Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Orientamenti giurisprudenziali e normativa COVID-19

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Paragrafi: 1) Il licenziamento individuale. 2) Sui presupposti sostanziali e formali di validità del licenziamento. 3) Sulle conseguenze nei casi di nullità, illegittimità ed inefficacia del licenziamento. 4) Sul divieto di licenziamento disposto dalla nomativa COVID-19. 5) Sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni dirette ad una maggiore redditività d’impresa.

 

1)        il licenziamento individuale.

Prima di soffermarci sulla specifica fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è opportuno porre alcune premesse generali sull’istituto giuridico del licenziamento individuale nel rapporto di lavoro privato.

In merito, secondo l’ordinamento, il rapporto di lavoro fra le parti può estinguersi al verificarsi di tre specifiche ipotesi: la prima è quella dell’estinzione del rapporto di lavoro per volontà esclusiva del lavoratore; la seconda è quella dell’estinzione del rapporto per volontà congiunta di entrambe le parti; la terza ed ultima ipotesi è, invece, quella di estinzione del rapporto per volontà esclusiva del datore di lavoro.

Nel primo caso si parlerà di dimissioni, ossia della semplice manifestazione di volontà del lavoratore di porre fine al rapporto, la quale incontrerà l’unico limite del rispetto dei termini di preavviso indicati dalla legge o dal CCNL (salve le ipotesi di dimissioni per giusta causa).

Nel secondo caso si tratterà di una risoluzione consensuale del contratto di lavoro, la quale avviene quando entrambe le parti decidono, di comune accordo, di estinguere il rapporto tra loro intercorrente (artt. 1321 e 1372 Cod. Civ.) [1].

Nel terzo caso, invece, ossia in ipotesi di risoluzione del contratto per volontà del datore di lavoro, si tratterà di licenziamento, la cui disciplina è basata, primariamente, sul divieto – di derivazione Costituzionale – di immotivatezza dell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro.

Il divieto di cui sopra, prende vita dalla costituzionalizzazione del diritto del lavoro intesa quale affermazione all’interno della Carta Costituzionale di principi di tutela del lavoro e della retribuzione quale misura di dignità e libertà del lavoratore (considerato la parte debole del rapporto). Essi hanno condotto al superamento della scarna ed originaria disciplina del Codice Civile del 1942 per arrivare all’emanazione della Legge n° 604 del 1966.

Quest’ultima, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, ha sancito l’illegittimità del licenziamenti adottati in mancanza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo oggettivo o soggettivo”, sancendo così il generale principio di giustificazione del licenziamento.

L’ordinamento ha così dato il via ad una serie di interventi che hanno ridotto ad ipotesi davvero limitate la possibilità per il datore di lavoro di procedere ad un licenziamento privo di giustificazione (c.d licenziamento ad nutum), la cui originaria previsione si può rinvenire nell’art. 2118[2]. Quest’ultima fattispecie di licenziamento, attraverso gli interventi legislativi susseguitesi dalla legge 604/1966 in poi, risulta totalmente limitata ad ipotesi tassative (il licenziamento ad nutum è ora possibile solo nel caso di collaboratori domestici, di lavoratori sportivi, di dirigenti a cui non si applicano i CCNL, di lavoratori ultrasessantenni con requisiti pensionistici e di lavoratori in prova), ragion per cui, l’art. 2118 c.c. andrebbe riscritto.

Un decisivo passo in avanti verso la tutela effettiva della stabilità del rapporto si è poi avuta con la Legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) che ha previsto all’art 18 la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato.

Tuttavia, la tutela reintegratoria dell’art 18 ha subito negli ultimi anni degli alleggerimenti originati dall’entrata in vigore della la Legge Fornero (L.92/2012). Quest’ultima, in nome di un’esigenza di maggiore flessibilità in uscita dei rapporti di lavoro, ha dato il via alle modifiche dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori attraverso una riduzione delle ipotesi di reintegra del lavoratore nei casi di illegittimità del licenziamento. La disciplina dei licenziamenti è stata poi ulteriormente modificate dal Jobs Act (Legge 183/2014 e seguenti DLgs di attuazione) il quale, da ultimo (senza scordare il successivo Decreto Dignità) [3] ha introdotto un nuovo sistema sanzionatorio in caso di pronuncia di illegittimità ed invalidità del licenziamento, limitatamente, come vedremo, ai rapporti di lavoro instauratisi a decorrere dal 07.03.2015 (data di entrata in vigore del Dlgs attuativo Jobs act n° 23/2015.

