Il delitto di Brembate e il falso mito della prova scientifica

Calabrò Arles 27/03/17
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C’è almeno un elemento in comune tra i delitti di Via Poma, Cogne, Garlasco, Perugia e Brembate. Tutti hanno sollecitato l’esaltazione mediatica, alimentata, tra l’altro, dal falso mito della “certezza della prova scientifica”, attingibile attraverso un test asseritamente inoppugnabile onde individuare il colpevole: il test del DNA.

Le scienze accademiche (soprattutto la biologia molecolare e ora, le neuroscienze) sono sempre più protagoniste nelle aule dei Tribunali, non più nelle sole Corti Inglesi e Americane, ma, ormai, in quelle di tutti i Paesi civilizzati dell’Europa continentale.

Ciò premesso, in questa breve riflessione che ci si accinge a compiere, pare opportuno prendere le mosse dall’analisi di quello che potrebbe definirsi come una sorta di “bipolarismo processuale”.

In taluni casi giudiziari, esistono, infatti, perlomeno nel nostro Paese, due tipi, apparentemente ben distinti, di processo: il processo giurisdizionale penale, tipicamente inteso, ed il cd processo mediatico.

Il processo penale presuppone una serie di fasi procedimentali, un iter che porta all’emanazione di una sentenza, frutto di una logica sequenza, tale da escludere (almeno formalmente e in astratto) l’esistenza del ragionevole dubbio  (art. 533 c.p.p), in linea con il dettato dell’art. 111 Cost. (principio del giusto processo).

Oltre che sulle connotazioni spazio – temporali, che ne identificano la forma, sarebbe bene soffermarsi, al fine di un utile confronto con il processo mediatico, anche su alcuni elementi chiave dell’essenza processual-penalistica: 1. la decisione si fonda sulla selezione dei dati; 2. esistono criteri di valutazione supportati eventualmente anche da perizie; 3. la conoscenza è funzionale all’esercizio del potere punitivo; 4. si basa su una logica di tipo accusatorio, nella quale il giudice ha un ruolo neutrale e l’onere della prova grava sull’accusatore.

Il processo mediatico, per converso, si pone agli antipodi, nonchè in assoluto contrasto con il garantismo giurisdizionale dianzi evidenziato: 1. la “decisione” non si fonda su alcun tipo di selezione dei dati; 2. gli unici “criteri” di valutazione sembrano essere da un lato l’intuizione e l’emotività dell’opinionista di turno (ovviamente, non supportate da alcuna perizia tecnico scientifica) e dall’altro una poco approfondita conoscenza dei principi giuridici informanti il nostro ordinamento giuridico, nonchè una lacunosa o, talvolta, pressochè inesistente conoscenza delle “carte processuali” relative al caso di cui si discute; 3. l’informazione, in tali processi mediatici, appare funzionale ad indurre un convincimento collettivo (di massa) sulle asserite responsabilità del prevenuto di turno; 4. si basa su una logica di tipo inquisitorio, nella quale la figura dell’accusatore e quella del giudice si fondono in un unico soggetto: l’opinionista, la cui unica fonte informativa pare essere rappresentata dalle “veline”, acquisite, tramite le ormai note modalità, dai sempre più dinamici ed estrosi inviati giornalistici e televisivi.

Tale impostazione del processo mediatico lascia trasparire la sua essenza tutt’altro che garantista. Le (apparenti) significative differenze tra i due sistemi rimangono inalterate e costanti all’interno di un usuale contesto di esaltazione mediatica, le cui risultanze, però, appaiono sempre più spesso suscettibili di influenzare il giudizio delle Corti di Assise, perlomeno quello dei giudici non togati (basti volgere lo sguardo, a mò di esempio, ad una recente, famigerata e molto nota sentenza di condanna, nella quale, il giudice estensore, lungo il cammino del proprio percorso argomentativo, cita, in diverse occasioni e tra lo stupore degli attoniti lettori, due noti programmi televisivi che si occupano settimanalmente di cronaca nera, quasi a voler testimoniare questo inesorabile – ma assolutamente non accettabile – connubio tra risultanze popolar-mediatiche e successive dinamiche procedimentali).

Ora, è chiaro che questo meccanismo, per fortuna, non si innesta spesso nelle nostre aule di giustizia, così come è altrettanto certo che il magistrato giudicante adotti sempre le proprie decisioni con la dovuta distanza, freddezza e obiettività, ma, sarebbe comunque auspicabile, che, anche nei processi ad alta attenzione mediatiaca, il magistrato potesse sempre pervenire all’adozione delle proprie pronunce in un clima molto più disteso, sereno e non “sentendosi alle spalle” una sempre più accresciuta e a tratti devastante responsabilità di giudizio.

