Il partenariato pubblico-privato: dall’enucleazione nell’ordinamento comunitario alla codificazione in quello nazionale

Ilari Stefano 30/10/08
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E’ noto che ai sensi del comma 5 dell’art. 113 del d.lgs 267/00 le modalità di erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica sono le seguenti:
a) affidamento a società di capitali individuate mediante procedure ad evidenza pubblica;
b)affidamento a società a capitale misto pubblico privato in cui il socio privato sia scelto mediante procedure ad evidenza pubblica;
c)affidamento a società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante dell’attività con gli enti che la controllano (c.d. in house).
Nessun problema pone il caso disciplinato dalla lett. a) del comma 5 nel senso che l’evidenza pubblica è la regola a cui deve sottostare la P.A. ogni qual volta voglia garantire il rispetto della normativa posta a tutela della concorrenza e quindi procedere in modo del tutto obiettivo alla scelta del gestore ritenuto più idoneo.
Differente l’ipotesi contemplata alla lettera b) del comma 5 dell’art. 113 d. lgs 267/00: si tratta, infatti, delle c.d. società miste nelle quali il socio privato deve necessariamente essere scelto attraverso la procedura dell’evidenza pubblica.
A tal proposito le modalità di espletamento e di aggiudicazione delle gare per l’affidamento del servizio, prima della sentenza n. 272/04 della Corte Cost., erano dettagliatamente disciplinate dal comma 7 dell’art. 113 TUEL.
Quest’ultimo è stato dichiarato incostituzionale dai Giudici di legittimità che hanno ritenuto “ingiustificato e non proporzionato” l’intervento del legislatore statale in relazione al livello di dettaglio con cui sono stati disciplinati i criteri di indizione e di aggiudicazione della gara. Infatti, tale decisione precisa che la materia “ tutela della concorrenza “ è materia trasversale che concerne una pluralità di interessi anche di competenza regionale, per cui, un intervento del legislatore statale così dettagliato ha leso le conseguenti competenze regionali. Pertanto in merito ai criteri di aggiudicazione vi sarà un’ampia potestà legislativa regionale fermo restando il rispetto dei principi comunitari.
Mai sopita, invece, la tormentata questione sulla scelta del socio e l’affidamento del servizio.
Vi è chi ritiene, infatti , che la gara per la scelta del socio non assorbe la gara per l’affidamento del servizio: si tratta del c. d. in house spurio che necessiterebbe pertanto di due gare che hanno presupposti differenti.[1]
I sostenitori della tesi opposta, invece, ritengono che la gara per la scelta del socio renda non necessaria la gara per l’affidamento del servizio.
Merita a tal proposito di essere citato il recente parere del Consiglio di Stato[2] che, investito della questione, esclude la gara per l’affidamento del servizio ma prevede che alla scadenza del periodo di affidamento venga effettuata una nuova selezione: in tal modo si garantisce un ricambio e si evita che il socio scelto diventi un “socio stabile” della società mista.
Modalità del tutto singolare, invece, quella prevista dalla lettera c) del comma 5 dell’art. 113 TUEL: si tratta, infatti, del c.d. modello in house providing[3] nel senso che la P.a. per produrre beni e servizi non si rivolge all’esterno ma si avvale di società all’uopo costituite.
In tal caso, in deroga alla procedura dell’evidenza pubblica, la P.A. non bandisce una gara per l’affidamento del servizio pubblico locale ma lo fa gestire direttamente alla società che risponde integralmente all’ente stesso.
Ci si è chiesti se il modello dell’affidamento diretto costituisca, quindi, una eccezione alla regola della esternalizzazione o costituisca una modalità parallela di cui avvalersi in maniera discrezionale.
Sul punto la Corte di Giustizia[4] è stata chiara nel ritenere che l’affidamento diretto costituisce una eccezione alle regole generali della concorrenza, per cui, i requisiti indicati nel comma 5 dell’art 113 TUEL devono essere interpretati restrittivamente e la loro effettiva sussistenza deve essere dimostrata in concreto da chi intende avvalersene.
