Il principio della traduzione dei provvedimenti giurisdizionali per lo straniero esteso anche agli atti di indagine preliminare e, in special modo, all’ordinanza di custodia cautelare

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L’ordinanza resa dalla Sezione Riesame del Tribunale di Bologna, che si allega alla presente nota, appare autorevole presa di posizione, riguardante un’annosa vicenda, rispetto la quale non paiono, purtroppo, tuttora sopiti rigurgiti di disapplicazione di principi non solo costituzionali, ma addirittura di diritto internazionale.
Come si è già avuto modo di esporre anche recentemente[1], con grande fatica, ma irresistibilmente l’orientamento, che impone la traduzione di qualsiasi atto giurisdizionale che abbia forza di incidere su di un diritto soggettivo del destinatario del provvedimento, di modo che l’atto deve essere reso in modo che questi lo possa comprendere appieno, sta finalmente trovando solide e reiterate conferme giurisprudenziali.
Ergo, viene riconosciuta la necessarietà che l’atto giudiziario venga tradotto in un idioma effettivamente intelligibile da parte del cittadino straniero
Nel caso di specie, il particolare interesse della pronuncia che sancisce inequivocabilmente il principio e, per tale motivo, annulla un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P di Rimini, nei confronti di indagati accusati di numerosi furti e di associazione per delinquere, che in questa sede si annota, attiene a tre profili giuridici.
1. In prima battuta balza all’evidenza il fatto che l’obbligo di traduzione dell’atto in favore dello straniero, recepito, si ribadisce con estrema ritrosia dalla giurisprudenza vigente, sino ad oggi si è indirizzato in maniera del tutto circoscritta, venendo ammesso esclusivamente nei confronti di provvedimenti definitori di fasi del vero e proprio processo (decreto di giudizio immediato, richiesta di rinvio a giudizio e decreto fissazione l’udienza preliminare, decreto che dispone il giudizio, solo per citare gli atti di maggiore rilievo processuale, etc.). Così, sino alla decisione del Tribunale della Libertà, ben poche, come d’altronde affermano gli stessi giudici felsinei, sono state le prese di posizione indirizzate alla tutela cognitiva dello straniero indagato.
Vale, infatti, a dire che la fase delle indagini preliminari è stata, agli occhi della prevalente (ma non per questo condivisibile) giurisprudenza, zona franca e di palese esclusione dei principi giuridici propugnati.
Tale contestata posizione giurisprudenziale è derivata da una visione assolutamente restrittiva della portata effettiva dell’ordinanza cautelare, atto che veniva considerato solo mezzo giuridico privativo della libertà e, sotto tale esclusivo profilo, insuscettibile di svolgere funzione di strumento atto all’esercizio di diritti soggettivi in capo all’indagato.
Si trattava di una impostazione dommatica del tutto infondata, perchè tradiva un approccio al problema dell’esercizio del diritto della difesa naturale e tecnica da parte di qualsiasi soggetto sottoposto ad indagine, di natura estremamente giustizialista e giuridicamente monocola.
Così opinando, infatti l’indagato catturato e posto in carcere (o in arresto domiciliare) veniva ritenuto soggetto meritevole di soggiacere all’esproprio di qualsivoglia sua prerogativa personale, apparendo legittima la di lui privazione di quel minimum elementare di diritti (e quindi di dignità) che ogni ordinamento giuridico che si fondi sulla democrazia deve, invece, salvaguardare ad ogni costo e con assoluta intransigenza e vigore.
A contrario, un provvedimento così fortemente incisivo verso uno dei diritti fondamentali della persona – la libertà – non può essere valutato solo nell’ottica retributiva dell’assolvere solo alla funzione di integrare un trattamento sanzionatorio, che seppur interinale, appare come naturale ed impropria anticipazione di una pena detentiva, al momento del tutto in nuce.
L’ordinanza cautelare, siccome espressione di un’ipotesi processuale del tutto residuale ed eccezionale (incarcerare qualcuno non può essere fatto consuetudinario) deve essere, invece, e soprattutto, valutata e considerata anche in relazione alla sua fondatezza fattuale e giuridica, nonché alla rispondenza della misura adottata alle emergenze indiziarie e cautelari di natura processuale.
