Il principio di buona fede nel diritto amministrativo

Federica Teoli 30/06/16
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Il lavoro proposto tratta del principio di buona fede e dei problemi che si pongono qualora lo stesso venga applicato ai rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadini; in particolare, viene approfondito il concetto di buona fede attraverso l’analisi degli istituti del procedimento amministrativo, vagliati attraverso i principi di correttezza e solidarietà, per poi effettuare la medesima operazione in ordine all’attività consensuale della Pubblica Amministrazione.

Il tema è quanto mai attuale, atteso che lo stesso ha anche formato oggetto della traccia di diritto amministrativo estratta all’ultimo concorso per l’accesso alla magistratura contabile.

Negli ultimi decenni il legislatore è intervenuto più volte nell’ambito del diritto amministrativo, configurando diversamente i rapporti tra PA e privati, perseguendo fondamentalmente due strade.

Da un lato, si colloca l’esplicitazione normativa della disciplina del procedimento amministrativo, che dando attuazione ai principi costituzionali in materia, configura i rapporti tra privato e PA in termini tendenzialmente paritetici, seppure con gli opportuni adattamenti derivanti dal perseguimento del pubblico interesse.

Dall’altro lato, si registra la tendenza ad ampliare l’area di responsabilità della PA, a seguito dell’introduzione degli articoli 33 e 35 del D.Lgs. 80/98, poi confluiti nella L. 205/2000.

Significativa è al riguardo la nota sentenza n. 500 del 1999, con cui la Corte di Cassazione ha aperto la strada alla risarcibilità degli interessi legittimi, fino a  quel momento negata.

In tale contesto emerge l’esigenza di una valutazione da parte del giudice amministrativo dell’azione della PA non solo in un’ottica di mera legittimità, come giudizio sull’atto, ma anche in ragione del comportamento posto in essere dalla stessa PA, come giudizio sul rapporto.

Pertanto, la pretesa avanzata dal privato potrebbe assumere ad oggetto la valutazione della condotta tenuta dalla PA nell’ambito di una fattispecie concreta.

Assume quindi rilievo centrale definire il ruolo assunto dalla buona fede nel diritto amministrativo.

La prima positivizzazione in ambito giuspubblicistico del principio di buona fede si è avuta, sia pure limitatamente alla materia fiscale, con la legge n. 212 del 2000, che all’art. 10 sancisce il principio della tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente.

Inoltre, la corte Costituzionale ha posto la buona fede anche come limite all’azione del legislatore, con particolare riferimento alle leggi retroattive a carattere extra-penale, che vadano ad incidere con effetti sfavorevoli sul cittadino.

Uno degli elementi fondamentali di uno Stato di diritto risulta infatti essere la sicurezza giuridica, che comporta la tutela delle aspettative generate nel cittadino dal legislatore.

A tal fine può risultare utile effettuare un parallelo con l’ordinamento tedesco.

La corte Costituzionale tedesca opera una distinzione tra retroattività propria e impropria.

Nel primo caso, ossia quando la legge incide su situazioni già esauritesi nel passato, c’è un affidamento del cittadino oggettivamente tutelabile, per cui la nuova legge è da considerarsi incostituzionale.

Nel secondo caso, invece, la legge incide su situazioni pendenti, quindi non ogni affidamento del cittadino nella precedente normativa può essere tutelato, ma occorre che vi siano degli indici da cui desumere l’esistenza di tale legittimo affidamento.

Pertanto, non può invocarsi tale principio se le vecchie disposizioni avessero uno scopo palesemente contingente o comunque disciplinassero un oggetto suscettibile di variazioni normative.

Analogamente, alla luce del criterio della ponderazione tra interessi configgenti, non può accordarsi tutela all’affidamento del cittadino qualora questo interesse risulti recessivo rispetto alla finalità perseguita dalla nuova norma.   

La Corte Costituzionale italiana, invece, non ha preso espressamente posizione sull’esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di buona fede operante a livello legislativo.

 Tuttavia, in due pronunce emanate in materia tributaria, ha posto in relazione il problema della retroattività delle nuove norme con altre norme costituzionali.

