Il demansionamento nell’impiego privato e la posizione della giurisprudenza

Sgueo Gianluca 13/12/07
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1. Introduzione – 2.1 Il problema del demansionamento nell’impiego privato – 2.2 La posizione della giurisprudenza – 2.3 La risarcibilità del danno da demansionamento – 2.4 La quantificazione del danno da demansionamento – 2.5 La nozione di professionalità dinamica elaborata dalla giurisprudenza – 3. Il demansionamento nell’impiego pubblico
 
1. Introduzione
Il tema del demansionamento nell’impiego privato e nell’impiego pubblico riveste grande interesse. Per comprenderne adeguatamente la portata è opportuno analizzare la giurisprudenza attraverso un breve approfondimento delle questioni problematiche inerenti le mansioni e le qualifiche di maggiore rilevanza[1].
Ciò, al fine di: anzitutto, ottenere un quadro completo della disciplina delle mansioni e delle qualifiche, che non si è determinata esclusivamente sulla base della normativa dettata dal legislatore ma frequentemente ha usufruito delle riflessioni svolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza[2]; inoltre, affinchè sia definitivamente chiaro che quella di cui si è trattato nel corso di questa ricerca è una delle materie più complesse tra quelle che riguardano il diritto delle relazioni lavorative.
È evidente che i problemi di natura interpretativa che riguardano la disciplina delle mansioni sono numerosi. Si è reso dunque opportuno, al fine di restringere il campo della ricerca, selezionare quelli che garantissero il raggiungimento dei due obiettivi appena enunciati, nel minore spazio possibile.
Questa è la ragione per la quale si è scelto di concentrarsi sul tema del demansionamento e sulle problematiche ad esso correlate correlate (vale a dire, ad esempio, quella dello svuotamento delle mansioni, della risarcibilità del relativo danno, etc.). Ovviamente, del problema si darà un quadro complessivo tanto all’interno dell’impiego privato quanto all’interno dell’impiego pubblico.
 
2.1 Il problema del demansionamento nell’impiego privato
Cominciamo la trattazione introducendo il tema del demansionamento nell’impiego privato. È bene premettere, infatti, che la disciplina codicistica di riferimento trova piena applicazione nelle aziende private mentre, all’interno della pubblica amministrazione, incontra alcuni limiti significativi.
Ebbene, la cosiddetta “dequalificazione” del lavoratore deriva da un esercizio illegittimo dello ius variandi da parte del datore di lavoro e costituisce pertanto una fattispecie più specifica rispetto a quella della violazione dell’obbligo dello stesso datore di lavore di rispettare il criterio dell’equivalenza nell’attribuzione di nuove mansioni. Si può dire che le due fattispecie (quella del demansionamento e quella dell’equivalenza delle mansioni) si pongono tra loro in un rapporto di continenza: le mansioni inferiori (che, si ricorda, sono vietate) sono sempre non “equivalenti” a quelle corrispondenti alla qualifica, mentre quelle non «equivalenti» non necessariamente sono anche inferiori.
Esistono, peraltro, due forme di demansionamento[3]. Si parla di “demansionamento quantitativo” per indicare la sottrazione illegittima da parte del datore di lavoro di alcune mansioni originariamente assegnate al lavoratore[4];
Si parla poi di “demansionamento qualitativo” per indicare quella fattispecie che comprende due ipotesi, ossia la diminuzione della rilevanza e della qualità professionale delle mansioni, oppure l’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte inizialmente.
 
Sempre in funzione di premessa bisogna ricordare che il problema del demansionamento nell’impiego privato (ed anche, nel rispetto delle differenze sussistenti, nell’impiego pubblico) è uno di quei problemi che ha risentito più da vicino delle evoluzioni subite dalla disciplina del lavoro negli ultimi anni.