Consegue, quindi, che l’ordinanza custodiale, quale drammatico momento di esercizio della giurisdizione piena, determina e provoca, quanto meno, (a tutto volere escludere) l’insorgenza – in capo al soggetto indagato e di essa destinatario – il diritto alla verifica in fatto e diritto di tutti i presupposti che abbia sotteso all’emissione della stessa.
Questa visione – confliggente con quella originariamente imperante – ha preso inesorabilmente terreno sino alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 5052, del 24 Settembre 2003, che molto pertinentemente il Collegio bolognese richiama.
Specifica peculiarità dell’intervento dei Supremi Giudici è stata, però, nell’ambito di un forte riconoscimento del diritto di difesa, quale diritto primario della persona, quella di focalizzare con precisione i limiti entro i quali si debba ritenere vulnerato l’indagato non posto a conoscenza dell’ordinanza cautelare, per omessa traduzione della stessa.
La Corte, infatti ebbe, con la sua decisione, ad escludere che sussistesse una sorta di automatismo correlato allo status soggettivo di cittadino straniero dell’indagato, in quanto l’aspetto qualificato del problema attiene, in realtà, alla effettiva incapacità della persona non italiana di comprendere i concetti trasfuso nell’atto giurisdizionale ed alla circostanza che di tale situazione personale vi sia stato accertamento materiale da parte del giudice.
I Giudici del Tribunale di Bologna, quindi, rifacendosi alla soluzione adottata dalla Suprema Corte, hanno, pertanto, ritenuto che “l’obbligo di traduzione dell’ordinanza applicativa sussiste, fin dal momento della sua emissione, soltanto qualora risulti da tale momento – con accertamento che si risolve in un’indagine di fatto – la non conoscenza da parte dell’indagato della lingua italiana”.
Si è, così, operata una distinzione fra tale ipotesi e quella in cui l’ignoranza della lingua italiana – in capo all’inquisito – emerga in una fase successiva all’esecuzione dell’ordinanza privativa la libertà personale, quale il più classico degli esempi è quello dell’interrogatorio di convalida o di garanzia.
In quest’ultima fattispecie, il giudice può sopperire alla mancata traduzione (ma forse di mancata traduzione non si può parlare, proprio perché la situazione personale dell’indagato può essere scusabilmente ignorata dal giudice n.d.a.) con la nomina di un interprete che illustri il contenuto del provvedimento e spieghi il valore e l’accezione degli atti che si svolgono, salvo che non sia già intervenuto ex art. 94 disp att. il direttore del carcere o suo delegato (ipotesi difficile a verificarsi).
Nella fattispecie concreta, i giudici del riesame hanno potuto appurare che fosse circostanza notoria che gli indagati non conoscessero la lingua italiana, giacchè costoro, raggiunti in precedenza da ordinanza custodiale emessa da un giudice dichiaratosi incompetente per territorio, avevano fruito della traduzione della stessa.
Una volta che il procedimento era stato trasmesso al giudice competente, questi nel reiterare la misura ai sensi dell’art. 27 c.p.p., aggiungendo, peraltro, anche – a richiesta del P.M. – nuove contestazioni di reato, era certamente in grado di comprendere la necessità che la nuova ordinanza dovesse essere tradotta nella lingua degli indagati, tant’è che ordinava espressamente siffatto adempimento, rimasto, peraltro, inspiegabilmente, inevaso.
Il Tribunale del Riesame, quindi, ha colto nella concreta fattispecie, non solo la ontologica lesione del diritto degli indagati a conoscere gli addebiti nella loro interezza, gli indizi su cui ci si fonda e le esigenze cautelari addotte, ma anche la rilevanza di tale vulnus sul piano della configurabilità di una nullità assoluta ed insanabile ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p. .
Priva di pregio sarebbe, pertanto, (e giustamente) l’affermazione del G.I.P. – contenuta in una ordinanza reiettiva la richiesta di revoca della misura, per la verificazione della dedotta nullità – secondo la quale la traduzione, nella fattispecie, sarebbe stata inutile, anche perché del tutto contraddittoria proprio con quell’ordine di tradurre emesso vanamente dal medesimo giudice.