 

2)        sui presupposti sostanziali e formali di validità del licenziamento.

Analizzando i presupposti di validità dell’atto di recesso datoriale, essi si sostanziano nella necessaria presenza di requisiti di natura sia sostanziale che formale del relativo atto (lettera di licenziamento).

In merito ai requisiti di natura sostanziale, gli stessi, come anticipato, si traducono nella necessaria presenza di una causa giustificatrice del licenziamento, il quale, può avvenire esclusivamente in presenza di una giusta causa (art. 2119 c.c.) o di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3 Legge 604/1966).

La giusta causa, viene definita come quel comportamento del lavoratore così grave da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.

A differenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la giusta causa può consistere in comportamenti che non costituiscono necessariamente inadempimento degli obblighi contrattuali, ma che per la loro gravità sono comunque idonei a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario intercorrente tra le parti (si pensi a reati commessi nella vita privata che potrebbero anche ledere l’immagine dell’azienda).

Esempi tipici, fermo il fatto che non esiste un elenco tassativo delle fattispecie, sono la grave insubordinazione, il furto di beni aziendali, l’assenza ingiustificata, la falsificazione di documenti nonché ulteriori ipotesi connotate di particolare gravità.

Il giustificato motivo soggettivo[4] consiste, invece, in un notevole inadempimento contrattuale del lavoratore il quale pone in essere comportamenti colposi strettamente connessi all’attività lavorativa e, sebbene meno gravi di quelli costituenti giusta causa, comunque tali da evidenziare una mancanza di attitudine del lavoratore allo svolgimento delle mansioni.

Per la determinazione di tale nozione si fa di solito riferimento alla norma generale dell’art. 1455 c.c. la quale richiede, perché il contratto possa essere risolto, che l’inadempimento non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altro contraente.

A riguardo i CCNL svolgono un importante intervento integrativo del dettato legislativo, tipizzando alcune fattispecie di licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Il licenziamento per giustificato motivo “oggettivo”, invece, è rappresentato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”(art 3 legge 604/1966).

Vi rientrano tutte quelle situazioni aziendali che possono condurre alla soppressione di un posto di lavoro determinata da cause contingenti e imprevedibili quali una crisi di mercato nonché (ed è questo l’aspetto che tratteremo approfonditamente di seguito) scelte imprenditoriali concernenti le strategie produttive o organizzative (ad esempio l’automazione di un processo produttivo).

Vi rientrano, altresì, ulteriori specifiche fattispecie tra cui il licenziamento per inidoneità psichica o fisica del lavoratore e quello determinato dalla carcerazione del dipendente.

E’ importante sottolineare che nelle prime due ipotesi (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) si parla di “licenziamento disciplinare” per cui, uno dei suoi fondamentali presupposti di validità, questa volta sotto il profilo formale, è l’applicazione della procedura prevista dall’art. 7 della legge 300/1970, a pena di inefficacia.

Stessa conseguenza (inefficacia), sotto il profilo formale, si concretizza nell’ipotesi in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non indichi – nella lettera in cui esso è contenuto, da comunicarsi al lavoratore obbligatoriamente in forma scritta a pena anche in questo caso di inefficacia –  i motivi posti alla base dello stesso.

La forma scritta è richiesta dalla legge[5] per ogni tipologia di licenziamento.

L’atto di recesso datoriale comunicato al lavoratore in forma orale è “tamquam non esset ovvero è privo di qualsivoglia efficacia, con la conseguenza che il rapporto di lavoro continua ad ogni effetto di legge.

Affetto da nullità è, invece, il licenziamento intimato durante il periodo di gravidanza e puerpuerio, nonché il licenziamento discriminatorio, quello intimato per causa di matrimonio o maternità, o quello intimato per motivo illecito determinante o ritorsivo.

 

3)        sulle conseguenze nei casi di nullita’, illegittimita’ ed inefficacia del licenziamento.

Trattando nello specifico le conseguenze derivanti dalla declaratoria di nullità, invalidità o, più in generale, illegittimità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, si premette che per brevità espositiva ci si soffermerà sulla disciplina applicabile ai rapporti lavorativi sorti dopo il 07.03.2015 (data di entrata in vigore del Dlgs 23/2015)[6], atteso che, per i rapporti sorti prima, la disciplina applicabile è quella dell’art 18 Legge 300/1970 così come modificata dalla Legge Fornero [7], nonché quelle dell’art. 8 L. 604/1966.