Poiché, infatti, il concetto di demansionamento si lega alla costrizione nei confronti del lavoratore, tenuto allo svolgimento di mansioni diverse da quelle che gli competono, e generalmente inferiori, è evidente che la più immediata conseguenza che questo comporta (ed ha tradizionalmente comportato) è la lesione della dignità della persona, intesa come essere umano e come lavoratore[5].
Ma la conquista di migliori garanzie a tutela della dignità dell’individuo sul luogo di lavoro è stata il frutto di un lungo e tortuoso percorso che ha visto coinvolti, tra gli altri, anche l’istituto del demansionamento ed il suo riconoscimento da parte della giurisprudenza prima, e del legislatore poi.
Oggi si può ritenere consolidata nella giurisprudenza la nozione di dignità del lavoratore e la tutela che ad essa afferisce. Prendiamo, a titolo di esempio, la distinzione tra ciò che concerne la giustificazione del licenziamento e ciò che rende quest’ultimo offensivo della dignità del lavoratore o, come si dice, “ingiurioso”[6] . Sebbene si specifichi che affermare che un licenziamento è privo di una giusta causa o di un giustificato motivo (soggettivo) non significhi necessariamente giungere alla conclusione che quel licenziamento rappresenti anche un’offesa alla dignità del lavoratore, si afferma però che può essere ingiurioso anche un licenziamento legittimo e fornito di valida giustificazione quando risulti tuttavia lesivo della dignità del lavoratore[7]. Di conseguenza, grazie all’evoluzione giurisprudenziale in tal senso, i lavoratori hanno promosso giudizi non solo per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento – con tutte le conseguenze di legge – ma anche per ottenere il risarcimento dei danni che ritenevano di aver subito a vario titolo nel corso del rapporto o al termine dello stesso (ad esempio lamentanto proprio un danno da “demansionamento”, oppure un danno da mobbing, un danno esistenziale, etc)[8].
Quanto detto porta a due importanti conclusioni: anzitutto, l’attuale tutela dei lavoratori con riferimento al demansionamento costituisce il risultato di un lungo percorso intrapreso dalla giurisprudenza negli ultimi anni. Attualmente, poi, se da una parte la dignità del lavoratore ha ricevuto una tutela piena, dall’altra è evidente che restano aperti alcuni problemi. Per comprenderli bisogna analizzare anzitutto i passaggi principali lungo i quali si è articolata l’evoluzione giurisprudenziale e, successivamente, studiare i casi più interessanti.
 
2.2 L’evoluzione della giurisprudenza
Ciò chiarito, l’aspetto principale sul quale interrogarsi riguarda le posizioni che ha assunto la giurisprudenza con riguardo al tema dei limti all’esercitabilità da parte del datore di lavoro dello ius variandi.
Si tratta di una questione che sia i giudici di primo e secondo grado, sia la Corte di Cassazione, hanno avuto occasione di esaminare più volte, e non sempre pronunciandosi in modo uniforme[9]. Ne sono emersi i seguenti aspetti: anzitutto, è stato chiarito che lo ius variandi è soggetto a due limiti precisi: quello del rispetto dell’equivalenza tra vecchie e nuove mansioni e quello della assoluta irriducibilità della retribuzione[10]; in secondo luogo, è stato fatto presente che l’accertamento della violazione del divieto di dequalificazione del prestatore deve essere compiuto raffrontando le mansioni concretamente assegnategli con quelle proprie della sua qualifica, e verificando, quindi, l’eventuale minor contenuto professionale delle nuove rispetto alle precedenti[11]; in terzo luogo, nel tentare di selezionare la casistica di maggiore rilievo è stato posto in evidenza il fatto che l’esempio tipico di dequalificazione è quello della riduzione (quantitativa o qualitativa, come si è già avuto modo di spiegare) delle mansioni fino all’inutilizzazione, totale o parziale, della prestazione lavorativa del prestatore lasciato in condizioni di forzata inattività[12]; in quarto luogo, e soprattutto, nell’individuare i rimedi applicabili, la giurisprudenza ha chiarito che l’illegittima assegnazione di mansioni inferiori a quelle prima svolte non comporta per il lavoratore la reintegrazione nella precedente posizione lavorativa ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, bensì l’obbligo per il datore di lavoro di ripristinare la posizione di lavoro del prestatore. Ciò assegnandogli mansioni corrispondenti alla qualifica, anche se non necessariamente identiche a quelle precedentemente eseguite[13].
