Il mobbing nei contesti militari e nelle forze armate

Marco Rossi 03/03/23
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Il cosiddetto “mobbing” (termine derivante dal verbo inglese [to] mob che si potrebbe associare alla condotta di un assalto violento fatto in massa) rappresenta un fenomeno ricorrente nella varietà dei contesti lavorativi. Trattasi di un insieme di condotte vessatorie poste in essere, ai danni di un soggetto lavoratore, da coloro che nella medesima realtà lavorativa siano rispetto a lui sul medesimo o differente livello gerarchico.

Indice

1. Inquadramento giuridico

Perché si possa parlare propriamente di mobbing è necessario che tali condotte si protraggano nel tempo e siano collocabili in un più ampio disegno persecutorio – finalizzato all’emarginazione del lavoratore – che possa dirsi causalmente connesso a dei pregiudizi psico-fisici e patrimoniali subiti da quest’ultimo.
Concretamente, rientrano nel novero delle condotte c.d. “vessatorie” una pluralità di comportamenti, anche leciti se considerati singolarmente, che possono sistematicamente prevedere un demansionamento del lavoratore o una sua sottoposizione a carichi di lavoro eccessivi e, di conseguenza, lesivi per la sua integrità psico-fisica. Per fare un esempio, l’assegnazione di mansioni inadeguate per il livello di competenza del lavoratore non rappresenta di per sé un atto illecito (si pensi all’esigenza temporanea di sopperire ad una carenza di organico), ma qualora ciò dovesse essere finalizzato all’emarginazione del soggetto o allo sminuimento della sua professionalità, potrebbe verosimilmente dirsi vessatoria e assumere significato in qualità di episodio di mobbing.
In tema di onere della prova, la Cassazione con l’ordinanza n. 29767 del 29.12.2020 ha stabilito, in modo inequivocabile, che esso spetta al lavoratore che si reputi vessato. Nello specifico, non essendo il mobbing una figura tipizzata dalle norme, è necessario che il lavoratore provi la sussistenza dei seguenti elementi:
a)      la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio
b)      l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente
c)      il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore
d)      la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio
 Pertanto, risulta pressoché evidente le difficoltà nelle quali il lavoratore vittima di mobbing si imbatte nella raccolta degli elementi utili a provare la sua condizione e, ancor più, la concreta sussistenza dell’intento persecutorio di chi pone in essere le condotte, specialmente quando queste assumano un aspetto lecito o siano, perlomeno, “scusabili”.
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2. Natura e limiti della disciplina militare: quando si può parlare di “mobbing”?