2. Il secondo aspetto di rilievo attiene al fatto che la presenza dell’interprete all’interrogatorio reso ex art. 294 c.p.p. al G.I.P. (delegato dal giudice emittente la misura) non sia affatto significativa di una intervenuta sanatoria della nullità assoluta così verificatasi.
La contestazione dei fatti – effettuata dal G.I.P. delegato agli indagati nella descritta sede procedimentale dell’interrogatorio – con l’assistenza dell’interprete, (al di là della mancata specifica indicazione degli elementi di prova) non assolve in alcun modo – neppure supplettivamente – al dovere di illustrare all’indagato, in toto, il contenuto dell’ordinanza, anche perché, nella fattispecie, essa è, evidentemente, avvenuta attraverso una forma assolutamente sintetica di riassunto, assolutamente inadeguata rispetto ad una vicenda processuale di particolare importanza, nella quale erano stati contestati 24 distinti capi di imputazione tra cui il reato di cui all’art. 416 c.p. .
Deriva, pertanto, il principio che, provata la mancata effettiva esplicazione della previsione di cui al citato ‘art. 94,comma 1 bis, disp. att. c.p.p.., la traduzione sommaria dell’ordinanza cautelare effettuata dall’interprete, in sede di interrogatorio di garanzia, in forma riassuntiva, non può tenere luogo della traduzione, siccome impedisce all’indagato di conoscere in ogni suo aspetto il provvedimento privativo della libertà e di approntare un’adeguata difesa, nella fase dell’interrogatorio, che è strumento sia di contestazione dell’accusa, sia di esplicazione delle ragioni della difesa, non altrimenti manifestabili al giudice.
3. Il terzo profilo che suscita particolare interesse e merita indicazione specifica, riguarda il fatto che l’intera ordinanza sia stata dichiarata nulla e che il vizio non abbia, invece, attinto solo la parte della stessa in cui si contesta ex novo tutta una serie di reati.
Per migliore comprensione, infatti, va detto che l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. di Rimini, annullata dal Tribunale di Bologna, si connotava di due parti.
La prima concerneva nove reati e, in pratica, reiterava, ai sensi dell’art. 27 c.p.p., la precedente ordinanza emessa dal G.I.P di Ravenna, (tradotta nella lingua di origine degli indagati stranieri) che, successivamente a tale pronunzia, si dichiarava incompetente per territorio.
La seconda, invece, atteneva tutta una serie di altri reati (14) mai prima di allora contestati agli indagati.
Il Tribunale di Bologna ha ritenuto che il vizio dedotto abbracci ed incida su tutta la complessiva ordinanza e non già solo in relazione alla parte contenente gli addebiti che, in precedenza non erano stati contestati.
Il ragionamento dei giudici della cautela è chiarissimo e lineare.
Escluso, infatti, ogni dubbio in ordine a tutti quei reati per la prima volta oggetto di contestazione, con l’ordinanza non tradotta, in relazione ai quali si esplicita in pieno e totale il principio della lesione del diritto di difesa, per mancata comprensione dell’accusa e degli elementi a sostegno della stessa, si deve, inoltre, rilevare che non vi è prova alcuna che gli indagati abbiano compreso che l’ordinanza del G.I.P. di Rimini, per quanto concerne i reati già contestati in precedenza, siccome “emessa ai sensi dell’art. 27 c.p.p., si sovrapponesse in parte all’ordinanza del GIP dichiaratosi incompetente”.
Con tale osservazione si privilegia, al di là di qualsiasi elemento genericamente valutativo, la primaria ed indefettibile necessità che sussista piena sicurezza in ordine alla complessiva comprensione del tenore del provvedimento ablativo la libertà personale.
Tale necessità assume, ovviamente, una pregnanza direttamente proporzionale al grado di invasività che l’atto giurisdizionale manifesta nei confronti del destinatario.
