Il controllo del giudice sulle cause di non punibilità in sede di patteggiamento

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SOMMARIO: 1. Il patteggiamento. – 2. La rilevanza delle nullità nella sentenza di proscioglimento. – 3. Non appellabilità della sentenza di patteggiamento per violazione dell’art. 129 c.p.p.

Il patteggiamento

Il patteggiamento è stato introdotto nel nostro ordinamento con l’intento di deflazionare la gran mole dei processi presenti presso le aule di giustizia nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo scandito dall’art. 111 comma 2 Cost. Il suo ingresso si concilia con la previsione dell’art. 111 comma 5 Cost. il quale consente una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova in presenza del consenso dell’imputato e comporta una certa disponibilità nell’accertamento della responsabilità.

In sostanza le parti, rinunciando a contestare le specifiche circostanze di fatto emerse dalle indagini, formulano la richiesta di patteggiamento. Tale richiesta può essere avanzata fino alla presentazione delle conclusioni nell’udienza preliminare (art. 446 comma 1 c.p.p.). Il giudice decide allo stato degli atti dopo aver accertato: se vi è il consenso di entrambe le parti, l’insussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., l’applicazione e la comparazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti, la congruità della pena concordata (art. 444 comma 2 c.p.p.). All’esito di tale valutazione, il giudice può: applicare la pena richiesta dalle parti; respingere la richiesta con ordinanza e ordinare il procedersi con rito ordinario; pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

Pertanto il patteggiamento si suddivide in due fasi: la prima è quella negoziale, in cui imputato e pubblico ministero di accordano sul quantum della pena; la seconda è quella giurisdizionale, in cui il giudice, sulla base degli atti, valuta se accordare o meno la richiesta della parti. Premesso che la richiesta di patteggiamento non postula alcuna ammissione di responsabilità[1], il profilo di negozialità stride con i doveri accertativi del giudice, e la sua compatibilità costituzionale è raggiunta solo con il bilanciamento della componente negoziale con quella giurisdizionale. Tale equilibrio risiede nel potere del giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. a seguito di concorde richiesta di patteggiamento, se sussiste la prova di innocenza.

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La rilevanza delle nullità nella sentenza di proscioglimento

Il secondo comma dell’art. 444 c.p.p. stabilisce che il compito del giudice è quello di accertare se sussistano le condizioni per il proscioglimento ex art. 129 c.p.p., prima di valutare la correttezza dell’accordo sull’applicazione della pena. L’art. 129 c.p.p. stabilisce espressamente i casi in cui l’imputato debba essere prosciolto d’ufficio in ogni stato e grado del processo: il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato, il fatto non è previsto dalla legge come reato, il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità. Nelle formule di proscioglimento l’assenza di responsabilità penale dell’imputato ha la precedenza sulle cause di estinzione del reato.

Il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. richiede espressamente una causa di non punibilità, e quindi evidenti prove di innocenza che dimostrino l’estraneità dell’imputato al fatto. Da ciò ne deriva che non è possibile un proscioglimento ex art. 129 c.p.p. in un quadro di prova mancante, insufficiente o contraddittoria ma è necessaria la prova positiva di innocenza dell’imputato. Tale regola di giudizio si contraddistingue rispetto a quella sancita dall’art. 530 comma 2 c.p.p. che si applica al proscioglimento in dibattimento: quest’ultima prevede l’assoluzione sia se vi sono prova di innocenza e sia in presenza di dubbio di reità. E’ facile intuire che la disciplina dell’assoluzione prevista per il dibattimento appena vista, in ragione della negozialità del patteggiamento, a tale procedimento non si applica.

