soggettivi e interessi legittimi. [2] Tenendo conto di questi sviluppi giurisprudenziali, in questo saggio si aggancerà l’imparzialità al principio di non discriminazione, piuttosto che a una concezione di weberiana memoria, secondo cui imparzialità significava soprattutto terzialità.

In questo modo l’attività amministrativa si avvicina sempre di più ai diritti e alle libertà costituzionali, mentre si allontana dai formalismi a tutela di posizioni giuridiche non sempre concettualmente chiare e distinte. Per queste ragioni un ruolo di tanto rilievo costituzionale, quale è la tutela dei diritti e delle libertà, presuppone un assetto dei poteri amministrativi fondati su imparzialità, legalità e buon andamento, inteso, come subito si vedrà, come efficienza ed efficacia giuridica e non meramente quantitativo-economica.

Non sempre, purtroppo, la dottrina giuridica ha sottolineato l’importanza di avere una pubblica amministrazione rigorosamente imparziale, affinché i diritti fondamentali di tutti i cittadini siano garantiti. [3]

La miglior garanzia, affinché l’imparzialità sia garantita almeno nella pubblica amministrazione è l’esatta applicazione del principio della separazione tra amministrazione e politica. Infatti un’amministrazione dominata dai partiti politici o da altre formazioni di simile natura non potrà essere imparziale, in quanto tali agenzie sociali sono per definizione parziali.

Del tutto legittimo, anzi desiderabile, è il controllo politico sulla pubblica amministrazione. Essendo questa, infatti, a servizio della Nazione (art. 98 Cost.) è evidente che essa è tenuta a seguire anche gli orientamenti ideologici che saltuariamente vengono scelti dai cittadini attraverso i sistemi elettorali. Detto ciò è fondamentale che il controllo politico sull’attività della pubblica amministrazione non dovrà trasformarsi di fatto in direzione politica e annullare in tal modo il principio d’imparzialità.

 Qualche breve precisazione richiede anche il principio del buon andamento, previsto anch’esso dall’art. 97 primo comma Cost. Secondo dottrina e giurisprudenza unanimi buon andamento significa efficienza ed efficacia, ora previsti dall’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

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Come per l’imparzialità, tuttavia, efficienza ed efficacia sottendono la non discriminazione nei diritti e libertà. Questa è una concezione giuridica di buon andamento. Secondo questa concezione la pubblica amministrazione deve operare in modo da garantire che la tutela dei diritti e delle libertà sia massima e che, se l’ordinamento prevede dei limiti, questi si fondino esclusivamente sulla legge e su un prevalente interesse pubblico non altrimenti tutelabile. [4] In questo senso quando un dirigente o funzionario si preparano a porre in essere un atto o provvedimento amministrativo devono essere consapevoli della portata giuridico-semantica del diritto, cui sottendono. Sulla base di queste considerazioni dovranno armonizzare benefici dei soggetti coinvolti, interesse pubblico e legge. Se tale armonizzazione è massima, l’attività amministrativa sarà efficiente ed efficacia.

Il principio del buon andamento si deve ritenere complementare all’imparzialità e alla legalità. La natura complementare è desumibile dall’architettura costituzionale degli Stati democratici. Il Parlamento è l’espressione della volontà dei cittadini e si esprime attraverso la legge; il Governo attua la volontà dei cittadini, ovvero la legge, per mezzo di politiche pubbliche e atti della pubblica amministrazione.

Di qui il vincolo della legalità.  Per queste ragioni è di dubbia costituzionalità qualunque potere proprio di organi politici che, assumendo di fatto natura sanzionatoria (spoil system etc.), possano spingere i vertici amministrativi a porre in essere politiche pubbliche parziali e, secondo la definizione proposta, discriminatorie.

Efficienza ed efficacia possono assumere un significato economico e qualche autorevole autore ha aderito a tale concezione. [5] Sulla base di quest’idea buon andamento si trasforma in una mera valutazione quantitativa. A parte che questa definizione non ha una solida giustificazione giuridica, ma il fatto che un certo provvedimento giuridico venga preso in tempi rapidi o che un determinato ufficio pubblico porti improvvisamente a termine un numero straordinario di atti non implica che la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, fine ultimo della pubblica amministrazione, sia pienamente garantita. Si può dimostrare che spesso rapidità e quantità economica nascondino discriminazioni e illegittimità giuridiche.  Per queste ragioni in questa sede quando si utilizzerà l’espressione buon andamento, si intenderà secondo il significato giuridico.

  Proprio l’aver sottovalutato lo stretto rapporto tra imparzialità della pubblica amministrazione, tutela dei diritti e libertà e principio della separazione tra amministrazione e politica ha permesso al legislatore di introdurre principi in contrasto con l’imparzialità.

In questa sede si metteranno in luce alcune incongruenze costituzionali della riforma amministrativa, specialmente in relazione all’equiparazione dell’impiego pubblico al privato.