Si tratta di un principio guida della Convenzione dei diritti dell’uomo di New York (art. 6 co. 3° lett. A) della CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO, recepita con L.4.8.1955 N. 848) e del PATTO INTERNAZIONALE RELATIVO I DIRITTI CIVILI E POLITICI, (art. 14 co. 3° lett. A recepito dalla L. 25.10.77 N. 881.).
La comprensione della struttura e della portata di un’accusa mossa nonchè delle ragioni che sottendono ad un provvedimento giurisdizionale, di qualunque natura (ma soprattutto se incisivo sulla persona in uno dei suoi diritti fondamentali) appare, quindi, quale linea guida per una corretta applicazione dei principi del nostro ordinamento processualpenalistico.
Ad essa si abbina il contestuale rifiuto giurisprudenziale del ricorso ad escamotage, od a forme sostitutive quei comportamenti dovuti, che finiscono per ledere inequivocabilmente la certezza del diritto.
Rimini, lì 13 Maggio 2006
 
Avv. Carlo Alberto Zaina
 
 
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Tribunale di Bologna Sezione Riesame, ordinanza 8- 11 Maggio 2006 in materia di misure cautelari ai sensi dell’art. 309 c.p.p.
 
1. Il presente procedimento trae origine dalle indagini compiute dai carabinieri di Riccione in ordine ad una serie di furti in appartamento, talora accompagnati dal furto di autovetture compiuti nel territorio di Rimini e Riccione ed in province limitrofe.
Sulla base dell’azione combinata delle intercettazioni telefoniche disposte su taluni di telefoni cellulare risultati rubati negli appartamenti, di controllo degli spostamenti di una vettura rubata, nonché di servizio di osservazione e pedinamento, essi individuavano un gruppo di albanesi, i quali facevano capo ad una abitazione da essi occupata in Lido Adriano,dove, a seguito di irruzione dei militari, nella notte del 31.3.2006, veniva rinvenuta refurtiva proveniente da vari furti. I carabinieri procedevano al fermo di L.V. e L. R., S.G. e G. V..
Su richiesta del P.M.di Ravenna in data 3.4.2006, il GIP presso il Tribunale di Ravenna, convalidava il fermo ed applicava la misura coercitiva carceraria per tutti gli indagati, dichiarandosi incompetente in ragione del luogo di commissione della maggior parte dei furti. Disponeva, altresì, la traduzione in lingua albanese della predetta ordinanza.
All’udienza di convalida del 4.4.2006, davanti al GIP di Ravenna, gli indagati, assistiti da un’interprete di lingua albanese, si avvalevano della facoltà di non rispondere.
Seguiva la richiesta del P.M. di Rimini di emissione della misura cautelare ai sensi dell’art.27 c.p.p., fondata, peraltro, non solo sugli episodi di furto già posti a base dell’ordinanza del G.I.P. di Ravenna (esclusi due episodi, per i quali, in assenza di indizi, la Procura rinunciava a chiedere la misura cautelare), ma sulla nuova contestazione di ulteriori furti aggravati (capi da 10 a 23) e del reato di associazione per delinquere (capo 24).
Il GIP di Rimini,con ordinanza del 22.4.2006, ritenuta la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine a tutti i fatti contestati e per tutti gli indagati, e ravvisando la sussistenza delle esigenze cautelari di cui alle lettere b) e c) dell’art.274 c.p.p., applicava la misura carceraria agli stessi.
In sede di interrogatorio delegato, gli odierni indagati, assistiti da un interprete in lingua albanese, dichiaravano di non avere potuto comprendere i contenuti dell’ordinanza del GUP di Rimini ed il difensore di entrambi eccepiva la nullità dell’ordinanza, non essendo stata notificata loro la copia della stessa tradotta in lingua albanese, non solo in relazione ai capi di imputazione contestati ex novo, ma anche in relazione ai capi di imputazione da 1 a 9, già oggetto dell’ordinanza del GIP di Ravenna, ma non indicati nella rubrica di tale ordinanza.
 
2. Avverso l’ordinanza del GIP di Rimini, proponevano richiesta di riesame i difensori di L.V. e L.R., con motivi genericamente indicati.