Ciò posto, le conseguenze che scaturiscono nel caso di licenziamento viziato, si diversificano ex lege in relazione al numero dei dipendenti assunti dall’azienda al momento del licenziamento[8], con effetti più onerosi per il datore di lavoro il quale occupi alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti.

Ebbene, esaminando le conseguenze derivanti dalla declaratoria giudiziale di nullità, inefficacia o illegittimità, iniziamo la nostra analisi dalla prima.

Quando il licenziamento viene dichiarato dal Giudice adito nullo poichè discriminatorio o intimato in concomitanza con il matrimonio o per congedo di maternità, o per motivo illecito determinante, la sanzione è quella della nullità a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. La normativa si applica anche ai dirigenti[9]. Le conseguenze dell’accertamento della nullità del recesso sono [10] la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni spettanti dal licenziamento alla reintegra, dedotto quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative, in misura non inferiore comunque alle 5 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR e con versamento dei contributi previdenziali sulle somme erogate a titolo risarcitorio.

Stesse conseguenze si hanno, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, in caso di licenziamento inefficace poiché intimato in forma orale [11].

In merito, invece, al licenziamento illegittimo poiché ingiustificato, ossia, carente degli estremi del giustificato motivo oggettivo, soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto materiale contestato, nelle aziende con più di 15 dipendenti, il giudice è tenuto ad annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, con pagamento in favore dello stesso di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino al giorno dell’effettiva reintegra, dedotto l’aliunde perceptum nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso, l’indennità non potrà essere superiore alle 12 mensilità. Il datore di lavoro è altresì condannato al versamento dei relativi contributi previdenziali[12].

Nel caso in cui il giudice accerti, invece, che non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ma che comunque il fatto contestato sussiste, esso dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data del recesso e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità[13].

Quando il giustificato motivo oggettivo o soggettivo, nonché la giusta causa, mancano nelle aziende al di sotto della soglia dimensionale dei 16 dipendenti, il datore di lavoro è tenuto a pagare una indennità pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, moltiplicata per ogni anno di servizio, in misura comunque compresa tra un minimo di 3 ed un massimo di 6 mensilità[14].

In caso di licenziamento inefficace e quindi viziato perché intimato con violazioni formali degli obblighi procedimentali previsti dalla legge (violazione del requisito di motivazione[15] per il licenziamento per GMO e violazione del procedimento disciplinare previsto dall’art. 7 della legge 300/1970), nelle aziende con più di 15 dipendenti il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità di importo pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, moltiplicata per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.

Nelle aziende più piccole (meno di 16 dipendenti), invece, sempre ai sensi dell’art. 9 del Dlgs 23/2015, in caso di violazioni procedurali o di mancata indicazione (nella relativa lettera di comunicazione del recesso) del motivo del licenziamento per GMO, la sentenza dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 1/2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore comunque ad una mensilità e non superiore a 6.

Il d.lgs. n. 23/2015 prevede, infine, la sanzione della tutela reale piena (reintegrazione del lavoratore, indennità risarcitoria non inferiore a 5 mensilità, versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali) anche nei casi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge n. 68/1999).

Con riferimento ai licenziamenti collettivi per riduzione di personale, invece, la disciplina applicabile è quella della Legge 223/1991[16].

Si ricorda, infine, che ogni licenziamento (con l’eccezione di quello orale), a pena di decadenza, deve essere impugnato formalmente nel termine di giorni 60 dalla sua ricezione e che, nel successivo termine di 180 giorni, dovrà essere intrapresa la relativa azione giudiziale.

 

4) sul divieto di licenziamento disposto dalla normativa covid-19.

Completata la summa di tutte le ipotesi di licenziamento (con i limiti di analisi già sottolineati), prima di soffermarci sui più recenti risvolti giurisprudenziali in tema di risoluzione del rapporto per gmo, è necessario richiamare gli ultimi interventi normativi derivanti dall’emergenza epidemiologica Covid-19 che, proprio in merito alla fattispecie di risoluzione in parola, hanno imposto un vero e proprio divieto (seppur temporaneo) di procedere al licenziamento.

Ci si riferisce all’art. 80 del decreto rilancio[17], secondo cui, a decorrere dalla data del 17 marzo 2020, (data di entrata in vigore del citato d.l. n°18/2020), è precluso, per il periodo di 5 mesi, l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991 n. 223 (norma che regola come detto i licenziamenti collettivi).

Nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020.

L’art. 46 del d.l. 18/2020, prevede, inoltre, il divieto per il datore di lavoro di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/1966[18]. Divieto imposto, per il medesimo termine di 5 mesi (dunque sino al 17 agosto 2020), indipendentemente dal numero dei dipendenti.