La riforma amministrativa, infatti, nel suo esplicitarsi si è in particolar modo orientata verso un modello aziendale di pubblica amministrazione. In questo senso un ufficio pubblico non è altro che un centro di costi, l’attività amministrativa ridotta in termini di efficienza ed efficacia economica, il lavoro pubblico quantificato, con il pericolo del riaffacciarsi di fenomeni di neo-teylorismo, abbandonati peraltro da tempo dalla cultura aziendale stessa. Del resto l’attuale cultura sindacale si è sviluppata in seno al settore privato e perciò è spiegabile, perché nei contratti collettivi anche di diritto pubblico confluiscano in gran abbondanza principi che sono più appropriati in un’impresa economicamente definita, in seno a cui l’imparzialità ha scarsa importanza, ma assume rilievo l’efficienza e l’efficacia di tipo economico. [6]

Il sistema di controlli interni, ai sensi degli artt. 5 ss. del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286, ha introdotto la valutazione sull’attività dei dirigenti, valutazione, però, non tesa a garantire la l’imparzialità, ma la rispondenza a obiettivi di natura più politica che giuridica. D’altra parte, poiché la valutazione è affidata o organi non pienamente autonomi, difficilmente essa potrà essere del tutto oggettiva. Quest’affermazione è tanto più vera, come subito si vedrà, in un’amministrazione organizzata completamente per obiettivi.

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Ancor difficile valutare le innovazioni introdotte dal d.lgs. 31 marzo 1999, n. 80 s.m., che ha affidato la competenza delle controversie in materia di lavoro pubblico al giudice ordinario, eliminando la competenza esclusiva del giudice amministrativo del precedente ordinamento. Per il momento si può notare la tendenza del giudice ordinario, specie di primo grado, a introdurre nel settore pubblico principi propri dell’impiego privato. [7]

Non deve stupire tutto ciò, in quanto questo fu l’obiettivo dichiarato dei riformatori e questo è l’impianto generale delle nuove norme. Secondo Donno “Espressione di tale necessità è il d.lgs 3.03.1993 n. 29, che conferisce alla dirigenza amministrativa compiti diversi e più ampi rispetto alla precedente normativa, a cui fa riscontro l’assunzione di responsabilità connesse al raggiungimento di risultati certi e verificabili. Il nuovo provvedimento recepisce il modello aziendale ripartendo in modo netto le competenze tra organi d’indirizzo (politici) e organi di gestione (dirigenti), riconoscendo tuttavia che per ottenere una gestione aziendalistica è necessario il concorso di altre condizioni: a) la connessione tra obiettivi e risorse in bilancio, nel senso che queste ultime devono essere ripartite ogni anno, a cura del titolare del potere d’indirizzo, tra le grandi articolazioni dell’amministrazione, intese come centri di costo, in relazione agli indirizzi ed agli obiettivi che ogni struttura è chiamata a realizzare; b) l’introduzione presso ogni singola amministrazione di forme di controllo sui risultati complessivi della gestione, da svolgere per mezzo di appositi uffici di controllo interno (o di nuclei di valutazione) con riferimento sia al rapporto costi/rendimento, sia all’attuazione degli indirizzi ricevuti; c) la valutazione della responsabilità dei dirigenti per i risultati complessivi di gestione, con accoglimento normativo di criteri specificamente orientati a tale finalità. Nel momento del varo delle riforme i dirigenti pubblici si sono trovati a fronteggiare fenomeni complessi, senza avere a disposizione mezzi sufficienti per fronteggiarli. Infatti il metodo programmatorio e la fissazione degli obiettivi si sono scontrati con le situazioni d’incertezza esistenti nell’ambiente in cui la P.A. era chiamata ad operare, con la necessità di inventare giorno per giorno metodi di dialogo con la collettività (o la clientela dell’azienda P.A.) e con i titolari dell’indirizzo politico (cioè l’azionista di riferimento).” [8]

Il passo citato è particolarmente significativo, in quanto mette in luce la ratio ultima che ha indotto il legislatore a portare a termine il processo riformatore della pubblica amministrazione secondo il modello aziendale. Proprio questa ratio rappresenta il limite della riforma. E’ un’illusione, infatti, pensare che il modello recente di pubblica amministrazione possa realizzare la separazione tra politica e amministrazione, in quanto essa molto raramente ha a che fare con un’entità oggettiva quale è il mercato, che è l’ambiente in cui agisce un operatore privato e che ne costituisce il suo intrinseco limite.

 L’azione di un’azienda non potrà espandersi all’infinito perché è vincolata dal mercato. Gli azionisti o l’imprenditore, cioè la parte che potrebbe essere considerata “politica”, potranno fissare obiettivi che sono oggettivamente vincolati o dal sistema concorrenza o dalle possibilità finanziarie e strutturali dell’impresa stessa. Se imporranno una cattiva gestione, fatalmente l’azienda fallirà.