Nel contesto militare, la disciplina non rappresenta solo il nucleo normativo che regola i rapporti tra i soggetti che rivestono lo status di militare, ma risulta essere uno dei cardini sui quali trova appoggio l’efficienza dell’intero ordinamento. L’art. 1346 del D.lgs. 15/03/2010, n. 66 (meglio noto come il “Codice dell’Ordinamento Militare”) associa ad essa un valore tale da costituire “il principale fattore di coesione e di efficienza”. Dalla definizione codicistica di disciplina militare deriva il principio della subordinazione gerarchica e la determinazione delle posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, strettamente connesse con il dovere assoluto di obbedienza agli ordini. Inoltre, è fondamentale puntualizzare che, tra i corollari dell’obbedienza militare, rientra l’insindacabilità degli ordini legittimamente ricevuti e il dovere di eseguirli anche qualora non dovessero essere ritenuti conformi alle norme regolamentari in vigore[1].
Alla luce di quanto appena evidenziato, emerge senza ombra di dubbio la potenziale portata lesiva legata al reiterato e scriteriato uso del potere disciplinare. Il D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (c.d. “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”) stabilisce all’art. 725 che è dovere del superiore “tenere per norma del proprio operato che il grado e l’autorità gli sono conferiti per impiegarli ed esercitarli unicamente al servizio e a vantaggio delle Forze armate”. Cosicché, perché si possa parlare di mobbing nel contesto militare è necessario dimostrare che l’uso fatto della potestà disciplinare si discosti da quello che è l’efficienza e il buon andamento dello strumento militare per perseguire un fine vessatorio e di pressione nei confronti del singolo. La patologia dell’uso dello strumento disciplinare risulta quindi essere difficilmente dimostrabile, in quanto appare necessario provvedere alla raccolta di elementi oggettivi che ne dimostrino la manifesta infondatezza e che vadano ben oltre la dimostrazione di meri episodi di conflittualità sul luogo di lavoro. Ad esempio, potrebbe rappresentare un sintomo del mobbing il susseguirsi nell’arco di breve tempo più procedimenti disciplinari avviati nei confronti del militare e conclusi con l’archiviazione, oppure una sentenza di annullamento del Tribunale Amministrativo Regionale in merito ad un ingiustificato abbassamento della qualifica nella documentazione caratteristica.
Esulando dall’ambito amministrativo e disciplinare, alcune condotte riconducibili al mobbing possono essere dimostrate anche da precedenti sentenze di condanna legate a reati militari e comuni quali l’ingiuria (art. 226 c.p.m.p.), la minaccia o ingiuria a un inferiore (art. 196 c.p.m.p.) o gli atti persecutori (612-bis c.p.).
Risulta ancora più complesso dimostrare il nesso eziologico tra la condotta vessatoria del superiore gerarchico e il pregiudizio – seppur legittimamente accertato da un organo medico – subito dal militare. Di fondamentale importanza è, inerentemente a questo specifico punto, l’attenta analisi del susseguirsi temporale degli eventi e del tempo intercorso tra la realizzazione delle condotte e il manifestarsi della sintomatologia legata al disturbo successivamente diagnosticato e imputato agli eventi stessi.

3. Le recenti pronunce giurisprudenziali

Coerentemente con quanto sopra evidenziato, sono poche le sentenze che – sulla base degli elementi forniti dal ricorrente – hanno convinto il giudice amministrativo a riconoscere la sussistenza dell’intento persecutorio discernendolo da una mera situazione di conflittualità negli ambienti militari.
Nella recente sentenza n. 97/2021 del T.A.R. Lombardia – Sez. III non si è ritenuto sussistere l’insieme di condotte riconducibili al mobbing ai danni del ricorrente che, nonostante la denuncia di un trasferimento a sua detta “ingiustificato” e dello svolgimento di mansioni non riconducibili al suo livello di formazione, non è stato in grado di provare in maniera del tutto oggettiva la sistematicità delle condotte e il fine vessatorio delle stesse. Pertanto, si è stabilito che “la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte dal ricorrente (e accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi di criticità o episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, non consente di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante e unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro, necessario ai fini della configurabilità del mobbing” .
Con l’ulteriore sentenza n. 193/2016 del T.A.R. Liguria – Sez. II si evidenzia, in tema di trasferimenti disposti d’autorità, ritenuti dal ricorrente facenti parte del disegno persecutorio nei suoi confronti, come – in carenza di elementi oggettivi riconducibili all’irragionevolezza del provvedimento – questi “appaiono in realtà una normale prassi organizzativa in ragione delle mutevoli esigenze della forza armata”.
Esito del tutto diverso ha avuto il ricorso proposto da un militare appartenente alla Guardia di Finanza che, con sentenza n. 883/2018 del T.A.R. Veneto – Sez. I, ha visto accolta la propria richiesta di risarcimento del danno cagionatogli dalla “sindrome ansioso-depressiva reattiva all’ambiente lavorativo conflittuale” di cui dichiarava di essere affetto. Nel caso in questione, l’accoglimento del ricorso è dato dal fatto che il militare ricorrente “ha allegato e comprovato talune circostanze in grado di dimostrare la presenza, nel caso in esame ed a suo danno, dei suesposti elementi costitutivi del cd. Mobbing” contemporaneamente alle difese dell’Amministrazione ritenute dal giudice “assai poco convincenti” poiché poco credibili e carenti di sufficiente supporto probatorio. Nella lettura della sentenza si evince come il giudice, analizzati i comportamenti, ingiustificati, dell’Amministrazione abbia ravvisato il demansionamento del militare, ma allo stesso tempo non abbia ritenuto altri comportamenti – tra cui il trasferimento e l’abbassamento della qualifica nella documentazione caratteristica – facenti parte del medesimo disegno vessatorio.