Per lo stesso termine è disposta, infine, la sospensione delle procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge 604/1966.

La violazione di tale divieto, comporterebbe inevitabilmente la nullità del licenziamento per violazione di legge.

Quanto alla Naspi, secondo le indicazioni dell’Inps, il lavoratore percepirebbe comunque la relativa indennità che andrebbe, invece, restituita in caso di declaratoria giudiziale di nullità del licenziamento.

Fermi i dubbi interpretativi in ordine alla portata estensiva della normativa in analisi, rimangono esclusi dal divieto di licenziamento i lavoratori assunti in prova, i lavoratori che hanno raggiunto i requisiti per il pensionamento, i lavoratori domestici e gli apprendisti in relazione ai quali, al termine dell’apprendistato, il datore di lavoro ha esercitato la facoltà di recedere dal rapporto[19], i lavoratori per cui è possibile procedere con un licenziamento ad nutum.

Si sottraggono, inoltre, al divieto di licenziamento i licenziamenti collettivi per cambio appalto (non quelli individuali), i licenziamenti disciplinari ed i licenziamenti per superamento del periodo di comporto.

Quanto, infine, ai licenziamenti per inidoneità psichica o fisica del lavoratore, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con nota del 24.06.2020 n° 298, ha specificato che anch’essi rientrano nel divieto di licenziamento.

Ma tale interpretazione, pare non condivisibile alla luce della ratio del divieto di licenziamento, la cui finalità è quella di impedire al datore di lavoro di licenziare i propri dipendenti in virtù della inevitabile crisi economica derivante dalla pandemia, in ragione della quale l’azione governativa ha predisposto tutti i sussidi necessari al mantenimento dei posti di lavoro.

Non sarebbe temerario, pertanto, discutere in sede giudiziaria della legittimità di un licenziamento irrogato, nel periodo di vigenza del divieto, per inidoneità alla mansione del lavoratore, fermo restante l’obbligo di repechage.

 

5) il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni dirette ad una maggiore redditività dell’attività d’impresa.

Fermo il divieto (come detto, temporaneo) di licenziamento poc’anzi esposto, la trattazione dell’istituto del licenziamento per gmo, può ora concludersi con l’analisi di un importante orientamento giurisprudenziale creatosi, in merito, negli ultimi anni.

Ci si riferisce, all’uopo, alla Sentenza della Corte di Cassazione, la n° 25201/2016.  Essa richiama un orientamento giurisprudenziale prima minoritario ma ora sapientemente avvalorato dalla citata pronuncia.

Tale orientamento consistente nel ritenere sufficiente, ai fini della legittimità di un licenziamento per GMO, la sussistenza di ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, “tra le quali non possono essere aprioristicamente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva dell’azienda, ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa”.

La pronuncia evidenzia un notevole cambiamento rispetto a quell’orientamento giurisprudenziale, sino a prima maggioritario, che restringeva il licenziamento per GMO alle sole ipotesi determinate da situazioni di crisi contingente dell’attività d’impresa, o comunque scaturite da situazioni di mercato sfavorevoli, con conseguente calo dei profitti (spesso i magistrati invocavano all’uopo l’esibizione dei bilanci d’impresa) e possibilità per l’imprenditore, legittimata solo da queste strettissime ipotesi, di procedere ad una riduzione della manodopera.

Invero, attraverso un’esegesi testuale dell’art 3 L. 604/1966, la Corte definisce ora ultronea la pretesa secondo cui, per ritenersi legittimo, un licenziamento per giustificato motivo debba per forza fondarsi su una situazione di crisi economica, potendo invece essere sufficiente che la scelta imprenditoriale causativa della soppressione del posto di lavoro, sia fondata su esigenze connotate da obbiettivi di razionalizzazione e miglioramento del profitto, sempre che detta scelta non sia meramente pretestuosa e strumentale alla semplice soppressione del posto stesso.

Sostenere il contrario, secondo quanto tracciato dalla sentenza in argomento, verrebbe a contraddire il principio sancito dall’art 41 della Costituzione, in virtù del quale, le ragioni del processo di riorganizzazione aziendale, la cui individuazione rientra nell’ambito delle scelte imprenditoriali di libera iniziativa economica rimesse alla valutazione del datore di lavoro, realizzano il giustificato motivo oggettivo di licenziamento[20].