La pubblica amministrazione, al contrario, non opera in seno a un mercato. I vincoli finanziari possono essere evitati ricorrendo al debito. [9] I “clienti”, ovvero i cittadini, possono essere convinti della bontà di politiche anche errate grazie alla propaganda. [10] Infine la pubblica amministrazione, anche quando svolge attività economiche, non può fallire.

Il fatto che raramente la pubblica amministrazione operi in un ambiente perfettamente oggettivo è chiaro che gli obiettivi coincideranno con la volontà politica e, in un sistema elettorale maggioritario bipolare, con la volontà dello schieramento vincente, che per ovvie dinamiche politiche nel suo operare tende ad escludere ragioni diverse.

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L’opposizione alle sanzioni amministrative

L’opera, redatta da professionisti della materia, costituisce insieme una guida pratica e una sintesi efficace del sistema delle sanzioni amministrative, affrontando la disciplina sostanziale e quella processuale, nonché le novità giurisprudenziali recentemente emerse.Dopo una prima analisi della Legge 24 novembre 1981, n.689, il testo passa in rassegna il procedimento sanzionatorio e la successiva fase dell’opposizione alla sanzione, con attenzione particolare alla fase istruttoria e alla portata dell’onere probatorio da assolvere.Una trattazione ad hoc è infine riservata all’opposizione alle sanzioni amministrative per violazione delle regole in materia di circolazione stradale, nonché all’opposizione alle cartelle esattoriali.Silvia Cicero, È avvocato e funzionario ispettivo presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Modena.Attenta osservatrice dell’evoluzione del sistema amministrativo sanzionatorio, da anni presiede anche il Collegio di conciliazio- ne e arbitrato costituito ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori. (Legge 20.05.1970, n.300).Massimo Giuliano, È avvocato del Foro di Catania iscritto presso il consiglio dell’ordine dal mese di ottobre 2004 – Cassa- zionista dal 2017. Esperto in diritto e contenzioso tributario, Master di Specializzazione in Diritto Tributario – UNCAT – Unione Nazionale Camera Avvocati Tributaristi. Esperto in materia di Diritto Assicurativo – Idoneità Iscrizione Registro Intermediari Assicurativi – IVASS – Istituto di Vigilanza Sulle Assicurazioni – Idoneità Iscrizione alle Sezioni A e B del RUI.

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L’impossibilità di garantire l’imparzialità

La riforma amministrativa ha accentuato questo stato di cose. Ai sensi del comma secondo dell’art. 19 d.lgs. 1651 s.m. “Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente articolo. Con il provvedimento di conferimento dell’incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni.” L’articolo, introducendo la temporaneità degli incarichi dirigenziali, indica con molta chiarezza un mero termine temporale, tre anni per i dirigenti di I fascia e cinque anni per coloro che sono inseriti nella II fascia. Non introduce nessun obbligo di rinnovo dell’incarico, una volta che siano trascorsi i termini né l’obbligo di motivare tale provvedimento governativo.

Dalla lettura dell’articolo pare che Ministro e Presidente del Consiglio mantengano in materia un’ampia discrezionalità, discrezionalità, in considerazione del proprio ruolo nel Governo, che non potrà avere altra natura se non squisitamente politica. [11]

A questo punto diventa difficile armonizzare la detta norma con l’articolo 27 della Costituzione. E’ evidente che il mancato rinnovo di un incarico professionale, anche a causa delle pesanti conseguenze che ne potrebbero derivare (trasferimento etc.), ha natura sanzionatoria e non aver fondato tale provvedimento su un comportamento colposo o doloso esattamente riconducibile al dirigente interessato,  costituisce violazione del principio di responsabilità.

Non solo ma poiché il mancato rinnovo potrà ben fondarsi sull’appartenenza – o presunta tale – del dirigente a una determinata area politica è difficile non vedere una violazione degli artt. 21 primo comma e 3 secondo comma della Costituzione, in quanto facendo dipendere i destini professionali di una persona sulle proprie idee si viola la sua libertà di manifestazione del pensiero di quest’ultima, oltre a commettere un chiaro atto discriminatorio.

Si può ben affermare che il rinnovo o il non rinnovo dell’incarico in questi termini diventa un vero e proprio giudizio politico sull’attività precedente del dirigente e questo sistema difficilmente potrà garantire la separazione tra amministrazione e politica.

In secondo luogo – e questo è l’aspetto più problematico – gli incarichi vengono affidati contestualmente agli obiettivi. Anche in questo caso gli obiettivi si configurano come veri e propri atti di direzione pubblica. Le conseguenze per il mancato raggiungimento degli obiettivi, pur con alcune garanzie, peraltro insufficienti, possono arrivare al licenziamento del dirigente. Stabilisce infatti il primo comma dell’art. 21 d.lgs. 1651 s.m.: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può, inoltre, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo.”