Questi sono stati i risultati principali cui è giunta la giurisprudenza. Ne sono derivate conseguenze di grande rilievo. In particolare, si è reso evidente il fatto che da un’illegittima dequalificazione possono derivare vari tipi di danno, solitamente ricompresi all’interno della macro-categoria del c.d. “danno da demansionamento”: in particolare, all’interno di questo, si potranno avere danni da mancata retribuzione, danni da perdita di chance di carriera o anche danni da impoverimento e mancato accrescimento del proprio bagaglio di competenze professionali.
Da un ingiustificato demansionamento, potrà, inoltre, derivare anche un danno non patrimoniale, che a sua volta potrà assumere i connotati del danno biologico, del danno da lesione dell’immagine e della dignità professionale o, più in generale, del danno non patrimoniale da lesione di diritti fondamentali della persona, costituzionalmente tutelati.
Peraltro, è stato osservato che, mentre il danno alla professionalità in senso lato discende dalla violazione dell’art. 2103 del codice civile, il danno alla persona del lavoratore viene solitamente fatto derivare dalla lesione dell’art. 2087 del codice civile, che ne tutela l’integrità fisica e la personalità morale, nonché dalla lesione degli articoli 1, 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, che tutelano la persona del lavoratore sotto molteplici aspetti[14].
 
2.3 La risarcibilità del danno da demansionamento
Si è appena detto che il danno da demansionamento è un danno risarcibile. Una simile affermazione, tuttavia, necessita di alcuni approfondimenti.
È necessario avere presente anzitutto che la giurisprudenza più recente ha affermato che il demansionamento non produce in sé un danno risarcibile ma che è invece necessario allegare e provare in giudizio[15] l’esistenza dello stesso.
Va detto poi, in secondo luogo, che ad interessarsi del problema non c’è stata soltanto la giurisdizione ordinaria, ma anche quella costituzionale. Ciò ad evidente dimostrazione della rilevante portata dell’istituto. La svolta all’orientamento giurisprudenziale, che tentennava in ordine alla riconoscibilità di un danno risarcibile, è arrivata proprio a seguito di una pronuncia della Corte costituzionale, e più precisamente con la sentenza n. 113 del 6 aprile 2004, che ha contribuito in modo rilevante a porre fine al “tormento” sulla qualificazione del danno da demansionamento[16]
Grazie all’intervento della Corte costituzionale è oggi possibile sostenere che: non può esserci dubbio sul fatto che l’assegnazione a mansioni inferiori o la costrizione all’inattività lavorativa possano anzitutto produrre danni alla sfera psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale; né, si è aggiunto, può escludersi che quel medesimo comportamento possa dirigersi a colpire ulteriori e diversi beni meritevoli di protezione: da una lato, la frustrazione delle aspettative di crescita professionale del lavoratore (che può individuarsi in una perdita o in una diminuizione delle conoscenze teoriche o delle capacità pratiche e che può tradursi in un danno patrimoniale) e, dall’altro, la lesione della dignità della persona che lavora che trova la sua traccia normativa nella tutela della personalità morale ex art. 2087 del codice civile e che può tradursi in un danno non patrimoniale[17].
 
2.3 La quantificazione del danno da demansionamento
Dunque, come si è detto poc’anzi, la giurisprudenza maggioritaria riconosce oggi la risarcibilità del danno da demansionamento, grazie all’intervento della Corte costituzionale, che ha posto fine ad un annoso dibattito. Questo risultato non vale però, da solo, a risolvere il problema del danno da demansionamento. Va detto, infatti, che si discute lungamente anche sulla quantificazione dell’importo che deve avere questo danno.