Bene, dopo questa breve panoramica in ordine alle connotazioni dell’attuale processo new-age di stampo processual-mediatico, e venendo ora al delitto di Brembate, previo esame delle due ordinanze adottate dal GIP di Bergamo, di alcuni atti difensivi, nonché dell’ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia e della sentenza del Tribunale di Bergamo, sembra il caso di spendere alcune brevissime riflessioni (anche se, ovviamente, in termini del tutto generali e astratte, senza entrare nel merito del processo,  anche perchè, allo stato, non è ancora pervenuta alcuna sentenza passata in giudicata, ma si è in attesa di celebrare la fase di Appello del giudizio di merito, innazni alla Corte di Assise e di Appello di Brescia).

A tal fine, pare di poter affermare, senza particolari problemi di sorta, come l’odierno imputato, allo stato attuale, sia ristretto in stato di custodia cautelare senza che nei suoi confronti vi siano indizi plurimi e gravi: sono gli stessi magistrati del Tribunale del Riesame di Brescia ad evidenziare come l’unico elemento indiziante a carico del prevenuto sia rappresentato dalle tracce biologiche rinvenute sugli indumenti della vittima. Ulteriori significativi elementi probatori, pare concordino gli stessi magistrati,  sembra non ve ne siano.

Ciononostante, evidenziano gli stessi giudici, tale elemento (anche se non accompagnato da ulteriori indizi di colpevolezza) acquisirebbe ex se un valore probatorio tale da consentire l’adozione di una misura intramuraria nei confronti dell’imputato.

A tal proposito, a parere di chi scrive, pare possa ravvisarsi un’ incongruenza sottesa ad una siffatta suggestione: sembra pacifico, in giurisprudenza, come, ex art 273, primo comma, c.p.p., un solo indizio di colpevolezza non sia di per se sufficiente all’adozione di una misura cautelare, a fortiori, di carattere custodiale. Secondo l’impostazione comunque maggioritaria è necessario, infatti, che gli indizi siano plurimi e gravi (non vi è unanimità di vedute sugli ulteriori requisiti della precisione e della concordanza), non potendosi ridurre la piattaforma indiziaria ad un unico elemento, ancorchè lo si ritenga fortemente indiziario. Non pare acquisire particolare pregio, inoltre, l’assunto in base al quale una qualsivoglia traccia biologica rinvenuta in una determinata “scena criminis” avrebbe valore di prova e non di mero indizio. Ed infatti, non solo tale distinzione, nell’ambito delle “procedure de libertate”, non pare possa assumere alcuna pregnanza specifica (l’art 273, primo comma, c.p.p., prescrivendo che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”, non consente di operare distinzioni di sorta tra elementi di prova ed elementi indizianti: è sempre necessario, quindi, che tali elementi probatori siano plurimi e gravi) ma, inoltre, come è noto, nella fase delle indagini preliminari – a meno che non si proceda mediante incidente probatorio – è improprio, nonchè inopportuno, parlare di prove. Nel nostro ordinamento processual-penalistico di stampo accusatorio, le prove si formano in contraddittorio, in presenza di tutte le parti processuali (nonchè dei rispettivi eventuali consulenti tecnici). In un processo equo e giusto, le garanzie fornite dal contraddittorio non possono e non devono essere sacrificate, se non in casi del tutto eccezionali e nelle sole ipotesi previste dalla legge. Solo il metodo dialettico, infatti, consente di apprezzare la bontà, la trasparenza, la linearità, la limpidezza e la correttezza del metodo acquisitivo. Come è risaputo, anche gli accertamenti tecnici non ripetibili, ex art 360 c.p.p., devono potersi svolgere in contraddittorio e le parti devono necessariamente essere notiziate in ordine al giorno, all’ora e al luogo fissati per il conferimento dell’incarico. Le parti, dal loro canto, hanno la possibilità di nominare propri consulenti tecnici, nonchè il diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve. Solo tale avviso, ex art 360 e art 117 disp. att. c.p.p., consente di far in modo che le risultanze così acquisite, in base a quel determinato accertamento (non più ripetibile in fase dibattimentale), possano poi essere utilizzate anche ai fini dell’adozione di una sentenza di condanna.

In determinati casi, è soprattutto la presenza dei consulenti della persona offesa e dell’indagato a rappresentare, un’assoluta garanzia di trasparenza e di correttezza di tutte le operazioni compiute.