In realtà l’orientamento che sembra affermarsi, invece, è che la P.A. è libera nelle sue scelte (autoproduzione o esternalizzazione): ciò che rileva piuttosto è che la stessa ogni qual volta operi una scelta motivi in ordine alle ragioni che l’hanno indotta ad optare per una strada piuttosto che per un’altra.[5]
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Con specifico riferimento alle autonomie locali, il principio di autonomia istituzionale viene espressamente sancito dalla Carta europea dell’autonomia locale del 15 ottobre 1985, ratificata dalla maggior parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa (STCE, n. 122), che all’art. 6, n. 1, stabilisce che le collettività locali debbono “poter definire esse stesse le strutture amministrative interne di cui intendono dotarsi, per adeguarle alle loro esigenze specifiche in modo tale da consentire un’amministrazione efficace”. Inoltre, l’importanza dell’autonomia locale viene sottolineata attraverso lasua espressa menzione nell’art. I-5, n. 1, del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004.
Quanto segnalato a livello comunitario trova riscontro in una non recente ma assai significativa decisione del Consiglio di Stato. Si tratta di Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 477, ove – delineando esattamente i caratteri dei vari istituti giuridici nella materia che, oggi, è considerata dalle norme che qui si commentano – si afferma: "L’organizzazione autonoma delle pubbliche amministrazioni rappresenta un modello distinto ed alternativo rispetto all’accesso al mercato […] La tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell’approntare la produzione e l’offerta dei servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza. Pertanto non si spinge sino a giustificare un sindacato sulle scelte legislative o amministrative che consentano ai pubblici poteri, nel produrre ed offrire servizi o beni, di optare per schemi di coordinamento e formule organizzatorie, teoricamente alternative rispetto all’acquisizione delle prestazioni destinate alla collettività per il tramite del mercato.[…]. Se la costituzione di un soggetto dedicato è idonea a garantire economie di scala, riduzione dei costi o razionalizzazione del bacino di utenza, l’opzione dell’ente locale non potrebbe esporsi ad alcuna censura solo perché escludente il ricorso al confronto competitivo. […]. Il ricorso alla produzione privata, disciplinato da regole di salvaguardia della concorrenza e l’esercizio del potere di organizzazione, sottratto ai vincoli concorsuali o concorrenziali validi per il ricorso al mercato, costituiscono due schemi distinti che vanno preservati da ogni equivoca commistione".
Non si può trascurare, poi, che l’ampiezza della capacità di diritto privato delle pubbliche amministrazioni sia anche affermata, in termini generali, dall’articolo 1, comma 1-bis, della legge n. 241/1990, nel testo introdotto dalla legge n. 15/2005.
Particolarmente significative, in quest’ottica di valorizzazione dell’autonomia organizzativa delle p.a., non scalfita dal diritto comunitario degli appalti, sono, le conclusioni dell’Avvocato Generale Kokott nella causa Parking Brixen: “Se si applicasse la disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici appalti anche a negozi giuridici tra amministrazioni aggiudicatrici e loro società controllate al 100%, le forme giuridiche di diritto privato della società per azioni o della società a responsabilità limitata non potrebbero essere più utilizzate ai fini di una mera riorganizzazione interna. Al relativo ente resterebbe soltanto l’alternativa tra la privatizzazione dei suoi servizi e l’esecuzione diretta di essi per mezzo dei propri servizi amministrativi oppure di aziende autonome, integrate nella gerarchia amministrativa e prive di significativa autonomia. In taluni casi le società controllate esistenti potrebbero addirittura essere ritrasformate in aziende autonome. Tuttavia, un intervento così incisivo sulla supremaziaorganizzativa degli Stati membri e segnatamente sull’autogoverno di tanti Comuni non sarebbe affatto necessario neppure alla luce della funzione di aperturadei mercati svolta dalla disciplina sugli appalti. Difatti, lo scopo della normativa sugli appalti è di garantire una scelta trasparente ed imparziale dei contraenti ogniqualvolta la pubblica amministrazione decida di svolgere i propri compiti con la collaborazione di terzi. Non rientra invece nella ratio della disciplina sugli appalti la realizzazione di una privatizzazione «di straforo» anche di quei servizi pubblici che la pubblica amministrazione voglia continuare a fornire con mezzi propri ; a questo scopo sarebbe necessario che il legislatore compisse passi più concreti verso la liberalizzazione.