E’ chiaro che l’articolo 23 e 21 citati rendono i vertici della pubblica amministrazione statale del tutto subordinati agli organi politici, con grave limitazione del principio d’imparzialità e buon andamento, previsto dall’art. 97 della Costituzione. [12]

Se, infatti, l’incarico stesso scaturisce dagli obiettivi, se questi altro non sono che atti di direzione politica, con una robusta gamma di sanzioni in caso d’inosservanza, e se infine praticamente la totalità delle funzioni sono affidate ai direttori generali e dirigenti, è evidente che la pubblica amministrazione non potrà più garantire il grado d’imparzialità necessario per la piena realizzazione dei diritti e libertà dei cittadini. [13]

Il comma ottavo del medesimo articolo introduce una norma che comprova quanto affermato. Viene, infatti, stabilito che se entro 90 giorni dalla fiducia del nuovo Governo, gli incarichi dirigenziali generali di più alto rango (Segretario Generale etc.), affidati dal precedente Esecutivo, non vengono rinnovati, si devono considerare decaduti. Anche se la giustificazione della norma è che questi incarichi decadono, in ragione del carattere fiduciario con gli organi politici da cui scaturiscono, ciò non toglie che, avendo questi alti vertici amministrativi numerosi compiti di valutazione e direzione (valutazione dei risultati dei dirigenti etc.), il principio di separazione politicaamministrazione si è appannato.

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Imparzialità e accesso nel pubblico impiego: il caso delle riqualificazioni del personale nel pubblico impiego

Altro punto cruciale della riforma è l’equiparazione tra impiego privato e pubblico. In questo caso si è dimenticata un’altra caratteristica tipica del solo pubblico impiego, introdotta dall’art. 98 della Costituzione.

Secondo il primo comma del citato articolo i pubblici impiegati, infatti, sono al servizio esclusivo della Nazione. L’imparzialità dovuta dalla pubblica amministrazione è anche conseguenza di questo principio.

Il primo comma dell’art. 2104 c.c., al contrario, stabilisce: “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.”

L’impiegato privato è tenuto a perseguire al meglio l’interesse dell’impresa. Ciò ovviamente perché questi lavora in ragione dello scopo dell’impresa e grazie agli investimenti dell’imprenditore. Pertanto il suo è un dovere di diligenza nei confronti dell’impresa e dell’attività economica.

Questa è regolata dall’art. 41 della Costituzione. L’articolo stabilisce che l’iniziativa economica, ovvero la costituzione di un’azienda secondo la definizione di cui all’art. 2555 c.c., è libera, purché essa persegua uno scopo utile, vale a dire tale che la collettività ne tragga un qualche vantaggio, diretto o indiretto. Eventuali limiti normativi devono essere espressamente introdotti nell’ordinamento attraverso leggi e fonti equiparate. Infatti l’ultimo comma del medesimo articolo sancisce: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” In questa sede non interessa tanto stabilire quali limiti o controlli siano costituzionalmente legittimi, quanto mettere in risalto il rapporto tra norma e attività economica in relazione al sistema delle fonti di diritto. E’ evidente che si tratta di una relazione sussidiaria, nel senso che l’attività economica è libera, finché una norma giuridicamente vincolante introduce un limite. Ciò perché l’attività d’impresa si fonda principalmente su atti di natura squisitamente pattizia (contratti etc.) In questo modo l’imprenditore è più vincolato dal mercato, cioè un’entità essenzialmente extra-giuridica, e limitato da rapporti di natura economica, quale il libero gioco della domanda e dell’offerta o il sistema concorrenziale.

Il codice civile riflette tale assetto costituzionale e pone al centro dell’azienda la figura dell’imprenditore (art. 2086 c.c.), in quanto quest’ultimo utilizza risorse provenienti dal proprio patrimonio e a quest’ultimo, conseguentemente, si deve riconoscere il diritto di regolare la propria attività come meglio ritiene opportuno con l’unico limite che tali operazioni non provochino danno alla società e non costituiscano reato. L’art. 2084 c.c., confermando i principi costituzionali, stabilisce che solo la legge può introdurre condizioni e limiti all’attività economica. Lo Stato ha sì il controllo sull’indirizzo della produzione e degli scambi, ma sempre in base alla legge. (art. 2085 c.c.)

L’impiegato pubblico, invece, è a servizio della collettività e il suo principale dovere è perciò attuare la volontà della collettività sulla base del principio dell’imparzialità senza operare discriminazioni secondo il principio dell’uguaglianza.

In altre parole se da un lato l’impiegato privato, pur nell’ambito di una giusta ragionevolezza, lavora per l’impresa, il pubblico è a beneficio dei cittadini e della non discriminazione. [14]

Di tutt’altra natura la normativa costituzionale in materia di pubblica amministrazione, proprio attraverso gli artt. 97 e 98 cost. Gli articoli sanciscono che imparzialità e buon andamento sono vincoli ben precisi per l’attività amministrativa come espressione della volontà della cittadinanzanazione.