All’udienza questi ultimi eccepivano la nullità dell’ordinanza applicativa per omessa traduzione in lingua albanese ed il difensore del primo avanzava altre censure di ordine processuale. Censuravano, inoltre, l’impugnata ordinanza sotto il profilo della mancanza di gravi indizi di colpevolezza e dell’insussistenza delle ravvisate esigenze cautelari, domandando l’annullamento dell’ordinanza e l’applicazione di misure gradate.
 
3. All’esito dell’udienza in camera di consiglio, nell’ambito della quale i due procedimenti venivano riuniti, l’eccezione di nullità dell’ordinanza deve ritenersi fondata.
La Corte costituzionale (sentenza 19.1.1993 n. 10 e n. 64 del 14.2.1994), con sentenze interpretative di rigetto, sulla scorta dei principi emergenti dalle convenzioni internazionali, ha rilevato che l’art. 143 c.p.p. impone che si proceda alla nomina dell’interprete o del traduttore immediatamente alla constatazione della mancata conoscenza della lingua italiana da parte della persona nei cui confronti si procede. Nell’enunciare il principio secondo cui l’imputato straniero ha diritto di essere immediatamente e dettagliatamente reso edotto, nella lingua di sua comprensione, dei motivi e della natura degli addebiti a lui mossi, la Corte ha esteso l’assistenza dell’interprete anche agli atti scritti che contengano la formulazione dell’accusa nei confronti dell’imputato e prevedano l’attribuzione a quest’ultimo di diritti o facoltà processuali (in particolare decreto di giudizio immediato e decreto di rinvio a giudizio).
All’estensione di tale principio anche alla fase delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla posizione dell’indagato rispetto all’emissione dell’ordinanza applicativa di misura coercitiva, la giurisprudenza si era mostrata restia, ritenendo che la necessità di garantire la consapevole partecipazione al procedimento non fosse prospettabile in relazione all’ordinanza cautelare, la quale non contiene dati informativi o avvertimenti in ordine all’esistenza ed alle modalità di esercizio di diritti e facoltà dell’indagato (Cass., sez.IV, n. 2128, 4 giugno 1999, Metushi) ed osservando, altresì, che la tutela dell’indagato che ignori la lingua italiana era assicurata dall’obbligo del direttore dell’istituto penitenziario di accertare, con l’eventuale ausilio di in interprete, che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che dispone la custodia (Cass., sez. II, 27 marzo 1999, Zarijoski).
Tuttavia, non erano mancate pronunce di segno contrario, le quali avevano ritenuto il diritto all’immediata traduzione dell’ordinanza di custodia cautelare (Cass. Sez. III, n. 1527, 8 settembre 1999, Braka), sino a ritenere che anche l’ordinanza custodiale, al pari del decreto di citazione a giudizio, è un atto di fronte al quale l’indagato straniero che non comprenda la lingua italiana può essere pregiudicato nel suo diritto di partecipare al processo libero nella persona, in quanto non è posto in grado di valutare quali siano gli indizi ritenuti a suo carico, né se sussistano i presupposti per procedere all’impugnazione dell’ordinanza per nullità, a norma dell’art. 292, comma 2, c.p.p. (Cass. Sez. I, n. 4841, 23 settembre 1999, Zicha).
Sul punto è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite (sent. n. 5052, 24.9.2003).
La Corte ha, anzitutto, osservato che la disposizione dell’art. 143 c.p.p. non può non trovare applicazione in tutte le ipotesi in cui l’imputato sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare allo svolgimento del processo e che l’ordinanza che dispone la custodia in carcere, per il contenuto che la contraddistingue la contestazione di un reato con l’indicazione dei gravi indizi di colpevolezza, ma anche la sussistenza di imprescindibili esigenze cautelari – e per gli effetti che ne conseguono – la privazione della libertà – rientra a pieno titolo tra quegli atti rispetto ai quali deve essere assicurata la pienezza del diritto di difesa.
Dunque, in primo luogo, la S.C. ha riconosciuto all’indagato che non conosca la lingua italiana il diritto di essere messo in condizione di conoscere il contenuto del provvedimento ed i presupposti su cui si fonda, al fine di esplicare pienamente il proprio diritto di difesa.
