Il medico non deve limitarsi a indicare al paziente di svolgere ulteriori esami diagnostici, ma deve disporli egli stesso

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Gli Ermellini hanno ritenuto il medico di guardia inadempiente, perché egli si era limitato a indicare al paziente di provvedere da sé a svolgere un esame diagnostico qualora i sintomi fossero stati persistenti, mentre il sanitario avrebbe dovuto disporre egli stesso lo svolgimento dell’esame diagnostico di approfondimento, eventualmente, anche disponendolo presso altra struttura, se non fosse stato possibile eseguirlo presso la struttura dove si trovava il medico.

Fatto

Nella causa oggetto di commento, la moglie e i figli di un paziente deceduto avevano convenuto in giudizio l’azienda sanitaria locale e il medico che aveva visitato il loro parente, errando la diagnosi della patologia di cui il medesimo era afflitto.

In particolare, i parenti avevano dedotto che il paziente si era recato presso il nosocomio, lamentando forti dolori al torace, e il medico aveva errato la diagnosi, ritenendo che si trattasse di ansia da stress anziché dell’inizio di una dissecazione dell’aorta (che lo avrebbe di lì a poco condotto alla morte) e conseguentemente lo aveva dimesso dall’ospedale.

Il Tribunale di primo grado aveva tuttavia rigettato la richiesta risarcitoria formulata dai parenti del paziente deceduto, aderendo alla CTU svolta durante detto grado; mentre la Corte di appello aveva riformato la decisione, dopo aver espletato una nuova CTU medico-legale, e condannato il medico e la struttura sanitaria a risarcire i danni subiti dagli attori. In particolare, la corte territoriale aveva ritenuto che dalla nuova CTU effettuata in grado di appello era emersa una responsabilità del medico non per omessa diagnosi della dissecazione della aorta, bensì per non aver proseguito l’iter di accertamento diagnostico a fronte del forte dolore toracico lamentato dal paziente (che avrebbe imposto al medico di approfondire in via clinico-strumentale la questione per accertare la natura del dolore). Secondo il giudice di seconde cure, quindi, il medico avrebbe dovuto prospettare che il dolore toracico poteva essere indice di altre patologie, rispetto all’ansia da stress, e quindi indicare al paziente di effettuare un adeguato approfondimento diagnostico presso un’altra struttura sanitaria che avesse gli strumenti opportuni (ciò anche in considerazione del fatto che il dolore da stress era poco probabile in considerazione dello stato fisico e l’età del paziente).

Il medico, quindi, ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo – per quanto qui di interesse – l’erroneità della sentenza di secondo grado in quanto non aveva valutato che il paziente avrebbe potuto e dovuto effettuare dei controlli ulteriori e quindi aveva concorso nella determinazione del danno.

Analogamente anche i parenti del paziente deceduto ricorrevano in Cassazione, con ricorso incidentale, lamentando una non corretta liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale.

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La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha esaminato, in primo luogo, il ricorso principale del sanitario, ritenendolo inammissibile e conseguentemente confermando la decisione di secondo grado che aveva condannato i convenuti ritenendo il medico responsabile per la mancata prosecuzione degli accertamenti strumentali.

Sul punto, gli Ermellini hanno evidenziato come la difesa del medico, che sosteneva di non essere responsabile della morte del paziente fondandosi su una precedente pronuncia della Cassazione in tema di responsabilità del medico di guardia, non fosse aderente al caso di specie. In particolare, il sanitario aveva fondato il proprio motivo di ricorso sul principio per cui il medico di guardia non debba rispondere della morte del paziente visitato se quest’ultimo non ha osservato le prescrizioni che gli erano state date. Ma la Corte di Cassazione ha chiarito la portata del precedente citato dalla difesa del medico, nel senso che tale giurisprudenza ha escluso la responsabilità del medico di guardia allorquando il paziente visitato e dimesso con apposita prescrizione farmacologica, soltanto nel caso in cui non sia sussistente una responsabilità del sanitario dovuta alla sua condotta omissiva derivante da una errata diagnosi o da una mancata adozione di misure di cautela che invece avrebbe dovuto adottare; in caso contrario, invece, il medico risponde perché l’evento dannoso è collegabile causalmente con la condotta omissiva del sanitario medesimo.

In considerazione di ciò, la Suprema Corte ha affermato che, nel caso di specie, la corte territoriale avesse rispettato il richiamato principio, nella misura in cui ha ritenuto che il medico di guardia fosse inadempiente, perché egli si era limitato a indicare al paziente di provvedere da sé a svolgere un esame diagnostico qualora i sintomi fossero stati persistenti, mentre il sanitario avrebbe dovuto disporre egli stesso lo svolgimento dell’esame diagnostico di approfondimento (eventualmente, anche disponendolo presso altra struttura, se non fosse stato possibile eseguirlo presso la struttura dove si trovava il medico).

In secondo luogo, la Corte Suprema ha rigettato anche il ricorso incidentale dei parenti del paziente deceduto, ritenendo corretta la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale formulata dal giudice territoriale.

Nel rigettare il ricorso incidentale, gli Ermellini hanno ricordato che il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale non è un danno in re ipsa, cioè non si verifica per il solo fatto della morte del parente, ma deve essere allegato e provato dal parente che ne richiede il risarcimento.

In considerazione, però, del fatto, che tale danno è proiettato nel futuro, il danneggiato può provarlo anche ricorrendo a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obiettivi. Naturalmente, dovrà essere lo stesso danneggiato a fornire in giudizio tali elementi probatori.

Per quanto riguarda la quantificazione di detto danno, poi, essa deve avvenire in base a valutazione equitativa del giudice che deve prendere in considerazione l’intensità del vincolo familiare che c’era tra il parente danneggiato e la vittima, la situazione di convivenza nonché ogni ulteriore circostanza utile come per esempio la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei parenti superstiti.

Acquisiti, quindi, gli elementi probatori di cui si è appena detto, il giudice deve valutare, anche attraverso il meccanismo della presunzione (cioè ricavando dal fatto noto, quello ignoto), l’esistenza di una sofferenza morale soggettiva del parente che ha subito la perdita del rapporto parentale nonché le conseguenze sul piano dinamico-relazionale. Accertata la sussistenza di tali due profili (di cui si compone appunto il danno da perdita del rapporto parentale), il giudice deve apprezzare la gravità effettiva del danno, in modo da procedere alla sua quantificazione equitativa, in considerazione dei concreti rapporti che c’erano tra il danneggiato e il defunto (anche appunto ricorrendo agli elementi presuntivi di cui si è detto in precedenza).

Ebbene, secondo gli Ermellini, nel caso di specie, la corte territoriale aveva ben applicato i principi appena richiamati in tema di perdita del rapporto parentale, liquidando il relativo danno dei ricorrenti incidentali in base ai parametri di fatto del caso concreto (quali l’età del parente deceduto, l’età dei parenti danneggiati e superstiti, il vincolo di parentale che li legava, il rapporto di convivenza).

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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