Esistono, anche qui, alcune pronunce che possono valere a chiarire in le modalità con le quali la giurisprudenza ha inteso risolvere il problema. C’è un caso in particolare, risolto dalla Corte di Cassazione, che illustra perfettamente la questione: il caso riguarda un lavoratore che ha citato in giudizio il datore di lavoro per vederlo condannato, per illegittima dequalificazione, al risarcimento del conseguente danno, anche morale. Accertata dal giudice la dequalificazione (per un periodo però inferiore a quello lamentato dal ricorrente), la società convenuta è condannata in primo grado al risarcimento del danno per lesione della professionalità, con esclusione, tuttavia, del preteso danno morale.
Tale pronuncia viene impugnata dal solo lavoratore lungo due fronti: per un verso, egli insiste per il riconoscimento di un più ampio periodo di demansionamento; per altro verso, chiede una più elevata misura del risarcimento. Il secondo grado di giudizio – pur confermando, relativamente alla durata del demansionamento, i limiti temporali già accertati dal giudice di prime cure – accoglie il ricorso del lavoratore in ordine all’entità del risarcimento, determinandola in relazione alla durata del declassamento, alla qualifica del ricorrente ed alla sua anzianità di servizio.
Ricorrono allora per ottenere la cassazione della sentenza d’appello sia la società datrice di lavoro che il lavoratore: la prima, per lamentare la mancata puntuale motivazione sugli elementi probatori forniti dalle parti, in base ai quali il Tribunale ha operato la quantificazione del danno. Il secondo, invece lamentando aspetti processuali: in ordine al mancato riconoscimento della dequalificazione per un periodo superiore a quello giudizialmente accertato, il lavoratore lamenta infatti violazione degli articoli 115, 132, al numero 4, e 345 del codice di procedura civile. Egli sostiene infatti che vi sia stato il mancato richiamo in sentenza delle dichiarazioni di alcune risultanze istruttorie.
Il tema più discusso da parte dei giudici della Cassazione riguarda proprio la liquidazione del danno[18]. Al riguardo, nella sentenza la Suprema Corte afferma che il danno da dequalificazione può eventualmente essere liquidato in via equitativa, sempreché ne sia provata l’esistenza.
In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 del codice civile – prosegue la Cassazione – il giudice di merito può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, seguendo un processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, e basandosi sugli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto, e con apprezzamento di fatto incensurabile in Cassazione, se adeguatamente motivato.
Quella appena riportata è, ovviamente, solo una delle numerose sentenze che hanno affermato, da un lato, la quantificabilità del danno da demansionamento e, dall’altro, hanno fornito dei criteri pratici per operare tale quantificazione. Benchè dunque le decisioni della Cassazione non abbiano valore vincolante per i giudici che si trovino a giudicare di casi simili, è evidente che la posizione della Suprema Corte vale ad inaugurare un orientamento di maggioranza. Non si può tuttavia dimenticare, in conclusione, che pur essendo questa la posizione della giurisprudenza prevalente, esistono comunque numerose pronunce di stampo differente. Queste, non solo contribuiscono a rendere la questione particolarmente complessa[19] ma arricchiscono anche lo spettro delle problematiche che un giudice incontra quando è chiamato a rilevare e risarcire un danno da demansionamento.
 
2.4 La nozione di professionalità dinamica elaborata dalla giurisprudenza
Cocnlusa la disamina dei problemi relativi al risarcimento del danno da demansionamento, restando in tema può essere interessante analizzare la possibilità per il datore di lavoro privato di esercitare lo ius variandi sul lavoratore. Esistono infatti alcune pronunce giurisprudenziali che, appunto al fine di risolvere questo problema, hanno elaborato il concetto di “professionalità dinamica”.