Ciò posto, va evidenziato come, alla stregua di un determinato filone giurisprudenziale, nella fase delle indagini preliminari, sia anche possibile che il PM, onde addivenire a determinati rilievi o accertamenti tecnici (ancorchè irripetibili), ex art 370 c.p.p., possa decidere di procedere mediante delega alla P.G. (si evidenzia, però, come in dottrina l’ orientamento in assoluto maggioritario, anche nei procedimenti contro ignoti, tenda a non ammettere che accertamenti di tale portata possano essere delegati alla P.G.: si assume come, ex art 360 CPP, debba essere sempre il PM a procedere personalmente, sia nei procedimenti contro ignoti, sia nei procedimenti in cui risultino esservi soggetti sottoposti ad indagine e che, pertanto, giammai tali accertamenti possano essere delegati, ex art 370 c.p.p.).

Ad ogni modo, in tale evenienza (cioè nell’eventualità in cui, ex art 370 c.p.p., l’accertamento tecnico irripetibile venga delegato alla P.G.), qualora nello stesso procedimento giudiziario vi siano soggetti sottoposti ad indagine, le risultanze di quel determinato accertamento non ripetibile, ancorchè ritenute utilizzabili nell’ambito delle indagini preliminari (nonchè in un eventuale giudizio abbreviato), pare non possano esserlo nell’eventuale fase dibattimentale: si tratta, infatti, di accertamenti o rilievi che, affinchè possano confluire nel fascicolo dibattimentale, devono necessariamente espletarsi con le garanzie di cui all’art 360 c.p.p. Sul punto, in letteratura, sembra vi sia concordanza di opinioni: possono essere delegati dal P.M. alla P.G. solo quelle attività a cui il difensore ha una mera facoltà di assistenza, senza però il diritto di essere avvisato (cioè quelle di cui all’art 356 c.p.p.); mentre, incidendo in misura maggiore sul diritto di difesa, non possono essere delegati quegli atti per cui il difensore ha diritto di essere avvisato, cioè quelli di cui all’art 360 c.p.p. Alla stregua di quanto evidenziato dalla dottrina maggioritaria (tra gli altri, Iandolo, Pisanelli, Giunchedi) e da una parte della giurisprudenza, tale distinzione trae origine dal fatto che i primi non richiedono una valutazione critica del materiale raccolto, differentemente dai secondi.

Pertanto, in base a tale orientamento, per quanto riguarda gli accertamenti tecnici non rinviabili e non ripetibili, entrando in gioco un potere discrezionale che non rientra nelle preogative della P.G., il P.M., anche nei procedimenti contro ignoti, deve comunque procedere personalmente all’acquisizione dell’elemento di prova, avvalendosi di un consulente, ex art 360 c.p.p. Deve rammentarsi, infatti, come nelle ipotesi dell’espletamento degli accertamenti non ripetibili, i risultati conseguiti vengano cristallizzati ed entrino – qualora siano rispettate le garanzie difensive che la norma assicura – nello scibile processuale.

In letteratura si sostiene, pertanto, (ex multis, Scalfati, Duraccio, Iandolo, Pisanelli, Giunchedi) come “sarebbe troppo” consentire che l’assunzione di una prova – e non di un mezzo di prova – sia devoluto non ad una parte processuale, ma ad un ausiliario, quale è la Polizia Giudiziaria.

A tal proposito, nei procedimenti in cui vi siano soggetti sottoposti ad indagine, basti pensare al potere di valutare se procedere o meno all’accertamento, di fronte alla riserva di promuovere incidente probatorio; potere che giammai potrebbe radicarsi in capo alla P.G., i cui compiti, come è noto, sono circoscritti ad atti a limitata discrezionalità, proprio per l’esigenza di arginare mandati eccessivamente ampi.

Bene, dopo questa breve premessa di carattere teorico e tornando al “delitto di Brembate”, si apprende dagli organi di stampa come il PM, in sede di udienza camerale dinanzi al Tribunale del Riesame di Brescia, abbia dichiarato che l’estrazione del materiale biologico dale tracce oggetto di indagine probabilmente non potrà più essere ripetuta e che, quindi, quell’accertamento tecnico posto in essere nell’anno 2011 sembra non possa essere più espeltato.

Appare di palmare evidenza, allora, come, in casi analoghi al caso di specie, si sia al cospetto di un elemento probatorio acquisito con modalità che non appaiono perfettamente in linea con le garanzie procedurali postulate dal codice di rito, ex art 360 c.p.p. e dei diritti appartenenti a tutte le parti coinvolte in un determinato procedimento giudiziario.

Si ribadisce, inoltre, come, secondo l’orientamento che appare maggioritario (anche in riferimento all’art 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo così come interpretato dalla Corte Europea), il PM, in linea generale, in tali circostaze, debba comunque procedere ex art 360 c.p.p. (anche ove il procedimento sia iscritto contro ignoti).