In particolare, la Corte Costituzionale ha ravvisato l’incostituzionalità di  una legge retroattiva che applicava una nuova imposta anche a rapporti già esauriti, per contrasto con l’art.53 Cost., che viceversa impone un nesso necessario tra imposizione e capacità contributiva.

La Corte tuttavia ha precisato, in linea con l’elaborazione tedesca sulla retroattività impropria, che il riferimento a situazioni pregresse non è di per sé incostituzionale, se sorretto da elementi idonei ad individuare la persistenza della capacità contributiva.

Sempre con riferimento ad una ipotesi di retroattività impropria, la Corte ha rigettato la questione di legittimità costituzionale di una legge che negava incentivi fiscali precedentemente accordati da una legge-incentivo, in relazione all’art. 41 della Costituzione in materia di programmazione economica. Anche in questo caso, la Corte ha messo in luce l’esistenza di indici di fatto, quali il notevole lasso di tempo intercorrente tra le due leggi e il mutamento del quadro storico-economico del paese, dai quali si ricava la non persistenza degli interessi sottesi all’emanazione della prima normativa.

Le pronunce omettono però di individuare il precetto costituzionale che imponga al legislatore il rispetto dell’affidamento del cittadino.

Pertanto, per riconoscere dignità costituzionale a questo principio, le strade logicamente percorribili sono due: in particolare, o si deve ricondurre il principio de quo all’interno di qualche altro diritto fondamentale espressamente riconosciuto dalla Costituzione, oppure deve ravvisarsi all’interno della Costituzione, una norma- principio direttamente disciplinante l’attività del legislatore.

All’interno del primo filone si colloca quella parte della dottrina tedesca che riconduce la tutela dell’affidamento all’interno della tutela della dignità dell’uomo e del diritto al libero sviluppo della personalità umana. In Italia un’applicazione di tale tesi si riscontra nella teoria delle leggi incentivo, secondo la quale tra i destinatari di tale tipo di leggi e il legislatore si creerebbe  una sorta di rapporto paritario, con la conseguenza del carattere impegnativo di tali rapporti. Pertanto, la situazione di affidamento ingenerata nel cittadino destinatario della legge incentivo  andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione.

Naturalmente la tesi incontra forti critiche nella misura in cui pretende di contrattualizzare i rapporti tra Stato e cittadino, ed in subordine allorché pretende di porre a fondamento di tale tutela l’art.2 della Costituzione.

La seconda via si propone di ricavare dal sistema un principio costituzionale non scritto, vincolante anche per il legislatore, che sancisca la tutela dell’affidamento.

Occorre però precisare che tale obbligo, laddove esistente, non implicherebbe comunque una rigida applicazione del principio di non contraddizione tra i propri comportamenti,  ossia come rapporto automatico tra individuazione dell’affidamento e  tutela di tale situazione attraverso il principio di buona fede.

L’obbligo di buona fede va piuttosto visto come obbligo di correttezza, consistente nella necessaria ponderazione tra l’interesse alla soddisfazione dell’affidamento creato dal precedente comportamento e l’interesse all’emanazione di un nuovo atto.

Quindi, la buona fede legislativa va intesa come obbligo di prendere in considerazione la situazione di affidamento in precedenza creata dallo stesso legislatore, e di non violarla se non per motivi prevalenti su quelli che giustificano la tutela della situazione di vantaggio del cittadino.

Pertanto, si può affermare che l’affidamento è una situazione giuridica soggettiva preliminare ed autonoma rispetto al principio di buona fede, e quindi la sua esistenza va accertata prima di procedere alla verifica del rispetto del principio di buona fede da parte del legislatore.

Ciononostante, la tutela dell’affidamento è assicurata dall’esistenza del principio di buona fede, seppure con i limiti derivanti dall’applicazione del principio di correttezza.

Al fine di stabilire l’ammissibilità  nel nostro ordinamento di un principio generale di buona fede, occorre preliminarmente affrontare il problema della configurabilità nel nostro ordinamento di principi costituzionali non scritti.

Al riguardo, la Corte Costituzionale distingue tra principi costituzionali e principi dell’ordinamento giuridico dello Stato.

I primi sono i principi istituzionali , relativi alle opzioni primarie caratterizzanti un determinato ordinamento positivo, e sono da considerarsi di rango costituzionale, dunque possono essere modificati o derogati solo attraverso un procedimento di revisione costituzionale.