Tuttavia, la Corte, osservando che l’obbligo di traduzione dell’ordinanza non sorge automaticamente per il solo fatto che si tratti di indagato straniero, ha modulato l’esplicazione del diritto di consapevole partecipazione al procedimento a seconda dei concreti accadimenti processuali e del momento in cui il giudice abbia concretamente accertato la non conoscenza della lingua italiana da parte dell’indagato.
Così, l’obbligo di traduzione dell’ordinanza applicativa sussiste, fin dal momento della sua emissione, soltanto qualora risulti da tale momento – con accertamento che si risolve in un’indagine di fatto – la non conoscenza da parte dell’indagato della lingua italiana.
Diversamente, nel caso in cui dagli atti non risulti detto presupposto ed il giudice accerti dopo l’esecuzione del provvedimento e nel momento in cui procede all’interrogatorio di garanzia che l’indagato non conosce la lingua italiana, “deve nominare l’interprete conferendogli l’incarico di illustrare all’indagato il contenuto dell’atto, oltre che l’incarico di spiegare all’indagato il significato degli ulteriori atti a cui partecipa”, salvo che l’indagato non ne fosse stato reso altrimenti edotto mediante l’intervento del direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94, comma 1 bis, disp.att. c.p.p..
Nel caso predetto, la nomina, in sede di interrogatorio, di un interprete che illustri all’indagato i contenuti del provvedimento coercitivo costituisce una valida alternativa alla traduzione dell’atto, al fine di rendere edotto l’indagato.
Infine, in caso di provvedimento coercitivo emesso in esito ad udienza di convalida dell’arresto, dopo l’interrogatorio e dopo l’ordinanza di convalida, non può reputarsi sufficiente l’assistenza dell’interprete all’udienza, posto che l’indagato, nel momento in cui gli viene comunicato il titolo applicativo, deve essere messo in condizione di comprendere tutti i motivi per cui si precede alla limitazione della sua libertà personale, ivi comprese le esigenze cautelari poste a base del provvedimento.
Riportando i suddetti principi al caso di specie, dall’esame degli atti è assolutamente evidente che L.V. e L.R. non conoscono la lingua italiana, per essere tale circostanza stata in precedenza constatata dal GIP di Ravenna, il quale aveva disposto la traduzione dell’ordinanza in lingua albanese, debitamente notificata agli interessati. Davanti allo stesso giudice, in sede di convalida, essi avevano fruito dell’assistenza di un’interprete di lingua albanese, avendo dichiarato di non conoscere la lingua italiana.
Di più, il G.I.P. Di Rimini, nell’irrogare la misura, affermava in motivazione (cfr. pag. 11): “Va disposta la traduzione della presente ordinanza in lingua albanese in quanto in sede di interrogatorio di garanzia espletato davanti al GIP di Ravenna, gli indagati hanno dichiarato di non comprendere la lingua italiana”. Tale statuizione non era riportata in dispositivo e agli indagati è stata notificata l’ordinanza soltanto in lingua italiana.
Infine, in sede di interrogatorio di garanzia del 26.4.2006, delegato davanti al GIP di Ravenna, entrambi i ricorrenti dichiaravano di non avere compreso quanto loro contestato dal GIP di Rimini.
Pertanto, essendo stato compiutamente accertato già al momento dell’emissione dell’ordinanza che gli indagati non avevano conoscenza della lingua italiana,la stessa doveva essere tradotti in lingua conosciuta agli indagati. Ne consegue che “l’omessa traduzione del provvedimento custodiale nel momento in cui è emesso, ove ne ricorra il presupposto, o la mancata nomina dell’interprete per la traduzione in sede di interrogatorio di garanzia, quando non si sia già provveduto ai sensi della norma dell’art. 94, comma 1 bis, disp.att. È causa di nullità dell’atto, rispettivamente, dell’ordinanza di custodia cautelare o dell’interrogatorio, nullità che..deve annoverarsi in difetto di una specifica previsione della norma dell’art. 143 c.p.p. tra le nullità contemplate dall’art. 178, lettera c) e 180 c.p.p.”.