Partiamo anche qui, come nel caso precedente, dallo studio di un caso concreto, al fine di desumerne riflessioni generali. Il caso che qui interessa esporre riguarda il ricorso proposto da una dipendente delle Poste Italiane s.p.a. per l’accertamento del demansionamento a fronte dell’assegnazione a mansioni di recapito, avendo sino a quel momento svolto mansioni di addetta allo sportello.
Il giudice di primo grado, accogliendo parzialmente il ricorso, ordina alla società la reintegrazione della lavoratrice nelle mansioni di addetta allo sportello, respingendo invece la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione[20]. Tale decisione veniva tuttavia riformata integralmente dal giudice d’appello, il quale rilevava come l’assunzione fosse avvenuta per lo svolgimento di mansioni rientranti nella cd. “Area Operativa”, a cui appartenevano sia quelle di sportello che quelle di recapito, rispetto alle quali la contrattazione collettiva aveva previsto, con apposita clausola di fungibilità, l’interscambiabilità.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione[21], chiamate a decidere la questione, ritenuta di particolare importanza ai sensi dell’art. 374, comma 2, del codice di procedura civile, hanno innanzi tutto ricordato come la garanzia dell’articolo 2103 del codice civile operi anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, per cui la sanzione della nullità dei patti contrari comminata dal secondo comma della norma ben può riguardare il contratto collettivo.
Il Supremo Collegio, tuttavia, ha evidenziato come le parti sociali, dopo aver accorpato certe mansioni nell’Area Operativa, avessero dettato una regola speciale nell’ambito della mobilità orizzontale da realizzarsi attraverso una clausola di fungibilità, ritenuta non contrastante con la previsione dell’articolo 2103 del codice civile. Ciò perchè la contrattazione collettiva può, secondo la Corte, “introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa”.
Nella situazione sottoposta all’esame della Corte, dunque, il contratto collettivo nazionale, dopo aver accorpato determinate mansioni nell’Area Operativa (ai sensi dell’articolo 43 del CCNL del 26 novembre 1994), ha previsto, attraverso la cosiddetta clausola di fungibilità (prevista dall’art. 46 del medesimo CCNL), una speciale ipotesi di “mobilità orizzontale”, attribuendo al datore di lavoro il potere di assegnare il dipendente alle diverse mansioni rientranti in tale area, benché subordinatamente alla sussistenza di necessità di servizio.
Ma, viene da chiedersi, qual è la compatibilità tra una simile clausola (e la previsione in esse contenuta) ed il rigido sistema codicistico?
Nel caso di specie, per sostenere la compatibilità di tale previsione con il rigido sistema delineato dall’art. 2103 del codice civile, le Sezioni Unite hanno fatto riferimento ad una delle ricordate eccezioni all’operatività della garanzia in questione. Si tratta precisamente di quella conseguente all’accettazione da parte del lavoratore di mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento, ritenendo possibile, nella prospettiva collettiva, individuare una fattispecie che si sottragga alla sanzione di nullità fissata dall’art. 2103.
In particolare, secondo la Corte, la dimensione individuale della garanzia, ispirata al favor lavoratoris, riguarderebbe essenzialmente il rapporto datore di lavoro-lavoratore, potendo quindi la dimensione collettiva “vedere, in una prospettiva diversa e più generale, il bilanciamento della sommatoria di tali garanzie individuali con le esigenze dell’impresa”[22].
In definitiva, se rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò, prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione che non violano la garanzia dell’art. 2103, ma che sono comunque con esso compatibili, potendo altresì prevedere percorsi formativi per creare questa professionalità potenziale e disciplinare il passaggio del prestatore, allorché abbia acquisito tale professionalità, verso queste nuove mansioni[23]. Con ogni evidenza, se si ragiona al di là dle caso concreto, emerge come la disciplina che vieta il demansionamento incontri alcuni limiti che sono giustificati, come in questo caso (ma ce ne sono altri) dalle esigenze organizzative del lavoro. Il problema, o la sfida, è piuttosto quella di cercare un giusto equilibrio tra i due estremi, senza difendere a spada tratta la posizione del lavoratore (evitando quindi che si trasformi in un privilegio, anziché un diritto) ma impedendo anche che il datore di lavoro possa in qualsiasi momento argomentare ipotetiche ristrutturazioni di organico per giustificare l’adibizione a mansioni inferiori.