>>>Per approfondire<<<
La dignità della persona umana e il rispetto nei confronti dei lavoratori nei luoghi di lavoro costituiscono un punto qualificante della convivenza civile e, al contempo, una misura incentivante per una maggiore produzione lavora- tiva. Infatti, un ambiente di lavoro, dove siano bandite forme di violenza morale nei confronti dei lavoratori costituisce un punto essenziale anche per la migliore produttività aziendale.

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Mobbing. Tutele processuali e percorsi psiconeuroimmunologicii

Il presente testo, con materiale online tra cui formuario e giurisprudenza, è strumento operativo sia per i professionisti che per chiunque si trovi ad affrontare le problematiche connesse al fenomeno del mobbing. Si analizza l’argomento sotto due aspetti: uno giuridico e l’altro medico. Da un punto di vista giuridico si prende in considerazione il fenomeno in esame sia sotto il profilo sostanziale che processuale, indicando nel dettaglio i singoli comportamenti mobbizzanti, le responsabilità e le possibili tutele (giuridiche ed extragiuridiche) da attivare. La dignità della persona umana e il rispetto nei confronti dei lavoratori nei luoghi di lavoro costituiscono un punto qualificante della convivenza civile e, al contempo, una misura incentivante per una maggiore produzione lavora- tiva. Infatti, un ambiente di lavoro, dove siano bandite forme di violenza morale nei confronti dei lavoratori costituisce un punto essenziale anche per la migliore produttività aziendale. Invece, da un punto di vista medico, si analizza, in primis, il ruolo svolto dallo stress, sia acuto sia cronico, nell’innescare cambiamenti nella fisiologia dell’intestino e nella salute mentale e, in secondo luo- go, si presentano le principali metodiche utilizzate per rilevare una situazione di stress da lavoro correlato, attraverso l’impatto che quest’ultimo ha sulla salute psico-fisica del lavoratore.  Nicola Botta, laureato in Pedagogia, in Psicologia clinica, in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psicoterapia Cognitiva e Psiconeuroimmunologia. Dal 1983 ad oggi lavora come Psicologo Clinico presso l’Asl di Salerno. È stato docente di Psicologia del Lavoro dal 2006 al 2011 presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Attualmente, è docente di Psiconeuroimmunologia presso l’Open Academy of Medecine, a Venezia. Dal 1999 è responsabile del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia presso l’UOSM DS 67, dell’Asl di Salerno. Dal 2000 si occupa di mobbing come coordinatore del gruppo di lavoro presso la stessa Asl. Autore di numerosi libri e scritti in materia del mobbing. Rocchina Staiano, Avvocato, Docente in Diritto della Previdenza ed assicurazioni sociali e in Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro presso l’Università di Teramo; Docente/formatore in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, ai sensi del D.M. 5 marzo 2013; Docente in vari Corsi di formazione e di master; Membro dei collegi dei probiviri della Cisl Regione Campania; Componente esterno della Commissione Lavoro e della Commis- sione Rapporti Internazionali UE del CNF; Consigliera di Parità della Provincia di Benevento. Autrice di numerose pubblicazioni e di contributi in riviste, anche telematiche.  

Nicola Botta – Rocchina Staiano | Maggioli Editore 2018

  1. [1]

    Art. 729, comma 1, lett. a) e c), D.P.R. 15/03/2010, n. 90

Marco Rossi

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