Non può condividersi il provvedimento del GIP di Rimini del 28.4.2006, secondo il quale non doveva ritenersi necessaria la traduzione, essendo il diritto all’effettiva conoscenza del contenuto degli addebiti soddisfatto dalla presenza di un interprete in sede di interrogatorio.
A parte la contraddittorietà con i contenuti dell’ordinanza applicativa, tale circostanza è stata ritenuta valida alternativa alla traduzione unicamente quando il presupposto della “non conoscenza” della lingua italiana sia emersa, successivamente all’ordinanza, in sede di interrogatorio di garanzia mentre “…ove risulti dagli atti, nel momento in cui è emesso il provvedimento custodiale, che l’indagato non conosce la lingua italiana, il giudice deve disporre immediatamente che l’ordinanza sia eseguita con la consegna di copia anche della traduzione della stessa nella lingua conosciuta dello straniero” (sent.cit.).
D’altra parte, anche diversamente opinando, e nonostante nel verbale di interrogatorio del 26.4.2006 risulti la menzione che il GIP ha contestato, avvalendosi dell’assistenza dell’interprete, i fatti contestati e reso noti gli elementi di prova (senza, in tal caso, poi effettivamente indicarli), non potrebbero in alcun modo ritenersi che in tale sede ai ricorrenti sia stato compiutamente illustrato dall’interprete il contenuto dell’ordinanza. Basti osservare che dal verbale del 26.4.2006 emerge che, quanto a L.V., l’incombente processuale si è svolto dalle ore 10,00 alle opre 10,06, e quanto a L.R., dalle ore 10,35 alle ore 10,45.
In tale esiguo contesto temporale, deve escludersi che l’interprete possa avere reso edotti gli indagati degli addebiti a loro carico, consistenti in 24 distinti capi di imputazione, degli indizi di colpevolezza e, infine, delle esigenze cautelari poste a base del provvedimento.
Né nella specie ha avuto concreta esplicazione quanto previsto dall’art. 94,comma 1 bis, disp. Att. c.p.p..
A nulla, infine, rileva che l’ordinanza di custodia cautelare fosse stata proceduta da ordinanza emessa da giudice incompetente ai sensi dell’art. 27 c.p.p. – quest’ultima debitamente tradotta e notificata agli interessati in lingua albanese – posto che il provvedimento del GIP di Rimini non si limitava ad una mera rinnovazione della misura, ponendo a base della stessa la contestazione di nuove ipotesi delittuose (si tratta dei capi da 10 a 24).
L’invalidità attinge l’ordinanza nella sua integralità.
Se, infatti, non vi è dubbio che gli indagati non abbiano avuto contezza degli addebiti per la prima volta mossi nei loro confronti in quella sede, la nullità travolge l’ordinanza anche in relazione ai capi da 1 a 9, nonostante essi fossero stati oggetto di valutazione nella precedente ordinanza del GIP di Ravenna.
La ragione di ciò deve ravvisarsi nella constatazione che gli indagati, non conoscendo la lingua italiana, non potevano nemmeno ritenersi consapevoli del fatto che l’ordinanza del GIP di Rimini, emessa ai sensi dell’art. 27 c.p.p., si sovrapponesse in parte all’ordinanza del GIP dichiaratosi incompetente. Se pure la motivazione dell’ordinanza del GIP riminese richiama tra virgolette il contenuto dell’ordinanza precedente, ciò non ha in alcun modo influito sulla comprensione da parte degli indagati, i quali non potevano nemmeno intendere quale fosse in concreto il contenuto della parte motiva virgolettata, né, di conseguenza, rendersi conto che si trattava di episodi già a loro in precedenza contestati.
Va, pertanto, dichiarata la nullità dell’impugnata ordinanza e per l’effetto va disposta l’immediata liberazione dei ricorrenti, se non detenuti per altra causa.
 
 


[1] V. commento al decreto emesso dal Giudice di Pace di Ascoli, in questa rivista 2 Marzo 2006
 

Zaina Carlo Alberto

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