 
 


[1] Che abbiano interessato, in altre parole, tanto i giudici quanto gli studiosi del diritto e presentino aspetti controversi tuttora oggetto di discussione.
[2] Come spesso accade, infatti, la disciplina di un istituto giuridico è il frutto tanto della normativa di principio quanto, soprattutto, della sua applicazione pratica.
[3] Ne parla Bonaccorsi F., I percorsi del danno non patrimoniale da demansionamento tra dottrina e giurisprudenza, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, IV, pagg. 839 ss., secondo il quale:Per demansionamento (o dequalificazione) si intende la sottrazione, da parte del datore di lavoro, di alcune delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore (c.d. demansionamento quantitativo), la diminuzione della rilevanza e della qualità professionale di tali mansioni, ovvero l’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte inizialmente (per queste ultime due ipotesi si parla di c.d. demansionamento qualitativo)”.
[4] Ecco perché si parla di quantità: il lavoratore si trova a svolgere mansioni quantitativamente inferiori a quelle a cui era originariamente adibito.
[5] Non sono tuttavia mancate, negli anni, serie polemiche sulla questione, al punto che uno dei più noti giuslavoristi (Biagi M., Competitività e risorse umanre: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2001, III, pagg. 357 ss.) sostenne che: “Appare senz’altro necessario dotare la norma giuridica in materia di lavoro di un’inderogabilità non solo migliorativa ma anche peggiorativa, riconoscendo che in talune situazioni i soggetti titolari del rapporto di lavoro possano pervenire ad una diversa definizione di interessi rispetto al modello prospettato in astratto dal legislatore. Ad esempio occorrerebbe abrogare la nullità dei patti (collettivi e individuali) che impedisce la flessibilità funzionale. Si tratta quindi, in particolare, di rivedere la norma dello Statuto dei lavoratori (art. 13) che inibisce l’esercizio dello jus variandi in pejus (assegnazione a mansioni inferiori del dipendente), anche quando il c.d. demansionamento avvenga non solo in presenza di un accordo tra le parti, ma anche nell’esclusivo interesse del lavoratore. L’attuale sistema di regolamentazione dello jus variandi, peraltro, è un classico esempio di come il quadro normativo di riferimento sia farraginoso e complesso, contribuendo così a creare non poche incertezze per le imprese e gli stessi lavoratori. Infatti, accanto al divieto generale di demansionamento anche in presenza di accordo tra le parti, esistono alcune ipotesi legali e tassative di deroga alla regola generale (ad esempio per la lavoratrice in stato di gravidanza, quando la mansione risulti pericolosa o nociva per la donna e/o il futuro nascituro; quale alternativa a un licenziamento collettivo, previa intesa con il sindacato), nonché alcune ulteriori ipotesi di deroga (sia alla regola generale sia al numero chiuso delle deroghe di legge), tipizzate, non senza incertezze e mutamenti di indirizzo interpretativo, dalla Cassazione (ad esempio, alternativa a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo)”.
[6] Tale è un licenziamento intimato con forme e modalità tali da ledere la dignità del lavoratore.
[7] Cfr. Albi P., Le pietre verbali: la dignità della persona al termine del rapporto di lavoro, in Giustiia civile, 2004, III, pag. 751: “Non vi è dunque un necessario legame giuridico tra le ragioni che hanno giustificato il licenziamento del lavoratore e il comportamento «ingiurioso» posto in essere dal datore di lavoro: la vicenda del licenziamento rappresenta solo l’occasione, certo frequente sul piano dell’applicazione giurisprudenziale, in cui si manifesta una condotta datoriale lesiva della dignità del lavoratore.