Ciò posto, un’interessante questione in merito all’applicazione dell’art. 129 c.p.p., che è stata più volte affrontata dalla Suprema Corte, riguarda la possibilità per le parti di eccepire le nullità in sede di patteggiamento[2]. In merito, la giurisprudenza, sulla scia di una risalente pronuncia[3], nega tale possibilità. Il principio di diritto che viene di volta in volta richiamato è quello secondo cui la richiesta di patteggiamento postula la «rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato»[4], ciò in quanto «uno dei limiti accettati dai paciscenti è costituito proprio dalla rinuncia a contestare l’accusa […] in riferimento alle specifiche circostanze di fatto dedotte dall’imputazione»[5]. Tale principio affonda le sue radici in una sentenza della Corte Costituzionale (2 luglio 1990, n. 313) la quale afferma che la scelta processuale di applicazione della pena «implica la rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa mediante un atto dispositivo con cui l’interessato abdica ad esercitare il diritto alla prova». D’altronde la sentenza di patteggiamento non presuppone l’accertamento pieno e incondizionato dei fatti perché non dichiara la colpevolezza dell’imputato, perché fa solo riferimento all’accordo intervenuto tra le parti[6]. In altre parole tale sentenza non contiene un accertamento del reato e un giudizio di colpevolezza, stante il profilo negoziale che la caratterizza[7]. Ed è anche per tale motivo che nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dall’interessato non devono essere riportati i provvedimenti previsti dall’art. 445 c.p.p.[8] ed in ogni caso il reato si estingue se l’imputato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole entro i termini, rispettivamente, di cinque o due anni (art. 445 comma 2 c.p.p.).

Posto che le parti accettano gli elementi probatori acquisiti e quindi perdono il potere di eccepire qualsiasi eccezione in rito (tranne quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato), in ogni caso il giudice rimane titolare del potere di rilevare d’ufficio l’inutilizzabilità della prova ex art. 191, comma 2, c.p.p. in ogni stato e grado del procedimento.

Alla luce di quanto detto finora, però, le invalidità insanabili rilevate dal giudice, quali la dichiarazione di inutilizzabilità di una o più prove in sede di patteggiamento, in pochi casi risulteranno utili per la pronuncia di una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.. Difatti, il giudice che dichiara inutilizzabile una prova perché assunta in violazione di legge ex art. 191, comma 2 deve effettuare due considerazioni: se la prova dichiarata inutilizzabile è l’unica prova su cui si fonda l’intero capo di imputazione il giudice non potrà comunque prosciogliere per mancanza di prove perché l’art. 129 c.p.p. richiede la prova di innocenza; al contrario, se la prova dichiarata inutilizzabile è l’unica fra le prove a far dubitare sull’innocenza dell’imputato, il giudice deve prosciogliere ai sensi del 129 c.p.p. in base al quadro probatorio residuale dal quale risulta che l’imputato non lo ha commesso.

Non appellabilità sentenza di patteggiamento per violazione dell’art. 129 c.p.p.

La sentenza di patteggiamento è appellabile solo dall’accusa nel solo caso in cui il giudice ha applicato la pena su richiesta dell’imputato senza il consenso del pubblico ministero (art. 445 comma 2 c.p.p.), negli altri casi la sentenza è inappellabile in base al principio di tassatività delle impugnazioni. Inoltre, in base al principio di specialità, la ricorribilità per Cassazione di tali sentenze segue la disciplina dettata appositamente per tali casi dall’art. 448 comma 2bis c.p.p., e non quella generale di cui all’art. 606 c.p.p.

Ai sensi del nuovo comma 2bis dell’art. 448 c.p.p., introdotto dalla cd. Riforma Orlando (L. 103/2017) è possibile proporre ricorso per Cassazione avverso le sentenze di patteggiamento soltanto per motivi attinenti: l’espressione della volontà dell’imputato, il difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, l’erronea qualificazione giuridica del fatto, l’illegalità della pena o della misura di sicurezza. Tra tali motivi, come è evidente, non è ricompresa la violazione dell’art. 129 c.p.p.. In sostanza, l’esercizio o il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di accertare l’inesistenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. non è più sanzionabile con l’impugnazione. L’indirizzo giurisprudenziale prevalente, difatti, ritiene che i ricorsi proposti avverso le decisioni negoziate, al fine di censurare l’erronea o mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p. vadano dichiarati inammissibili “senza formalità di procedura” ex art. 610 comma 5bis c.p.p., essendo ritenute impugnazioni meramente dilatorie[9].

