Identificazione degli enti pubblici, e relativa disciplina

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sommario: 1. L’irrilevanza dell’attribuzione di pubblicità ad un ente ad opera del legislatore. – 2. Il problema della individuazione dell’ente pubblico in assenza di una definizione legislativa. La necessità di individuaregli istituti positivi che formano la disciplina generale degli enti pubblici. – 3. Le limitazioni di capacità dell’ente pubblico. – 4. La posizione di privilegio delle pubbliche Amministrazioni e l’applicazione delle norme speciali. – 5. La titolarità di poteri amministrativi. L’equiparazione tra soggetti pubblici e soggetti privati che svolgono attività amministrativa, o sono tenuti all’applicazione della normativa comunitaria. La giurisdizione sugli atti.Le relazioni tra enti. – 6. Le diverse tipologie di enti, e la necessità di utilizzare i vari indici di riconoscimento in maniera combinata. I soggetti pubblici nell’ordinamento comunitario e in quello nazionale: il controllo pubblico e la funzionalizzazione dell’attività.
 
 
1. L’irrilevanza dell’attribuzione di pubblicità ad un ente ad opera del legislatore.
 
Come è noto, l’organizzazione pubblica nel suo complesso consta di una pluralità di organizzazioni, in genere dotate di propria personalità giuridica, e come tali idonee ad essere titolari di poteri amministrativi.
Per Amministrazioni pubbliche (in senso soggettivo) possono intendersi gli apparati che svolgono le attività che costituiscono l’Amministrazione pubblica in senso oggettivo, cioè le attività svolte nell’interesse dei cittadini, in attuazione dell’indirizzo degli apparati politici e nel rispetto di specifici principi costituzionali e di una articolata disciplina che ne costituisce svolgimento[1].
Una elencazione abbastanza esaustiva delle pubbliche Amministrazioni nel nostro ordinamento è quella contenuta nell’art. 1, comma 2, del D. Lgs.vo 30 marzo 2001 n. 165, recante “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, laddove, nel dichiarato fine di disciplinare “l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, si precisa che “per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300”.
Come si vede, si tratta di una elencazione di una serie di figure soggettive previste dal sistema, nell’ambito della quale si fa un generico riferimento, tra l’altro, a “tutti gli enti pubblici non economici”, la cui individuazione dovrebbe essere effettuata dall’ordinamento positivo. Il problema dell’individuazione dell’ente pubblico da parte dell’interprete non dovrebbe quindi sorgere nelle ipotesi in cui sia il diritto positivo ad affermare espressamente la natura giuridica di un soggetto. .a,onalità; l’sti con
Tuttavia, neppure la qualificazione operata dalla legge risulta sempre decisiva, tanto è vero che Corte Cost., 28 dicembre 1993 n. 466[2], ha dichiarato la spettanza alla Corte dei Conti del potere di controllo sulla gestione finanziaria delle società per azioni costituite a seguito di trasformazione di enti pubblici economici (Iri, Ina, Eni, Enel), fino a quando sussista una partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato al capitale azionario. Vale a dire che la pubblicità, che è il naturale presupposto del controllo della Corte dei Conti (la quale, ex art. 100 Cost., “partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”), permane anche in presenza di una persona giuridica formalmente privata.
In quel caso, la cui soluzione è risultata poi determinante per lo sviluppo successivo in tema di responsabilità erariale, il problema si poneva per l’applicazione della L. 21 marzo 1958 n. 259, relativa alla “partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”, il cui art. 12 dispone che “il controllo previsto dall’art. 100 della Costituzione sulla gestione finanziaria degli enti pubblici ai quali l’Amministrazione dello Stato o un’azienda autonoma statale contribuisca con apporto al patrimonio in capitale o servizi o beni ovvero mediante concessione di garanzia finanziaria, è esercitato…da un magistrato della Corte dei conti, nominato dal Presidente della Corte stessa, che assiste alle sedute degli organi di amministrazione e di revisione”.
In sostanza, la Corte Costituzionale ha dovuto risolvere la questione se gli enti, sebbene privatizzati, nella loro forma giuridica possano essere ancora oggetto di quel controllo previsto dalla citata norma del 1958 per gli “enti pubblici”, precisando a tal fine che “le ragioni che stanno alla base del controllo spettante alla Corte dei conti sugli enti pubblici economici sottoposti a trasformazione non possono…considerarsi superate in conseguenza del solo mutamento della veste giuridica degli stessi enti, ove a tale mutamento formale non faccia seguito anche una modifica di carattere sostanziale nell’imputazione del patrimonio (ora trasformato in capitale azionario) tale da sottrarre la gestione finanziaria degli enti trasformati alla disponibilità dello Stato”[3].
Per quanto riguarda poi il dato letterale, la Corte rileva che “se é vero che l’art. 12 della legge n. 259 riferisce il controllo in questione agli "enti pubblici", é anche vero che la disposizione espressa con tale articolo non può non richiedere un’interpretazione adeguata al dettato costituzionale, anche in relazione alla funzione propria di questo tipo di controllo ed alla evoluzione subita, rispetto al tempo dell’enunciazione della norma, dalla stessa nozione di ente pubblico”. Inoltre, “l’art.100, secondo comma, della Costituzione, pur rinviando alla legge ordinaria la determinazione dei casi e delle forme del controllo, riferisce il controllo stesso agli "enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria", senza porre distinzione alcuna tra enti pubblici ed enti privati”.
Ed è la stessa Corte a ricordare come “la stessa dicotomia tra ente pubblico e società di diritto privato si sia andata, di recente, tanto in sede normativa che giurisprudenziale, sempre più stemperando: e questo in relazione, da un lato, all’impiego crescente dello strumento della società per azioni per il perseguimento di finalità di interesse pubblico (…); dall’altro, agli indirizzi emersi in sede di normazione comunitaria, favorevoli all’adozione di una nozione sostanziale di impresa pubblica (art.2 direttiva CEE n. 80/723, in tema di trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche; art. 1 direttiva CEE n. 90/531, in tema di procedure di appalto degli enti erogatori di servizi)”.
E oltre al fatto che “le società per azioni derivate dalla trasformazione dei precedenti enti pubblici conservano connotazioni proprie della loro originaria natura pubblicistica, quali quelle, ad esempio, che si collegano alla assunzione della veste di concessionarie necessarie di tutte le attività in precedenza attribuite o riservate agli enti originari o che mantengono alle nuove società le attribuzioni in materia di dichiarazione di pubblica utilità e di necessità ed urgenza già spettanti agli stessi enti (…)”, un elemento nel senso sostenuto dalla Corte è dato infine dalla “natura di "diritto speciale" che va riconosciuta a dette società e che viene a emergere dal complesso della disciplina adottata al fine di regolare il processo di "privatizzazione": natura che risulta connotata…sia dalla costituzione che dalla struttura e dalla gestione delle nuove società e che viene a specificarsi attraverso la previsione di norme particolari – differenziate da quelle proprie del regime tipico delle società per azioni – sia in tema di determinazione del capitale sociale (…), sia in tema di esercizio dei diritti dell’azionista (spettanti al Ministro del tesoro, ma previa intesa con altri Ministri…), sia infine, in tema di patti sociali, poteri speciali, clausole di gradimento, modifiche statutarie, quorum deliberativi nelle assemblee, limiti al possesso di quote azionarie da parte dei terzi acquirenti (…)”; senza considerare “il vincolo esterno connesso al fatto che i ricavi derivanti dalla cessione dei cespiti da dismettere vanno destinati alla riduzione del debito pubblico (…)”[4].
Ma come non lo è quando un ente viene espressamente definito privato, la qualificazione operata dalla legge non risulta decisiva neppure nei casi in cui di un ente viene sancita la pubblicità[5].
Il carattere sostanziale della distinzione tra enti pubblici ed enti privati, con la possibilità quindi del contrasto con tale carattere della qualificazione che eventualmente la norma dia dell’ente in modo esplicito, emerge infatti anche da Corte Cost., 7 aprile 1988 n. 396[6], che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. 17 luglio 1890 n. 6972 ("Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza" – IPAB), nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano i requisiti di un’istituzione privata.
 