[8] Cfr. Albi P., Le pietre verbali: la dignità della persona al termine del rapporto di lavoro, in Giustiia civile, 2004, III, pag. 751: il rimedio risarcitorio sembra il meno adatto a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore.
[9] È bene peraltro ricordare il concetto di ius variandi. Lo fa Cattani M., Puntualizzazioni sullo ius variandi del datore di lavoro e sulla sua limitazione, desumibile dalle declaratorie contrattuali, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006, II, pag. 381: “Lo ius variandi consiste essenzialmente nel modificare le mansioni del prestatore, previamente assegnandogliene altre equivalenti, poiché è vietata – salvo che in casi eccezionali, come la sopravvenuta inidoneità del lavoratore, o esigenze aziendali straordinarie ed episodiche – l’assegnazione a mansioni inferiori alla qualifica. Trattasi di un esercizio privato, espressione di uno dei contenuti del potere di direzione del creditore della prestazione, che non richiede il consenso del lavoratore e che non è sindacabile sotto il profilo dell’opportunità, non potendo il Giudice, tra diverse soluzioni organizzative ragionevoli, determinare quella maggiormente idonea a soddisfare le esigenze dell’azienda”.
[10] cfr. Corte di Cassazione, 11 gennaio 1995, n. 276
[11] In merito, Corte di Cassazione, 4 agosto 2000, n. 10284; Corte di Cassazione, 10 agosto 1999, n. 8577, che ha precisato come il divieto di variazioni in peius opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza della mansioni vecchie e nuove, siano attribuite di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, che ne pregiudichino la competenza specifica e la professionalità.
[12] V. Corte di Cassazione, 4 ottobre 1995, n. 10405.
Nota, peraltro, Cattani M., Puntualizzazioni sullo ius variandi del datore di lavoro e sulla sua limitazione, desumibile dalle declaratorie contrattuali, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2006, II, pagg. 381 ss., che “una sottrazione di mansioni è stata talora ravvisata anche nel caso in cui un lavoratore, che in precedenza eseguiva da solo una determinata attività di elevato livello professionale, venga affiancato da un altro dipendente assegnatario delle medesime mansioni ma l’affiancamento, come è ovvio, non costituisce di per sé sottrazione di mansioni; o nell’ipotesi in cui siano pregiudicate le prospettive di progressione di carriera”.
[13] V. Corte di Cassazione 29 settembre 1998, n. 9734
[14] V. Bonaccorsi F., I percorsi del danno non patrimoniale da demansionamento tra dottrina e giurisprudenza, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, IV, pagg. 839 ss, per cui:Il danno da demansionamento è, quindi, una cornice unitaria, al cui interno possono confluire diversi pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, tutti accomunati dal fatto di derivare da un’illegittima condotta datoriale che, andando a ledere il combinato disposto degli artt. 2103 e 2087 c.c., fa sorgere una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro per inadempimento di un’obbligazione di non fare (non adibire, appunto, il lavoratore a mansioni inferiori)”.
[15] Si vedano, ad esempio, Corte di Cassazione, Sezione lavoro, 8 novembre 2003, n. 16792; Corte di Cassazione, Sezione lavoro, 4 giugno 2003, n. 8904; Corte di Cassazione, Sezione lavoro, 14 maggio 2002, n. 6992. Per il contrario orientamento secondo cui il demansionamento produce un danno risarcibile v. Corte di Cassazione, Sezione lavoro, 2 gennaio 2002, n. 10.
A tale proposito, si confronti anche quanto sostenuto da Albi P., Danno da demansionamento, responsabilità contrattuale e onere della prova, in Responsabilità civile e della previdenza, 2005, I, pag. 132: “I segnali di consapevolezza nel senso ora indicato emergono anche nella giurisprudenza di merito come certamente dimostra la sentenza in commento che, con chiara ed approfondita argomentazione, afferma che l’assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del livello contrattuale non determina per sé un danno risarcibile dovendosi dunque negare l’automatismo del risarcimento chiedendone la prova piena o almeno presuntiva”.