A seguito di tale manipolazione, il legislatore ha dunque provocato una rottura dell’equilibrio fra componente negoziale e giurisdizionale del patteggiamento a netto vantaggio della prima, in quanto non è più possibile in sede di legittimità il controllo sulla corretta applicazione dell’art. 129 c.p.p. effettuata dal giudice di merito. In altre parole, il giudice di merito è ancora tenuto a rilevare eventuali cause di non punibilità ex art. 444 comma 2 c.p.p. ma se non lo fa tale comportamento non è più censurabile in sede di impugnazione. In tal modo viene dato un rilievo preponderante alla negozialità dell’istituto, mettendo in secondo piano la funzione giurisdizionale del giudice. Pertanto, non essendo più sanzionabile la mancata o erronea applicazione dell’art. 129 c.p.p. ne consegue che le parti possono disporre della libertà personale in maniera quasi totale in violazione del principio costituzionale di indisponibilità della libertà personale (art. 13 comma 1 Cost.). La regola di indisponibilità della libertà personale è rafforzata, peraltro, dall’art. 111 comma 7 Cost. il quale stabilisce che «contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale […] è sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge». A seguito della riforma Orlando tale possibilità viene esclusa, anche perché non è più consentito neppure un controllo sulla motivazione, non essendo previsto dal nuovo comma 2bis dell’448 c.p.p.[10].

Note

[1] La Relazione al progetto preliminare del codice del 1988 esclude che la decisione del giudice sulla richiesta di patteggiamento possa risentire di «un positivo accertamento della responsabilità».

[2] v. FANULI L., Inutilizzabilità e nullità della prova, Giuffrè, 2004, p. 45 e ss.

[3] Cass. Sez. Un. (ud. 27/10/1999) del 03/12/1999, n. 20, in www.leggiditalia.it

[4] v. Cass. pen. Sez IV del 07/03/2019, n. 10081, in www.neldiritto.it. Cfr. Cass pen. Sez. V del 25/03/2010, n. 21287, Legari, Rv. 247539; conf. Cass. pen. Sez. II del 14/01/2019 n. 5240, non mass; Cass. pen. Sez II del 29/01/2008 n. 6383, De Blasio, Rv. 239449.

[5] Cass. Sez. Un. (ud. 27/10/1999) del 03/12/1999, n. 20 cit.

[6] v. Corte Cost., 06/06/1991, n. 251.

[7] v. Sez. Un. del 21/07/1998, Bosio, in Cass. Pen. 1999, p. 833, n. 300; Corte Cost. 11/12/1995, n. 499, G.U. prima serie speciale, n. 52 del 20/12/1995, p. 18.

[8] Art. 24, comma 1, lett. e), d.p.r. 14/12/2002, n. 313 (Testo unico del casellario giudiziale)

[9] v. Cass. pen. Sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 9206, in www.italgiure.giustizia.it ; Cass. pen., Sez. V, 27 febbraio 2018, n. 9006, ivi; Cass. pen., Sez. V, 9 febbraio 2018, n. 9776, ivi; Cass. pen., Sez. V, 24 gennaio 2018, n. 6577, in www.leggiditalia.it ; Cass. pen., Sez. V, 24 gennaio 2018, n. 6575, ivi; Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2018, n. 5536, ivi; Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2018, n. 3310, ivi; Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2018, n. 3103, ivi; Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2017, n. 2249, ivi.

[10] cfr. DELLA TORRE J., Ricorribilità delle sentenze di patteggiamento – patteggiamento e ricorribilità per violazione dell’art. 129 c.p.p. dopo la riforma Orlando, in Giur. It., 2018, 3, 741.

Emanuela Rodomonti

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