I secondi sono invece principi direttivi impliciti nella normativa esistente, ricavati per astrazione dalle norme legislative vigenti, pertanto possono mutare ed essere derogati da norme sopraggiunte.

La buona fede va senz’altro inquadrata nell’ambito dei primi, ossia come un principio costituzionale non scritto, ma che tuttavia possiede la stessa efficacia dei principi recepiti nella Carta Costituzionale.

Pertanto, una legge che sia lesiva di tale principio deve essere considerata costituzionalmente illegittima.

Venendo ad esaminare nel dettaglio la questione, si può affermare che dai dati strutturali dell’ordinamento italiano, quali si ricavano dalla Costituzione, emerge l’esigenza di tutelare l’affidamento del cittadino.

Ciò soprattutto in quei settori in cui c’è un condizionamento legislativo dell’attività del cittadino, ad esempio in materia  di programmazione economica, come risulta dagli articoli 41, 42 comma 2, 44 comma 2, 45 comma 2 e 47.

Tali norme delineano una struttura socio-economica nella quale la fiducia del cittadino negli effetti giuridici favorevoli promessi dal legislatore appare come un elemento connaturato al sistema costituzionale.

Ma il condizionamento legislativo si ravvisa anche in altri settori, in cui la Costituzione, dopo aver previsto un diritto, non ne abbia garantito il contenuto di fronte alla legge, ma ne abbia previsto solo la sua esistenza nell’ambito delle leggi, come nel caso dell’art. 33.

Pertanto, si può concludere che un problema di tutela dell’affidamento si pone ogni qualvolta il condizionamento legislativo dell’attività del cittadino sia tale da creare, nella situazione concreta, situazioni di affidamento.

 Con riferimento alla materia amministrativa vera e propria, si pone in primo luogo il problema di stabilire se l’attività della PA possa essere subordinata, oltre che a norme legislative, anche a principi non scritti.

L’osservazione dell’ordinamento vigente consente di affermare che gran parte dell’azione amministrativa appare regolata da norme non codificate.

Ne è un esempio l’art.1 della L.241/90, che subordina l’attività amministrativa ai principi generali dell’ordinamento comunitario, tra i quali va senz’altro annoverato il principio di tutela del legittimo affidamento.

Inoltre, in molti casi si è assistito alla elaborazione giurisprudenziale di istituti non codificati, facendo applicazione di principi generali non scritti.

Risolto positivamente tale quesito, occorre esaminare le obiezioni specifiche sollevate dalla dottrina contro la vigenza del principio di buona fede nel diritto amministrativo italiano.

Tali obiezioni sono sostanzialmente due: in primo luogo, si sostiene che la funzione del principio di buona fede sarebbe interamente assorbita da quella esplicata dall’interesse pubblico.

In secondo luogo, si sostiene che il principio di buona fede sarebbe applicabile soltanto ai rapporti paritari, e quindi al di fuori dell’ambito proprio del diritto amministrativo. Nell’ambito di tale teoria, c’è addirittura chi sostiene che la buona fede troverebbe applicazione solo in materia contrattuale.

La prima obiezione identifica l’interesse pubblico con l’interesse soggettivo della Pubblica Amministrazione come corpo organizzato, e quindi con un interesse di fatto, anziché giuridico.

La tesi, elaborata negli anni ’30 del secolo scorso,  risente chiaramente del periodo storico di riferimento, e risulta priva di fondamento teorico.

La seconda obiezione è legata ad un procedimento di generalizzazione dell’id quod plerumque accidit nell’ambito del diritto privato.

In realtà, tale obiezione non appare insuperabile. Infatti, l’osservazione del normale ambito di disciplina del principio di buona fede non esclude che questo possa trovare applicazione in altre branche del diritto. Inoltre, numerose disposizioni del codice civile applicano il principio di buona fede in ipotesi in cui non è  configurabile un negozio bilaterale, come nel caso del divieto di atti emulativi e di concorrenza sleale.

La principale remora all’applicazione del principio di buona fede nel diritto amministrativo deriva invece dal fatto che la dottrina civilistica conosce due accezioni diverse di buona fede: la buona fede in senso oggettivo e la buona fede in senso soggettivo.

