Il conflitto familiare all’interno dell’ordinamento giuridico italiano e le sue conseguenze penali

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Indice:

  1. Introduzione
  2. Il contenzioso familiare: linee generali
  3. I risvolti penali del contenzioso familiare
  4. Possibili tutele per le vittime di atti di violenza

Introduzione

L’art. 29 della Costituzione italiana definisce la famiglia come “una società naturale fondata sul matrimonio” ma ad oggi, questa definizione risulta riduttiva, in quanto non c’è nessun’altra istituzione sociale che abbia subito maggiori trasformazioni come la famiglia che appare quindi condizionata dall’organizzazione sociale e dei modelli propri della società di cui fa parte.

L’attuale complessità di questa organizzazione sociale è tale che il Legislatore fatica, ormai, a seguirne le trasformazioni. La struttura familiare oggi va ben oltre l’identificazione del nucleo rappresentato dalla coppia genitoriale (c.d. famiglia nucleare) legata dal rapporto coniugale e dai figli: la famiglia moderna distingue nuovi profili familiari (v. famiglia monogenitoriale o rebuilt family) che scaturiscono dalle sue vicende trasformative   (v. la separazione), individua nuove modalità di costituzione (per esempio la convivenza more uxorio) ed implementa nuovi sistemi di relazioni, che rendono estremamente più complesso il ménage familiare.

Da quanto precede risulta quindi, diffusa e crescente, la percezione, sociale e giuridica, che la crisi familiare sia un fenomeno delicato e soprattutto complesso. Infatti, i dati statistici ci indicano il sempre più elevato numero di separazioni e divorzi che hanno luogo, annualmente, all’interno dello Stato. È questo un fenomeno destinato ad inasprirsi, soprattutto se e quando coinvolge i figli minori, che finiscono per essere (s)oggetto del contenzioso familiare.

Il contenzioso familiare: linee generali

Un terreno sul quale si riflette la capacità trasformativa di questa “società naturale” è l’area del contenzioso familiare. Con questo termine intendiamo il contesto in cui, i protagonisti del nuovo sistema familiare, nella sua complessità, entrano in conflitto nel momento in cui avviene una transizione e si rende necessaria una riorganizzazione delle relazioni familiari.[1]

L’ambito in cui maggiormente si svolge il contenzioso familiare si rivede nell’interruzione del rapporto coniugale, previsto nel nostro ordinamento, tramite le procedure di separazione e divorzio. Due prassi ben distinte a livello giuridico, ma entrambe fondamentali, in quanto conducono alla cessazione di tutti gli effetti del matrimonio (civile).

Pare opportuno precisare che il contenzioso familiare si verifica, non solo nelle famiglie tradizionali, ma anche in quelle unioni familiari in cui i soggetti non sono legati da vincolo matrimoniale: c.d. convivenze di fatto.  Le vicende che riguardano queste famiglie sono all’incirca le stesse della famiglia con genitori coniugati ed in caso di interruzione del rapporto di coppia i temi al centro della controversia risultano i medesimi delle coppie sposate (per esempio mantenimento ed educazione dei figli, affidamento, mantenimento dell’ex ecc..).[2]

È di immediata evidenza, quindi, che il contenzioso familiare preveda sicuramente un risvolto in ambito civile e processuale civile. Ci si chiede però, se questo possa avere risvolti anche dal punto di vista penale.


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I risvolti penali del contenzioso familiare

Nell’ambito del diritto penale, il conflitto familiare può anche sfociare nella c.d. violenza domestica, che secondo la definizione classica è il comportamento abusante di uno o entrambi i componenti di una relazione intima di coppia, quali il matrimonio e la coabitazione. Il termine è solitamente utilizzato per fare riferimento alla violenza tra partner, ma viene utilizzato talvolta per riferirsi alla violenza nei confronti dei figli, o più in generale la violenza all’interno della famiglia.[3] È necessario, però, evidenziare, che gli atti di violenza in questione, sono considerati reati commettibili contro chiunque e che se commessi nei confronti di un soggetto appartenente al nucleo familiare, prevedono conseguenze penali più stringenti.

Relativamente alla sopracitata definizione, vengono quindi individuati, dall’Organizzazione mondiale della sanità e successivamente dall’American Psychological Association, quattro forme di violenza tra partner: atti di violenza fisica, violenza sessuale, violenza psicologica e comportamenti controllanti (che includono anche stalking, revenge porn e abuso economico).

Si procede con l’analisi dei singoli atti.

La violenza fisica va ad includere un vasto continuum di atti che spazia dagli schiaffi all’uccisione, e comprende comportamenti quali colpi, pugni, spintoni, strattoni, calci, strangolamento, attacchi mediante un’arma, immobilizzazione o impedimenti al movimento e mancato soccorso. Una forma particolarmente invalidante di violenza fisica è costituita inoltre dagli attacchi con l’acido. Nello specifico, con la L. 69/2019 c.d. “Codice Rosso”, è stato introdotto l’art. 583-quinquies denominato «Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso» che stabilisce che «Chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso è punito con la reclusione da otto a quattordici anni.».  Quando poi, dalla commissione di tale delitto consegua l’omicidio si prevede la pena dell’ergastolo. La riforma inoltre, inserisce questo nuovo delitto nel catalogo dei reati intenzionali violenti che danno diritto all’indennizzo da parte dello Stato.[4]

Con riferimento alla violenza psicologica (detta anche “violenza emotiva” o “abuso emotivo”), questa include atti come l’umiliazione, l’intimidazione, le minacce, le critiche molto intense, gli insulti, il danneggiamento o la tortura: essi possono essere indirizzati verso l’individuo stesso o verso i suoi amici, la sua famiglia, i bambini o le sue proprietà. Una delle forme più note di violenza psicologica è denominata gaslighting, nella quale vengono presentate alla vittima, da parte del partner, false informazioni con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione.