Con particolare riferimento alle società miste, occorre evidenziare una recentissima decisione della VI Sezione del 23 settembre 2008, n.4603, con la quale il Supremo Consesso amministrativo è ritornato sull’argomento della possibilità, per l’amministrazione pubblica, di avvalersi del modello organizzativo della società mista per l’espletamento dei compiti di istituto.
La VI Sezione, in particolare, è tornata a richiamare il parere della seconda Sezione di questo Consiglio di Stato n. 456 del 18 aprile 2007 nonchè la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 3 marzo 2008, con le quali sono state indagate le condizioni alle quali è subordinata la legittimità dell’affidamento diretto di un servizio pubblico ad una società.
A tale proposito, si è ricordato che con il parere e la decisione più sopra richiamate è stata evidenziata la differenza tra la società in house e la società mista, laddove la prima agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo” (in ragione del controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi dall’amministrazione aggiudicatrice e della destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione stessa), mentre la diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria, in cui il socio privato sia scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovano convergenza.
Il caso analizzato dalla Corte nella predetta sentenza del 23.09.2008, si riferisce a quello nel quale una amministrazione aggiudicatrice indice una gara per reperire il socio privato (operativo) di minoranza.
Come rileva il citato parere della seconda Sezione, il modello delle società miste è previsto in via generale dall’art. 113 comma 5 lett. b) d.lgs. n. 267 del 2000, come modificato dall’art. 14 d.l. n. 269 del 2003 e dalla relativa legge di conversione, n. 326 del 2003, norme che, pur avendo attinenza ai contratti degli enti locali, delineano un completo paradigma, valido in generale sia per i servizi pubblici locali che per gli appalti di lavori.
Condizione perché possa essere ritenuto legittimo il ricorso alla scelta del socio, al fine della costituzione di una società che divenga affidataria dell’esecuzione di opere e/o servizi senza necessità di gara, è, secondo il predetto parere, che attraverso la procedura non si realizzi un affidamento diretto alla società mista, ma piuttosto un affidamento con procedura di evidenza pubblica dell’attività operativa della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta all’individuazione di quest’ultimo. Il modello, in altre parole, trae la propria legittimità dalla circostanza che la gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato abbia ad oggetto, al tempo stesso, l’attribuzione dei compiti operativi e quella della qualità di socio.
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Con l’approvazione del nuovo articolo 23 bis, introdotto dalla legge n. 133/2008 in sede di conversione del decreto legge n. 112/2008 contenente la manovra economica d’estate, la materia relativa dell’affidamento dei servizi pubblici locali ha subito un nuovo impulso verso una sua definitiva regolamentazione.
L’articolo 23 bis, composto di dodici commi, racchiude disposizioni aventi lo scopo “di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione”.
L’importanza di spicco della normativa in commento è inoltre testimoniata, come si legge nel primo comma dell’articolo, dal fatto che le relative disposizioni “si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”.
Con l’introduzione della nuova norma diventa regola generale di diritto che il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, mediante l’espletamento di procedure competitive ad evidenza pubblica, nell’osservanza dei principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario (art. 23 bis, comma 2).
È da notare, che nella versione originaria del testo proposto con l’emendamento del Governo, era previsto che alle gare potessero partecipare società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che avessero scelto il socio privato mediante procedure competitive.
La disposizione lasciava trasparire la volontà dell’esecutivo di escludere dalle competizioni le società a capitale misto, ove il partner privato non fosse stato scelto con gara.
Come è stato ribadito, sul punto, dalla Commissione Europea nella comunicazione interpretativa 2008/C91/02 pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea del 12 aprile 2008, in qualsiasi ipotesi di partnership pubblico-privata “le disposizioni di diritto comunitario in materia di appalti pubblici e concessioni impongono all’amministrazione aggiudicatrice di seguire una procedura equa e trasparente quando procede alla selezione del partner privato che, nell’ambito della sua partecipazione all’entità a capitale misto, fornisce beni, lavori o servizi (…). In ogni caso, le amministrazioni aggiudicatrici non possono ricorrere a manovre dirette a celare l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi a società ad economia mista”.
Anche la recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 4 marzo 2008, n. 889, basandosi sul principio fondamentale dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione il quale prevede che ogni contratto dell’ente pubblico da cui derivi un’entrata o una spesa deve essere preceduto da una gara (art. 3 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440), ha evidenziato la necessità per la P.A. di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta essa debba scegliere un socio privato per la costituzione di una società mista, indipendentemente dal tipo di attività che tale società debba espletare.