Tale lettura è stata criticata da una parte della dottrina in quanto eccessivamente protesa a tutelare le esigenze imprenditoriali rispetto al diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Ma in realtà, la stessa pronuncia risulta illuminante sotto il profilo logico/sistematico in quanto dà conto, da un lato di precedenti conformi della stessa Corte[21], dall’altro dei principi costituzionali consolidati.

Al Giudice, in conclusione, competerebbe solo il controllo sula reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, senza poter però sindacare sui profili di congruità ed opportunità della decisione imprenditoriale, sempre che risulti (quale aspetto da non trascurare assolutamente) l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato[22].

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Note

[1] Sia per le dimissioni che per la risoluzione consensuale, il nostro ordinamento, al fine di combattere il fenomeno delle “dimissioni in bianco”, ha introdotto dapprima con Legge n.92/2012 (Legge Fornero) e poi con il Dlgs 151/2015 (decreto attuativo del Jobs Act), l’obbligo di convalida delle dette manifestazioni di volontà da esercitarsi, a pena di invalidità, solo ed esclusivamente con forma telematica attraverso moduli che vengono trasmessi via pec al datore di lavoro ed al Ministero del Lavoro, secondo le indicazioni  fornite dallo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

[2] Ghera, DIRITTO DEL LAVORO – Il rapporto di lavoro, Cacucci Editore, Bari – 2006.

[3] Cfr D.L. 12 luglio 2018 n°87, convertito con modificazioni nella Legge 9 agosto 2018 n° 96.

[4] Cfr sempre art 3 Legge 604/1966.

[5] Art 2 Legge 604/1966.

[6] Cfr. Dlgs n° 23/2015.

[7] Cfr. Legge 28 giugno 2012 n° 92.

[8] Cfr. art 9 Dlgs 23/2015.

[9] La risoluzione del rapporto dei dirigenti, fatta eccezione per i casi di nullità del recesso, ha carattere peculiare rispetto a quella delle altre tipologie di lavoratori subordinati, vigendo, per i primi, la regola del recesso ad nutum dal contratto a tempo indeterminato (no da quello a tempo determinato per il quale è obbligatoria la sussistenza della giusta causa), salvo il preavviso e comunque salva anche la disciplina in tema di “giustificatezza” del licenziamento prevista dai CCNL, ove applicabili.

[10] Cfr art 2 Dlgs n. 23/2015 il quale è intervenuto sull’art. 18 dello Statuto del Lavoratori.

[11] Cfr art. 18 comma 1 Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).

[12] Si sottolinea, vista la specificità del presente contributo con riferimento al licenziamento per GMO, che nel caso dovesse trattarsi di una declaratoria di illegittimità di licenziamento in materia di rapporto di lavoro sorto prima dell’entrata in vigore del Jobs Act (dunque prima del 6 marzo 2015), le conseguenze in caso di “manifesta infondatezza del motivo oggettivo” apposto a fondamento del licenziamento, potrebbero consistere nella tutela reale piena atteso che il giudice, ai sensi dell’art. 18 comma 7 L. 300/1970, potrebbe disporre la reitegrazione in servizio del lavoratore ed il pagamento di tutte le retribuzioni sino a quel momento maturate.

[13] La Corte Costituzionale, con sentenza n° 194/2018, ha dichiarato l’illegittimità del comma 2 dell’art 3 Dlgs 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio”.

[14] Cfr. art 9 Dlgs 23/2015.

[15] Cfr. art. 2 comma 2 della Legge 604/1966.

[16] Si ha licenziamento collettivo e, dunque, applicazione della specifica disciplina di cui alla L. 223/1991, nel momento in cui il datore di lavoro, occupa alle proprie dipendenze, al momento del licenziamento, più di 15 dipendenti, ed effettua almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, riconducibili tutti alla medesima riduzione o trasformazione di attività lavorativa.

[17] Art. 80 Decreto Legge 19.05.2020 n° 34 convertito in Legge 17.07.2020 n° 77, il quale modifica l’art 46 del Decreto Legge (Cura Italia) n° 18/2020.

[18] Si discute ad oggi su una possibile proroga del divieto, addirittura sino a dicembre 2020.

[19] Art. 42 comma 4 del Dlgs 81/2015.

[20] Cfr Cass., Sez. Lav., Sent. n°11010/2016.

[21] Cfr Cass., Sez. Lav. Sent. n° 9310/2001 e 5777/2003.

[22] Cfr. Cass., Sez. Lav. 21121/2004; Trib. di Taranto, Sez. Lav., Sent n° 426/2020.

Simone Spinelli

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