La prima esprime una regola di condotta, la seconda si riferisce ad una situazione psicologica di ignoranza o di errore, tutelata, in determinati casi, dall’ordinamento giuridico.

La buona fede oggettiva si esprime in due direzioni: da un lato, come obbligo per il privato di agire in coerenza con i propri precedenti comportamenti, secondo il brocardo non venire contra factum proprium, dall’altro come obbligo di comportarsi secondo correttezza, ossia secondo un canone indeterminato, da specificarsi in relazione alla fattispecie concreta.

La distinzione tra i due aspetti del principio dà contezza dei rapporti esistenti tra il principio di buona fede e la problematica dell’affidamento.

Infatti, l’affidamento che sta di fronte al principio di non contraddizione è una situazione giuridica soggettiva caratterizzata da un’aspettativa generata dall’altrui comportamento, che può essere positivo o negativo, e che prescrive che il successivo comportamento dell’affidante sia coerente con il precedente.

Al contrario, di fronte all’obbligo di comportarsi secondo un  indeterminato dovere di correttezza, c’è solo la generica aspettativa che la controparte si comporti secundum jus.

Esiste quindi un’accezione più ristretta di affidamento, come aspettativa generata da un precedente comportamento della controparte, ed un’accezione più generica, come aspettativa a che tutti i soggetti dell’ordinamento con i quali si viene a contatto rispettino non solo le regole di diritto, ma anche le regole di correttezza imposte dal rispetto dl principio di buona fede.

La buona fede in senso soggettivo, invece, tende ad identificarsi con l’affidamento, risolvendosi nella convinzione di legalità del proprio comportamento, del quale si ignora la concreta non conformità alla legge.

Tuttavia, la distinzione tra affidamento e buona fede soggettiva è di notevole importanza pratica, in quanto il primo viene tutelato in via generale, trattandosi di un principio-cardine dell’ordinamento, mentre la seconda può trovare tutela solo in presenza di una norma da hoc che espressamente tuteli la situazione psicologica del soggetto in determinate ipotesi.

Nell’ambito del diritto amministrativo, quindi, la buona fede deve essere intesa in senso oggettivo, ossia come regola di condotta della PA.

In particolare, la buona fede in senso oggettivo risulta applicabile nel diritto amministrativo secondo due distinte prospettive: la prima ha ad oggetto le modalità di esercizio del potere, e viene quindi presa in considerazione nell’ambito dei giudizi concernenti la valutazione della legittimità dei provvedimenti adottati dalla PA nell’esercizio di un potere discrezionale; la seconda attiene invece al comportamento della PA, e tende ad offrire al privato, nei confronti del provvedimento, anche una tutela risarcitoria, accanto a quella classica demolitoria.

Nel primo caso, la buona fede impone alla PA di prendere in considerazione le posizioni di affidamento eventualmente ingenerate in capo ai cittadini con i propri precedenti comportamenti, e di ponderarle con l’interesse pubblico sottostante al provvedimento da adottare. Pertanto, non necessariamente la PA deve conformarsi ai propri precedenti comportamenti, ma deve effettuare un’attenta ponderazione degli interessi contrastanti. In mancanza, laddove difetti tale valutazione comparatistica ovvero il provvedimento sia in contrasto con i suoi risultati, si configura il vizio di eccesso di potere.

Inoltre, il principio di buona fede può essere inteso anche come corollario del principio di proporzionalità, ossia come principio di adeguatezza del sacrificio imposto al privato in relazione all’obiettivo perseguito.

La buona fede intesa come norma di legittimità concernente la scelta amministrativa ha assunto particolare rilievo nell’ ambito dell’esercizio del potere di autotutela, in particolare quella decisoria.

La PA ha infatti il potere di emanare atti di secondo grado, quali l’annullamento d’ufficio e la revoca, e rimuovere così propri precedenti atti, al fine di ripristinare la legalità ovvero di esprimere una nuova valutazione di opportunità.  

Dato il carattere latamente discrezionale di questi provvedimenti, la PA dovrà adeguatamente motivare in ordine alle ragioni di pubblico interesse che giustificano il ritiro del precedente provvedimento.