E’ noto, peraltro, che il quarto considerando della direttiva 2004/18/CE sollecita in maniera espressa gli Stati membri a provvedere affinché la partecipazione di un organismo a diritto pubblico a una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico in qualità di offerente non causi distorsioni della concorrenza nei confronti di offerenti privati.
In questa logica di tutela della libera concorrenza, l’intento originario dell’emendamento era volto in sostanza a penalizzare l’operatività delle società miste con partner privato scelto senza gara, facendo leva sul fatto che in nome di un prevalente interesse superiore può essere legittimamente compressa la libera iniziativa privata in capo ad un soggetto economico operante nel mercato.
Durante i lavori in commissione, è stata però espunta la previsione di escludere dalla partecipazione alla gara le società miste con socio privato scelto senza gara, forse in ossequio al più pregnante e generale principio del diritto comunitario secondo cui qualsiasi entità a capitale privato è libera, al pari di ogni operatore economico, di partecipare a gare pubbliche di appalto indette sul territorio degli stati membri.
Secondo il testo dell’art. 23 bis licenziato dalle commissioni riunite Bilancio e Finanze della Camera, il quadro ora descritto si completava con l’alternativa facoltà prevista per l’Ente locale di optare – in presenza delle medesime circostanze e con analoghe modalità – non già per l’affidamento “in house”, bensì per l’affidamento diretto a favore società a partecipazione mista pubblica e privata, anche quotate in borsa, partecipate dall’ente locale, a condizione che il socio privato fosse scelto mediante procedure ad evidenza pubblica, nelle quali fossero già stabilite le condizioni e la durata della gestione del servizio, nonché la modalità di liquidazione del socio al momento della scadenza dell’affidamento del servizio.
Nel testo vigente del nuovo articolo 23 bis, però, la materia non trova più una esplicita disciplina, facendovi il legislatore riferimento mediante un generico rinvio al “rispetto dei principi della disciplina comunitaria” (comma 3), quale presupposto necessario per legittimare una deroga alle modalità di affidamento ordinario.
La scelta operata dal legislatore, pare possa ricollegarsi alla citata evoluzione giurisprudenziale il cui punto d’arrivo sembra essersi, in qualche misura, consolidato.
Appare altresì evidente che se le indicazioni formulate dal Consiglio di Stato fossero state recepite in forma espressa dall’art. 23 bis, ciò avrebbe conferito alla riforma in itinere il valore aggiunto di beneficiare del frutto delle più autorevoli elaborazioni giurisprudenziali sviluppate nella materia de qua.
Diversamente, il richiamo indiretto fatto dal comma 3 alla necessità che la deroga all’obbligo di assegnare la gestione del servizio con gara abbia luogo “nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”, non appare un assunto altrettanto idoneo a regolamentare con chiarezza il punto in questione, anche se è difficile dire che sia davvero prevalso l’intendimento di apportare un giro di vite alle modalità di scelta del contraente da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, restringendo il campo d’azione della deroga alla gara esclusivamente alla fattispecie degli affidamenti in house, e non anche a quella delle società miste pubblico-private.
In questo quadro, non è facile dire se una riforma dei servizi pubblici locali che si caratterizza con le molteplici peculiarità appena tratteggiate sia idonea a favorire, come pure dichiaratamente affermato dal legisatore, “la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”.
Sembra più prudente affidare l’ultima parola ai fatti, nella consapevolezza che la comprovata difficoltà organizzativa da parte degli enti locali di indire complesse gare ad evidenza pubblica sul territorio, possa indurre a nutrire più di qualche dubbio in ordine alle reali prospettive del settore.


[1] Di tale avviso C.G.A. , 27 ottobre 2006, n. 589.
[2] Cons. Stato, sez. II, 18 aprile, 2007, n. 456.
[3] Istituto di derivazione comunitaria si v. la famosa sentenza Teckal 18 novembre 1999 in causa 107/98.
[4] Corte di Giustizia 6 aprile 2006, C- 410/04.
[5] In tal senso TAR Puglia Bari, sez. II, 8 marzo 2007, 362.

Ilari Stefano

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