IL CASO
Le Poste Italiane s.p.a. presentavano ricorso al Giudice del Lavoro di Milano affinchè accertasse la legittimità della sanzione disciplinare irrogata al lavoratore L.M. per avere offeso ed aggredito alcune colleghe di lavoro.
A seguito della soccombenza, il dipendente proponeva gravame dinanzi alla Corte di Appello milanese, la quale con sentenza del 24.05.2010, accoglieva l’appello, sulla base dell’assunto che la sanzione irrogata fosse eccessiva e che , dunque, il datore dovesse provvedere a rideterminarla.
Le Poste, tuttavia, proponevano ricorso per Cassazione, articolato in due motivi.
Con il primo si lamentava la violazione degli artt. 2104 e 2106 c.c. e art. 56 c.c.n.l..
Il lavoratore, infatti, aveva rivolto frasi ingiuriose e minacciose alle colleghe, così da non consentire lo svolgimento delle operazioni cui esse erano addette, attuando una condotta lesiva dei principi codicistici e di quelli codificati nel ccnl.
Con il secondo motivo, le Poste lamentavano una carenza di motivazione, non avendo, la Corte territoriale rideterminato la minore sanzione da irrogare al dipendente in virtù della sproporzione accertata.
IL COMMENTO
Il caso in esame affronta un tema particolarmente interessante che attiene all’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, previsto e disciplinato nell’art. 2106 c.c.
Questa forma di potere, secondo costante dottrina, costituisce diretta promanazione della superiorità dell’imprenditore.
L’esercizio del potere disciplinare è connesso all’inadempimento, da parte del dipendente, della prestazione lavorativa sotto il profilo tanto della diligenza quanto dell’obbedienza.
Pertanto, è legittimamente esercitato solo se volto a sanzionare la violazione di un obbligo del lavoratore derivante dal contratto di lavoro. È evidente, dunque, che vige una stretta interconnessione tra l’art. 2106 c.c. e gli artt. 2104 e 2105 c.c.
Dalla formulazione letterale dell’art. 2106 c.c. si ricava un altro importante principio, la proporzionalità tra l’entità della violazione e la sanzione irrogata.
A compiere, rectius, ad effettuare un bilanciamento tra questi parametri, è l’imprenditore, il quale, tuttavia, deve agire considerando da un lato il diritto al lavoro del dipendente tutelato dall’art. 4 Cost. e dall’altro l’interesse del datore tutelato dall’art. 41 Cost.
Pertanto, all’atto dell’irrogazione della sanzione disciplinare, l’imprenditore deve valutare la gravità del fatto contestato, senza omettere di considerare, altresì, tutte le circostanze soggettive ed oggettive che hanno connotato il modus agendi oggetto di contestazione.
Sulla base di tale assunto di matrice squisitamente dottrinale, la Suprema Corte con la sentenza in esame, ha statuito il principio in base al quale, il potere di infliggere le sanzioni disciplinare rientra nella discrezionalità imprenditoriale, in quanto riconducibile all’art. 2086 c.c. e all’art. 41 Cost.
Alla luce di siffatte ragioni, il giudice di merito non può convertire la sanzione inflitta in altra meno grave, sebbene adito da parte del datore di lavoro per la conferma della stessa.
Nello specifico, il lavoratore L. si è rivolto ad un collega utilizzando frasi minacciose, ma non offensive, e tale vicenda è stata segnalata al datore di lavoro mediante un esposto di altre due dipendenti.
La Suprema Corte, confermando la sentenza del giudice del gravame, che ha ritenuto sussistente l’inadempimento ma sproporzionata la sanzione, soprattutto in quanto l’esposto presentato dalle altre dipendenti non riguardava queste ultime bensì “un terzo dipendente”, ha sostenuto che il principio di proporzionalità è frutto di valutazioni di merito e, dunque, è incensurabile in sede di legittimità.
Conclude, pertanto la Suprema Corte, che anche nel caso in cui il giudice sia stato adito da parte del datore di lavoro per la conferma della sanzione disciplinare, non può tramutarla in altra meno grave, proprio perché il potere di irrogare le sanzioni disciplinari è frutto della discrezionalità dell’imprenditore contemplata dalla legge e dalla Carta Costituzionale.
Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte dichiara inammissibili i due motivi, e rigetta il ricorso, nulla statuendo sulle spese di lite, non avendo controparte svolto attività difensiva.
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