Ne discende come, in ogni caso, a parere di chi scrive, tale elemento probatorio, in tal fatta acquisito, ex art 191, primo comma, c.p.p., non dovrebbe considerarsi utilizzabile in fase dibattimentale.

In astratto, pare di poter affermare come teoricamente siano ricostruibili 5 scenari alternativi rispetto a quello che vede l’imputato coinvolto nel delito ascrittogli: 1) vi può essere stata una erronea modalità di repertazione, ciò vale a dire che, teoricamente, non si può escludere che gli investigatori, all’atto del sopralluogo, abbiano potuto raccogliere i reperti senza utilizzare i dovuti accorgimenti (guanti sterili ecc) e questo potrebbe aver determinato una contaminazione degli stessi reperti acquisiti; non sarebbe di certo un’eventualità del tutto inedita nel panorama investigativo nostrano (celebri sono, a tal proposito e a mero titolo esemplificativo, i casi “Sollecito”, “Via Poma”, “Pantani”); 2) in teoria, in casi analoghi, è anche ipotizzabile un’ erronea modalità di catalogazione e di conservazione dei reperti; 3) un errore durante le analisi di laboratorio per non aver adottato rigorose modalità operative. 4) ovvero un errore o eventuali contaminazioni durante la fase dell’estrazione. E’ noto, infatti, che il prelievo del materiale biologico da determinate tracce oggetto di indagine necessita di particolare destrezza, sin dalla fase della raccolta, ma anche del successivo confezionamento per il trasporto e la conservazione, in attesa delle richieste dall’Autorità giudiziaria. L’operatore preposto al prelievo, quindi, deve aver cura di non inquinare il materiale oggetto di prelievo e deve disporre pertanto di un equipaggiamento specific; 5) ma vi è di più. Ammesso che non vi siano stati errori o eventuali contaminazioni nelle fasi del sopralluogo, della repertazione, estrazione, conservazione, elaborazione e comparazione e che il DNA rinvenuto sia davvero appartenente all’ impuatato, può comunque, in linea generale e del tutto teorica, prospettarsi anche l’eventualità di un contatto indiretto (finanche di matrice dolosa) del materiale biologico da cui è stato ricavato il profilo genetico del prevenuto di turno.

E’ noto ai genetisti forensi come il fluido biologico possa trasferirsi sulla superficie o sul sub-strato non necessariamente attraverso contatto diretto, ma anche attraverso l’intervento di un mezzo esterno che può essere rappresentato da un individuo o da un oggetto. Tale intervento può essere di matrice dolosa o colposa.

Orbene, come sopra evidenziato, gli scenari alternativi, in astratto, possono essere diversi e tutti teoricamente ipotizzabili.

Ed ecco, allora, che tornano alla mente i preziosi insegnamenti delle autorevoli voci dottrinali (Federico Stella, Tonini, Marinucci, Dolcini, Mantovani, Fiandaca) che grande attenzione hanno dedicato al rapporto tra diritto e scienza, segnatamente al rapporto tra il dato statistico (emergente dalla legge scientifica di copertura rilevante nel caso concreto) e le ulteriori evidenze probatorie acquisite nel contraddittorio tra le parti: il dato scientifico – si assume – va sempre calato nella realtà processuale (o procedimentale) onde verificare che esso venga corroborato o frustrato dalle ulteriori emergenze processuali (o procedimentali) e che non vi siano interferenze di decorsi causali alternativi che possano spiegare razionalmente un determinato evento. Secondo l’impostazione in assoluto maggioritaria, fatta propria finanche dalla Cassazione a Sezioni Unite (“sentenza Franzese”) occorre, infatti, ragionare non solo in termini di probabilità statistica ma anche in termini di probabilità logica: il dato scientifico (nonché l’elemento indiziante da esso ricavato) da solo non può essere sufficiente e non può portare né ad una sentenza di condanna né, tanto meno, all’adozione di una misura custodiale, ma, a tal fine, deve essere sempre e comunque accompagnato da ulteriori elementi indiziari, in modo tale che si possa pervenire ad un giudizio di colpevolezza con alto grado di credibilità razionale e, quindi, al di la di ogni ragionevole dubbio.

Tali principi valgono a maggior ragione nella fase delle indagini preliminari e nelle “procedure de libertate”, soprattutto quando la piattaforma indiziaria appaia formata da un unico elemento (di natura scientifica) che dovrà ancora essere oggetto di “corroboration”, in contraddittorio tra le parti.

 

Milano, 17 marzo 2017

Calabrò Arles

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