In conclusione l’organizzazione dell’attività economica è libera, salvo che una norma vincolante introduca qualche limite; al contrario l’organizzazione della pubblica amministrazione trae origine esclusivamente dalla legge o fonti equiparate ed è libera (relativamente) solo se nessuna norma determina obblighi. In relazione al pubblico impiego l’ordinamento giuridico è fonte principale, mentre sussidiario si connota il “mercato” della pubblica amministrazione, vale a dire lo spazio in seno a cui si esplicita la propria attività. [15]

Tutti questi doveri non sono propri solo del dipendente, ma anche del datore di lavoro. Nell’ambito privato ciò significa che il datore di lavoro non può legittimamente imporre norme organizzative contrarie all’interesse dell’impresa. [16]

Mutatis mutandis anche gli organi politici sono vincolati ai principi di cui agli artt. 97 e 98 Cost. Di conseguenza direttive, ordini o altri atti di natura politica sono subordinati ai medesimi principi.

Questi pochi cenni fanno emergere come, attraverso il principio d’imparzialità, la Costituzione stessa pone differenze profonde tra pubblico e privato. Ogni operazione legislativa tesa a equiparare questi due ambiti è dubbia sul piano costituzionale. [17]

Analizzando la normativa e la giurisprudenza costituzionale in tema di accesso al lavoro, sarà evidente come il nostro ordinamento abbia garantito l’imparzialità nel pubblico impiego e un sistema consensuale (fiduciario) nel privato. Si è scelto l’accesso al lavoro, perché esso determina il nascere del rapporto di subordinazione (alla pubblica amministrazione o impresa) e il conseguente ventaglio differente di obblighi e diritti.

L’assunzione e la progressione in carriera in seno a un’azienda si basa essenzialmente su un rapporto fiduciario tra imprenditore e lavoratore, sempre quale conseguenza del coinvolgimento finanziario diretto dell’imprenditore.

La pubblica amministrazione, invece, è obbligata a garantire l’imparzialità nelle assunzioni, in quanto le risorse finanziarie, con cui vengono erogati gli stipendi, derivano dal prelievo fiscale ed esse appartengono a tutta la collettività. Per queste ragioni la pubblica amministrazione può, ordinariamente, assumere solo in seguito a procedure concorsuali, le uniche che garantiscono un procedimento obiettivo e secondo i principi del buon andamento in senso giuridico.

Tale indirizzo è stato ampliamente confermato in tema di riqualificazioni del personale delle pubbliche amministrazioni. Riqualificazione del personale equivale all’ormai abbandonato concetto di progressione di carriera e consiste nel diritto del personale, compatibilmente con le dotazioni finanziarie, di progredire da un livello professionale (le ex qualifiche) verso livelli più elevati. Il problema giuridico è stabilire la natura di tale passaggio, se cioè esso si fonda su un diritto che matura con l’anzianità oppure se esso si debba fondare sul merito accertato saltuariamente attraverso procedure concorsuali e il possesso di specifici titoli di studio e requisiti professionali.

La prima sentenza della Corte Costituzionale che stabilisce la natura concorsuale delle procedure di riqualificazione, ritenendo conseguentemente incostituzionale il concorso interno, è la n. 324 del 30 ottobre 1997. Infatti l’art. 97 terzo comma stabilisce che l’accesso alla pubblica amministrazione avviene mediante concorso. Poiché il passaggio da una qualifica all’altra è stato ritenuto dai giudici accesso a un nuovo posto di lavoro, è chiaro che ogni progressione di carriera richiede un concorso pubblico.

La legge, anche regionale, può derogare a questa regola ma nel rispetto dei principi della ragionevolezza, imparzialità e buon andamento. Nella motivazione della citata sentenza si legge: “Il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta infatti l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed e’ soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso (ex plurimis: sentenze n. 528 del 1995, n.  313 del 1994). Il legislatore regionale, peraltro, nell’esercizio della sua discrezionalità,  può ragionevolmente derogare a tale regola, in presenza però di peculiari situazioni giustificatrici e con il limite della necessità di garantire il buon andamento dell’amministrazione pubblica. E’ pertanto irragionevole ed arbitrario il passaggio ad una fascia funzionale superiore, in deroga al principio del pubblico concorso, basato sul parametro automatico dell’anzianità di servizio, senza alcun altro criterio di selezione  – tale non potendosi considerare la laurea, priva di qualsiasi riferimento all’area professionale nonché al periodo di conseguimento, – in particolare, senza una valutazione congrua e razionale dell’attività pregressa del dipendente, diretta ad accertare che egli sia in possesso dei requisiti necessari (ex plurimis: sentenza n. 161 del 1990). Nel  quadro  di  tali  principi, la norma in esame, che non prevede alcun criterio selettivo, funzionale alla congrua e razionale valutazione dell’attività pregressa al fine di accertare il possesso in ciascuno dei dipendenti dei requisiti necessari per l’espletamento delle  mansioni  superiori,  e’  irragionevole  e  contrastante con i principi dell’art.  97 della Costituzione.”