[16] Ne parla in modo approfondito Di Paola A., La Corte costituzionale e i danni da demansionamento, in Nuove leggi civili commentate, 2004, pagg. 831 ss.
[17] Rileva peraltro Albi P., Danno da demansionamento, responsabilità contrattuale e onere della prova, in Responsabilità civile e della previdenza, 2005, I, pag. 133: “In tutti i casi ora prospettati non appare possibile discostarsi dalle attuali regole processuali in materia di onere della prova e anche per quanto concerne la lesione della dignità e dunque il danno non patrimoniale non può accogliersi la concezione eventistica, giacché il danno subito dal lavoratore non può ritenersi provato per il solo fatto del demansionamento, dovendo questi allegare e provare tutti quegli elementi che consentano al giudice di accertare "un pregiudizio dipendente dalla lesione della dignità"
[18] Lo nota Corvino A., La quantificazione del danno da demansionamento, in Diritto delle relazioni industriali, 2005, I, pagg. 199 ss., il quale sostiene che: “Il tema, affrontato dalla Corte a seguito del gravame della datrice di lavoro, della liquidazione del danno derivante da demansionamento, è invece decisamente controverso”.
[19] V. Corvino A., La quantificazione del danno da demansionamento, in Diritto delle relazioni industriali, 2005, I, pagg. 199 ss
[20] Ecco appunto un esempio di opinione contraria alla risarcibilità del danno da demansionamento.
[21] Al riguardo sostiene Bertoncini M., La nuova nozione di personalità dinamica ai fini dell’esercizio dello isu variandi da parte del datore di lavoro, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, V, pagg. 1121 ss., che: “Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla compatibilità, con la previsione dell’art. 2103 c.c., della clausola di fungibilità contenuta nel contratto collettivo nazionale per i dipendenti delle poste del 26 novembre 1994 secondo cui nell’ambito delle Aree di base ed Operativa, nelle quali il contenuto di specializzazione funzionale non costituisce elemento ostativo, deve essere garantita, in presenza di necessità di servizio, la intercambiabilità del personale tra i vari settori operativi, salvo i limiti posti all’esercizio di mansioni tecniche”.
[22]Sulla scorta di tali considerazioni le Sezioni Unite pervengono alla conclusione secondo cui, qualora la contrattazione collettiva abbia collocato diverse mansioni nella medesima qualifica, il lavoratore ivi inquadrato “è idoneo e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso", attraverso "un meccanismo di fungibilità tra le mansioni di prima assegnazione e quelle successive che tenga conto delle esigenze aziendali in una necessaria prospettiva di temporaneità”.
Pertanto, muovendo da una dimensione collettiva dell’art. 2103 c.c., “le parti sociali possono farsi carico di un’esigenza collettiva di estrinsecazione della professionalità dei lavoratori inquadrati nella medesima qualifica", attenuandosi in tal modo quelle barriere che la norma pone "alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati nella stessa qualifica”.
[23] V. Bertoncini M., La nuova nozione di personalità dinamica ai fini dell’esercizio dello isu variandi da parte del datore di lavoro, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, V, pagg. 1121 ss: “La sentenza in esame si inserisce in maniera dirompente e coraggiosa nel panorama giurisprudenziale, introducendo un’ulteriore deroga ai limiti posti dall’art. 2103 c.c. all’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro.
Viene infatti riconosciuta validità alla clausola del contratto collettivo che prevede la intercambiabilità, per ragioni di servizio, del personale tra i vari settori operativi nell’ambito delle aree di base ed operativa in relazione alle diverse mansioni ad esse appartenenti. Nello specifico, è stata affermata la legittimità della adibizione a mansioni di recapito della dipendente che sino a quel momento aveva svolto mansioni di sportello, tenuto conto del fatto che costei si era obbligata, con la conclusione del contratto, a svolgerle entrambe promiscuamente od in via alternativa”.

Sgueo Gianluca

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