In ordine alla violenza sessuale, questa va a comprendere una successione continua e inscindibile di comportamenti che spazia da forme non fisiche di pressione che costringono la persona ad avere rapporti sessuali contro la propria volontà fino allo stupro con la forza. Vanno ricompresi inoltre, comportamenti come il fare del male intenzionalmente a qualcuno durante il rapporto sessuale, gli attacchi ai genitali (anche mediante oggetti), il tentare di avere rapporti sessuali con una persona non completamente conscia o che ha paura di rifiutare l’atto sessuale, il costringere un individuo ad avere rapporti senza protezione.[5] A tal proposito si fa riferimento allo stealthing, vale a dire la rimozione del preservativo durante il rapporto senza che il partner ne sia a conoscenza. In Italia questa pratica non è considerata ancora reato, ma ci sono sentenze che si sono mosse verso il riconoscimento dello stesso come violenza. In particolare, nel 2014, la Corte di Cassazione aveva stabilito che «il consenso iniziale all’atto sessuale non è sufficiente ad evitare un giudizio negativo, quando questo si trasformi in itinere in un atto violento, con forme e modalità non volute dalla vittima».

Con riferimento quindi alla definizione legale di stupro – l’articolo 609-bis del codice penale – introdotto dalla L. n. 66 del 15 febbraio 1996 – stabilisce che quest’ultimo implichi una violenza, una minaccia o un abuso di autorità. L’articolo citato stabilisce che «Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni».

Ulteriore elemento di novità in merito, si ha con la L. 69/2019 che rimodula e inasprisce le aggravanti quando la violenza sessuale è commessa in danno di minore (pena aumentata fino a un terzo).

Per ultimo, in tema di comportamenti controllanti, questi sono ritenuti come una serie di tattiche – isolamento di una persona da famiglia e amici, monitoraggio dei suoi spostamenti, limitazione del suo accesso a risorse finanziarie – finalizzate alla disgregazione della libertà e dell’autonomia personale del partner. A tal proposito, si fa riferimento al reato di stalking – punito dall’art. 612 bis cod. pen. con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi – che comprende comportamenti ripetutamente assillanti o minacciosi (seguire una persona, presentarsi al suo posto di lavoro o alla sua abitazione, fare costanti telefonate assillanti ecc..).

Va soggiunto che, tra i comportamenti controllanti, rientra anche il reato di revenge porn che indica la divulgazione non consensuale, dettata da finalità vendicative, di immagini intime raffiguranti l’ex partner. Il reato succitato viene disciplinato dall’art. 612- ter cod. pen., introdotto dal “Codice Rosso” con denominazione “diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti.” e punito “…con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.”.

Possibili tutele per le vittime di atti di violenza

Di quali strumenti la vittima del reato di violenza domestica può usufruire, quindi, per tutelarsi?

Il soggetto vittima di atti di violenza ha la facoltà di sporgere denuncia o querela recandosi presso il Comando dei Carabinieri o il Comando di Polizia più vicini al luogo in cui si trova. La denuncia o la querela, vengono successivamente inoltrate alla Procura della Repubblica; il Pubblico Ministero provvederà a prenderla in carico, decidendo, a seguito di attente valutazioni, se avviare o meno le indagini.

Altro strumento previsto dal Legislatore, a favore delle vittime, è l’ordine di allontanamento dalla casa familiare dell’autore dei maltrattamenti. Nello specifico, si tratta di una misura cautelare che il Giudice – già durante la fase delle indagini preliminari – dispone a carico della persona indagata per tali reati. In particolare, l’ordine di allontanamento impone all’autore del reato sia di allontanarsi dall’abitazione familiare e di non farvi rientro fino a nuovo ordine sia di non avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. In aggiunta, il Giudice, con il medesimo provvedimento può anche obbligare il soggetto allontanato a versare un assegno di mantenimento a favore del soggetto offeso, per evitare cosi che si liberi dall’obbligo di sostenerlo economicamente. In ogni caso, secondo quanto previsto dalla legge, se la persona allontanata viola il provvedimento di allontanamento e il divieto di avvicinamento, viene punita con la detenzione da sei mesi a tre anni.

Per ultimo, altro strumento cui la vittima del reato può fare ricorso è l’ammonimento da parte del Questore, che assunte le necessarie informazioni e sentite le persone informate sui fatti, può disporre tale provvedimento nei confronti dell’autore del fatto. Trattasi di una misura di prevenzione la cui ratio è quella di scoraggiare l’autore della violenza domestica dal reiterare la propria condotta.

E’ di immediata evidenza, perciò, che il più efficace strumento di tutela per chi è vittima di violenza domestica risulti essere quello della denuncia o querela, che comporta necessariamente l’avvio di un procedimento penale nei confronti dell’autore del reato in questione.

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[1] A. BOLDREGHINI, Il conflitto familiare nell’attuale disciplina normativa: il processo giurisdizionale, la mediazione familiare e strumenti alternativi di composizione delle liti, 2009

[2] A. BOLDREGHINI, ibidem

[3] www.treccani.it

[4] www.camera.it

[5] Intimate Partner Abuse and Relationship Violence, in su apa.org, pp. 9-10.

Alessia Brunetti

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