Infatti, da un lato tali ragioni non sono ancorate a specifiche disposizioni normative, dall’altro occorre prendere in considerazione le situazioni di affidamento eventualmente ingenerate nei destinatari del precedente provvedimento, specie allorquando sia decorso un notevole lasso di tempo e si siano ormai cristallizzate delle situazioni fattuali.

In tale ambito, quindi, strumento di tutela del legittimo affidamento sarebbe proprio l’obbligo di ponderazione dei diversi interessi in gioco.

Tale orientamento dottrinario, avallato anche dalla giurisprudenza comunitaria, ha poi trovato conferma nella legge n.15 del 2005, che ha inserito nella L.241/90 il capo IV bis, disciplinante, tra l’altro, la revoca e l’annullamento d’ufficio.

Per quanto concerne la revoca, l’art.21 quinquies prevede che tale provvedimento possa essere adottato sia per sopravvenuti mutamenti nella situazione di fatto o di diritto, sia per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario. E’ evidente che nel secondo caso la PA sia titolare di un potere discrezionale, da esercitarsi secondo un’ottica di affidamento del privato. Infatti, sebbene questo punto non sia preso espressamente in considerazione dalla legge, il richiamo ai principi generali di matrice comunitaria, operato dall’art. 1 della L.241/90, deve ritenersi comprensivo anche dei principi elaborati dalla giurisprudenza della corte di Giustizia con riferimento alla tutela del legittimo affidamento.

La norma prevede poi, quale forma di tutela del privato destinatario del provvedimento di revoca, la necessità dell’indennizzo.

L’art. 21 nonies disciplina invece l’istituto dell’annullamento d’ufficio, prevedendo, quali presupposti per la sua emanazione, le ragioni di pubblico interesse, un termine ragionevole dall’emanazione del precedente provvedimento, la valutazione degli interessi dei destinatari e dei soggetti controinteressati.

Soprattutto gli ultimi due requisiti sembrano recepire gli orientamenti della Corte di giustizia in materia di tutela del legittimo affidamento .

La PA, in sede di esercizio del potere di annullamento d’ufficio, non può pertanto limitarsi alla mera valutazione di illegittimità dell’atto precedentemente adottato, ma deve adeguatamente ponderare gli interessi configgenti nella situazione concreta.

La violazione dell’affidamento del privato da parte della PA nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, viene qualificata come eccesso di potere.

Tale vizio ricorre allorché la PA eserciti un potere discrezionale per finalità diverse da quelle stabilite dal legislatore con la norma attributiva del potere, ovvero quando, pur perseguendo comunque l’interesse pubblico, utilizza a tal fine un potere diverso da quello previsto dalla legge.

Pertanto, il vizio in esame viene anche definito come sviamento di potere, identificandosi nella violazione del canone di logicità-congruità dell’azione amministrativa, in relazione all’interesse primario da perseguire, gli interessi secondari coinvolti e la situazione di fatto.

La giurisprudenza ha poi elaborato una serie di figure sintomatiche dello sviamento di potere, quali i vizi motivazionali, il difetto di istruttoria, il travisamento dei fatti, la disparità di trattamento tra situazioni simili, la contraddittorietà tra più parti dello stesso atto (intrinseca) o tra più atti (estrinseca), la manifesta ingiustizia, l’inosservanza dei limiti e dei criteri prefissati per lo svolgimento futuro dell’azione, la violazione della prassi, di norme interne e circolari. 

Rispetto al ruolo svolto da queste figure sintomatiche, si sono registrati due orientamenti.

Secondo una tesi minoritaria si tratterebbe di una funzione sostanziale, pertanto le figure sintomatiche andrebbero qualificate come cause immediate di illegittimità dell’atto, come vizi in sé, una volta accertati i quali non vi sarebbe bisogno di procedere ad ulteriori accertamenti.

Secondo la tesi oggi prevalente, invece, le figure sintomatiche avrebbero solo funzione probatoria, ossia varrebbero come prova indiziaria della illegittimità dell’atto, e pertanto non esimerebbero il giudice dalla ricostruzione del procedimento logico seguito dalla P.A. Si tratterebbe di espressioni del criterio di ragionevolezza.