Nel 1999 venne sollevata la questione di incostituzionalità di alcune norme relative all’amministrazione finanziaria, che ammettevano il personale alla VII qualifica funzionale in seguito a procedure di riqualificazione, anche in assenza del titolo di studio richiesto per quella qualifica. Con decisione del 4 gennaio 1999, n. 1 i giudici della Corte Costituzionale riconobbero l’incostituzionalità delle norme oggetto della questione, proprio in base al principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 primo comma della Costituzione, ma anche dell’art. 3 Cost.. In particolare la Corte Costituzionale concluse: “E’ costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 97, primo e terzo comma, l’art. 3, commi 205, 206 e 207 della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), come modificato dall’art. 6, comma 6-‘bis’, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), <<limitatamente alle procedure di riqualificazione per l’accesso alla settima qualifica funzionale>>. Invero, premesso che la Corte, chiamata a pronunciarsi sulle norme costituzionali che individuano nel concorso il mezzo ordinario per accedere agli impieghi pubblici, ha osservato che in un ordinamento democratico – che affida all’azione dell’amministrazione, separata nettamente da quella di governo, il perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento – il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, resta il metodo migliore per la <<provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione>>; la normativa in esame contraddice totalmente i <<principi fondamentali posti dalla legislazione dello Stato in materia di pubblicoimpiego>>, realizzando, nel quadro di una <<sorta di globale scivolamento verso l’alto>> di quasi tutto il personale dell’amministrazione finanziaria, una anacronistica forma di generalizzata cooptazione, che, proprio per quanto concerne in particolare l’accesso alla settima qualifica, pone in evidenza ulteriori elementi di irragionevolezza. In realtà, il dipendente, anche in mancanza del titolo di studio prescritto, viene ammesso al corso di riqualificazione soltanto con il superamento di una prova scritta di contenuto più che mai generico, con l’ulteriore possibilità di esercitare subito dopo, sia pure in via provvisoria, le funzioni connesse alla qualifica superiore; e tale genericità si estende ai contenuti del corso stesso e dell’esame finale: il che suscita fondati dubbi anche sulla <<idoneità di un tale modo di selezione a consentire una seria verifica della professionalità richiesta per detta qualifica>>. – Cfr. S. nn. 333/1993 e 453/1990. – Riguardo alla possibilità per il legislatore di <<derogare alla regola del concorso>> soltanto nei limiti segnati dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione, v., per tutte, S. n. 477/1995. – V., altresì, S. nn. 320/1997, 134/1995, 528/1995, 314/1994, 487/1991, 161/1990, nelle quali – cfr., in particolare, la S. n. 314/1994 – la Corte ha osservato <<come l’abnorme diffusione del concorso interno per titoli nel passaggio da un livello all’altro produca una distorsione che, oltre a reintrodurre surrettiziamente il modello delle carriere in una nuova disciplina che ne presuppone invece il superamento, si riflette negativamente anche sul buon andamento della pubblica amministrazione>>. – Nella S. n. 309/1997, si e’ rilevato che, attraverso la <<privatizzazione del pubblicoimpiego>>, il legislatore <<ha inteso garantire, senza pregiudizio della imparzialità, anche il valore dell’efficienza, grazie a strumenti gestionali che consentano di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua più flessibile utilizzazione>>. – Sui <<principi fondamentali posti dalla legislazione dello Stato in materia di pubblico impiego>>, e sulle <<norme di riforma economico sociale>>, v. S. nn. 479/1995 e 406/1995, ex multis.”

Le argomentazioni della Corte traggono origine dall’interpretazione dell’art. 97 della Costituzionale, articolo che non è applicabile all’impiego privato. Come si vede, tuttavia, in alcune sentenze il concetto di buon andamento è in termini giuridici (non discriminazione, imparzialità etc.), in altre, come questa, è in termini economici (produttività etc.).  Ciò dimostra forse un’incertezza nel manipolare queste nuove categorie legislative, ma molto più probabilmente una forte ambiguità legislativa in tema di pubblica amministrazione.

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Con successiva sentenza del 16 maggio 2002, n. 194 la Corte Costituzionale precisò che non evita la censura d’incostituzionalità un concorso pubblico con un’irragionevole riserva di posti (nel caso di specie il 70 %) per il personale interno, soprattutto nel caso la riserva non prenda in considerazione i titoli di studio.

Mentre la Corte Costituzionale vergava queste pronunce, basate su approfondita analisi della Costituzione, il legislatore introduceva il comma secondo dell’art. 2 del d.lgs. 1651 s.m., secondo cui: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario.”

Se da un lato questa norma potrà apparire più equa, anche alla luce del principio d’uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, dall’altro implica l’applicabilità di principi, che possono essere in conflitto con la normativa costituzionale. Del resto se, come si è cercato di dimostrare, l’applicazione dei principi del diritto privato al pubblico impiego, mette in serio pericolo l’imparzialità, ovvero la tutela dei diritti dei cittadini, l’attuale riforma si allontana anche dall’approvanda Costituzione Europea. L’art. II-41 introduce il cd. principio di buona amministrazione, che viene enunciato in questi termini: “1. Ogni  individuo  ha  diritto  a  che  le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, dagli organi e dalle agenzie dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: a) il  diritto  di  ogni  individuo  di  essere  ascoltato  prima  che  nei  suoi  confronti  venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio; b) il  diritto  di  ogni  individuo di accedere  al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale; c) l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni. 3. Ogni  individuo ha  diritto  al  risarcimento da parte dell’Unione dei danni cagionati dalle sue istituzioni  o  dai  suoi  agenti nell’esercizio  delle  loro  funzioni  conformemente  ai  principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri. 4. Ogni  individuo  può  rivolgersi  alle  istituzioni  dell’Unione  in  una  delle  lingue  della Costituzione e deve ricevere una risposta nella stessa lingua.” La pubblica amministrazione europea deve operare garantendo imparzialità, equità, una ragionevole rapidità; non deve, invece, dimostrare la propria subordinazione a obiettivi emanati da organi politici dell’Unione.

Un’altro aspetto appare paradossale. L’equiparazione non è completa, in quanto il legislatore stesso, riconoscendo implicitamente le incertezze di una simile operazione riformatrice, fu costretto a precisare che in seno al pubblico impiego la legge può prevedere eccezioni. Queste, tuttavia, sembrano fin d’ora numerosissime e coinvolgono aspetti fondamentali nella disciplina del lavoro, dall’accesso al pubblico impiego alla disciplina delle mansioni superiori.

Di fronte a tale assetto normativo ci si domanda se non sarebbe stato più opportuno, sulla base del principio della semplificazione normativa, mantenere la separazione tra pubblico e privato impiego.

Conclusioni

Dopo il processo riformatore rimane invariato il controllo generale della magistratura sull’attività amministrativa (art. 113 cost.), ma ciononostante molti cittadini a causa di personali condizioni sia economiche che culturali non potranno far valere i propri diritti nelle aule giudiziarie, violati da un’amministrazione orientata agli obiettivi piuttosto che sull’imparzialità.

Peraltro tutte le argomentazioni riportate nel presente saggio dimostrano che l’asserrita equiparazione tra impiego pubblico e impiego privato è un’operazione giuridicamente impossibile a causa del principio d’imparzialità. C’è un aspetto irragionevole nell’introduzione di controlli e sanzioni, quasi che svuotando di fatto il principio di separazione tra amministrazione e politica, si abbia voluto la chiara intenzione di introdurre una direzione politica – attività ben differente dal più che legittimo controllo politico – sulla pubblica amministrazione, esattamente in sintonia al modello aziendale, che a differenza di quanto si creda, presuppone una completa direzione politica da parte dell’imprenditore o consiglio degli azionisti. Nella pubblica amministrazione non vi è un proprietario né azionisti, ma solo diritti da attuare a favore della collettività.

Sarebbe stato costituzionalmente molto più corretto dare completa attuazione all’articolo 28 della Costituzione, anche alla luce dell’ormai quasi equiparazione dei diritti soggettivi e interessi legittimi, in seguito alla sentenza Cassazione S.U. n. 5001999.

A proposito dell’articolo 28 cost. si legge in un volume ormai vecchio, ma attuale nelle opinioni degli autori: “Nella sua essenza strettamente tecnica che sfugge all’attenzione del grosso pubblico, questo articolo è uno dei più profondamente rivoluzionari di tutta la Costituzione. Abbiamo accennato come nello Stato moderno, per il grande sviluppo assunto dagli uffici, difficile diventi il controllo politico su di essi. […] L’espressione <<atti compiuti in violazione di diritti>> importa l’estensione della responsabilità professionale del funzionario a tutte le ipotesi del danno aquiliano. Basta che vi sia obbiettivamente lesione di un diritto e subbiettivamente colpa, anche lievissima, perché si abbia l’ordinaria responsabilità da illecito secondo le leggi civili.” [18] Utilizzando la tipica concisione dei giuristi romani in poche parole gli autori del volume hanno dato un’elegante soluzione al problema del controllo politico (e non solo) sull’attività della pubblica amministrazione secondo categorie di diritto tutt’ora vigenti, senza ricorrere a concetti quali obiettivi, temporaneità degli incarichi o aziendalizzazione e senza dare legittimazione a una direzione politica della pubblica amministrazione, direzione che mette in serio pericolo il principio d’imparzialità.