Il criterio di ragionevolezza, come principio giuridico che regola il farsi dell’azione amministrativa, e che si pone come parametro di riferimento della violazione dei vizi sintomatici dell’eccesso di potere, ha così consentito di estendere la questione anche ad altri principi giuridici non scritti, quale appunto la buona fede.

In particolare, la buona fede è un principio che va ad integrare la disciplina legislativa concernente i presupposti per l’esercizio del potere, pertanto la sua violazione, desunta dalle figure sintomatiche, configura un’ipotesi di eccesso di potere, al pari della violazione di altri principi generali relativi al farsi dell’azione amministrativa.

La buona fede, nell’ambito del diritto amministrativo, può poi essere intesa come regola di comportamento della PA, in modo che la sua violazione possa configurare nuovi modelli di responsabilità, riconducibili nell’alveo della responsabilità pre-contrattuale.

Ciò comporta un abbandono della logica ispirata al mero controllo di legittimità dell’azione amministrativa, confluente poi in un sindacato di tipo demolitorio, e di approdare al vaglio del comportamento della PA alla luce del canone di buona fede.

L’evoluzione in senso sostanzialistico della tutela del privato nei confronti dell’operato della PA è stata ulteriormente favorita da due fattori: da un lato, l’introduzione della L.241/90, dall’altro l’insoddisfazione nei confronti del modello di responsabilità prospettato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 500 del 1999.

Per quanto riguarda il primo aspetto, la legge 241/90 ha configurato i rapporti tra PA e cittadino in termini di sostanziale parità.

Ad esempio, l’art.2 della legge citata prevede l’obbligo per la PA di definire il termine finale di conclusione del procedimento, dettando inoltre un termine suppletivo per l’ipotesi di inerzia. La previsione di un termine ragionevole per la conclusione dei procedimenti amministrativi appare chiaramente riconducibile al principio di tutela dell’affidamento del privato.

La sentenza n.500 del 1999, invece, ancorando la tutela risarcitoria al verificarsi della lesione, oltre che dell’interesse legittimo, anche dell’interesse ad un bene della vita meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, non ha lasciato intravedere una proficua esperibilità dell’azione risarcitoria nei confronti della P.A.

Ciò soprattutto con riferimento agli interessi di tipo pretensivo, per i quali sarebbe ulteriormente necessario procedere ad un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita cui il privato aspira.

Conseguenza immediata di tale orientamento è inoltre il restringimento della tutela alle ipotesi di attività vincolata della PA, lasciando fuori dall’ambito di tutela fattispecie caratterizzate da un margine di discrezionalità.

Inoltre, altro punto nodale della questione riguarda l’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano riferibile alla PA, in particolare se esso vada riferito alla PA come apparato, ossia in senso oggettivo, o piuttosto al soggetto in concreto agente, secondo un modello di tipo soggettivo.

Queste incertezze applicative hanno determinato la tendenza della giurisprudenza  a cercare nuovi modelli di responsabilità della PA, e segnatamente mettendo a frutto dibattiti sviluppatisi in ambito civilistico.

Si pensi alla teoria del contatto amministrativo qualificato, secondo la quale la responsabilità della PA in ambito provvedi mentale potrebbe sorgere dal contatto qualificato generato dalla instaurazione del procedimento amministrativo. In tal modo, perde rilievo l’analisi dei requisiti integranti l’illecito aquiliano secondo lo schema classico.

Inoltre, un orientamento della giurisprudenza ritiene applicabili le regole di comportamento secondo buona fede non solo in ambito pre-contrattuale, ma in ogni tipo di rapporto intercorrente tra i cittadini e la PA, andando così ad espandere la responsabilità da inadempimento degli obblighi di correttezza.

L’obbligo di correttezza gravante sulla PA discenderebbe dall’applicazione degli articoli 1173, 1175, 1337 e 1218 del codice civile. Inoltre, la PA sarebbe tenuta a rispettare principi di correttezza molto più pregnanti di quelli gravanti sui privati, oltre al rispetto dei canoni di economicità, efficacia, pubblicità, trasparenza, non aggravamento.

Ne discenderebbe che la violazione di questi obblighi determinerebbe una responsabilità da inadempimento della PA, da valutarsi alla luce dell’art.1218 c.c.

 

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Federica Teoli

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