La miglior riforma, cioè quella che ha la probabilità maggiore di successo, è quella che, lungi dal voler introdurre un sistema completamente nuovo, è capace di innovare riorganizzando meglio gli elementi giuridici e istituzionali che già sono presenti nella cultura di un determinato ordinamento. Tutto ciò è stato dimenticato dagli ultimi riformatori.

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Note:

[1]  Atti della Costituente, II Sottocommissione, Sez. I, 14 gennaio 1947, p. 12.

[2]  Garancini G., Le professioni giuridiche, in Iustitia, Giuffré, 2002, 3, pp. 393 ss.

[3]  Martinens T., Diritto costituzionale, Giuffré, 1986, p. 434 ss.. L’autorevole costituzionalista ritiene che la neutralità della pubblica amministrazione sia un mito, sorto in età liberale. Poiché l’autore del presente saggio crede ancora nei sogni, egli sostiene che questa neutralità sia possibile. Per lo meno è importante che ogni giurista la teorizzi.

[4]  Secondo una definizione proposta in un precedente saggio il diritto è uno  “spazio di libertà che i pubblici poteri riconoscono a ciascuna persona in quanto persona e che può essere limitato soltanto dalla legge e in presenza di un prevalente interesse pubblico non altrimenti tutelabile”. Cfr. Remotti R., la riforma amministrativa: alcune riflessioni da un punto di vista giuridico, in Diritto&Diritti, 2003, https://www.diritto.it/articoli/amministrativo/remotti.html

[5]  Galateria L., Stipo M., Manuale di diritto amministrativo, UTET, 1989, I, pp. 224 ss.

[6]  Per esempio sono proprio i sindacati che nei contratti collettivi del pubblico impiego introducono principi di mera quantificazione del lavoro pubblico, senza alcun controllo sulla legalità e imparzialità, che dovrebbe invece prevalere. Ciò è spiegabile, perché tali principi sono stati mutuati dal sistema privato.

[7]  In questi ultimi tempi si nota una controtendenza della stessa giurisprudenza civile. Si pensi alla decisione  Cassazione S.U. 84382004, secondo cui è competente il Giudice Amministrativo a decidere in merito alla richiesta di risarcimento danni avanzata dal dipendente pubblico che subisce il “mobbing”  da parte del proprio datore di lavoro. La decisione vale, tuttavia, solo per i rapporti di lavoro sorti antecedentemente al 30 giugno 1998.

[8]  Donno M.M., La funzione dirigenziale nella pubblica amministrazione (il management amministrativo), in https://www.diritto.it/articoli/amministrativo/donno.pdf, p. 10

[9] E’ sufficiente analizzare la crescita della spesa pubblica, in Italia o in altri paesi europei e non, per convincersi che essa cresce indipendentemente al mercato. Cfr. Brosio G., Economia e finanza pubblica, NIS, 1986, pp. 175 ss.

[10]  E’ molto difficile, invece, convincere il creditore che la rinuncia al suo diritto possa risurtargli vantaggioso.

[11]  La circolare esplicativa 31 luglio 2002 (G.U. 5 agosto 2002, n. 182) non ha contribuito a chiarire le incertezze della norma in questione.

[12]  Analoghe norme sono previste dagli artt. 107 ss. d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 valgono per gli enti locali.

[13]  Con quest’affermazione non s’intende dire che ciò accada, ma solo che giuridicamente potrebbe accadere.

[14]  Quest’interpretazione sembra non coincidere con quella della Corte dei Conti, che per esempio in tema di responsabilità patrimoniale ha posto sullo stesso piano art. 98 Cost. e 2104 c.c. Si veda: Corte Conti 8 luglio 2003, n. 595 Tuttavia i profili d’analisi della normativa sono ben differenti. I giudici contabili sono giunti a questa conclusione in rapporto alla responsabilità del dipendente, che trova la propria ratio in una violazione del dovere di diligenza. Conseguentemente non ha rilievo, se la diligenza ha per oggetto l’interesse dell’impresa o dei cittadini. In questa sede, invece, si è analizzato esattamente il bene a cui si rivolge il dovere di diligenza e sotto questo profilo i due articoli non sono uguali.

[15]  Sempre che si possa parlare di un mercato della pubblica amministrazione in senso tecnico.

[16] Per esempio Cass. 18 febbraio 2000, n. 1892

[17]  Diverso è, invece, il caso di permettere il passaggio tra pubblico e privato, purché l’accesso al pubblico impiego sia preceduto da un concorso pubblico. Del tutto legittimo appare in tal senso l’art. 28 comma 3 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 s.m.

[18]  Baschieri G., Bianchi D’Espinosa L., Giannattasio C., La Costituzione italiana, commento analitico, R. Noccioli, 1949, pp. 168 ss.

Redazione

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