2. Il problema della individuazione dell’ente pubblico in assenza di una definizione legislativa. La necessità di individuare gli istituti positivi che formano la disciplina generale degli enti pubblici.
 
Emerge quindi che 2006, varenna, settembre 2005) su Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile ad un decennio dalle riformente pubblico è quello che, al di là della definizione normativa, possa comunque essere ritenuto tale[7], nel senso che le definizioni legislative non vincolano l’interprete, il quale dovrà determinare la natura dell’ente indipendentemente dalla sua denominazione, per cui la stessa qualificazione esplicita è irrilevante se in contrasto con l’effettiva natura[8].
Ma l’ordinamento non sempre afferma esplicitamente la natura pubblica di un soggetto, facendo sorgere così il problema di stabilire, a fronte di determinate figure soggettive, se esse siano ascrivibili al genere degli enti pubblici ovvero delle persone giuridiche private; oppure, in altri casi, di stabilire, a fronte di determinate figure soggettive, certamente di carattere pubblico, se esse siano ascrivibili al genere degli enti pubblici non economici (perché per quelli economici la disciplina applicabile è diversa, ed è riconducibile quasi interamente all’area del diritto privato).
In questi casi si pone cioè il problema di individuare il carattere, pubblico o privato, economico o non economico, di una singola figura soggettiva.
Ora, “l’identificazione in concreto dell’ente pubblico (la predicabilità in concreto di un determinato ente come pubblico), laddove incerta, deve essere fatta analizzando la disciplina giuridica propria di esso (gli elementi di disciplina certi); ricavando da questi elementi, in base a parametri normativi predeterminati, l’essere pubblico dell’ente; ciò da cui a sua volta deriva l’applicabilità all’ente stesso di altri elementi di disciplina, che viceversa sono incerti e che sono quelli propri degli enti pubblici in quanto tali. …Ma se si scende al concreto e si vede come avviene questa identificazione, cioè si scende all’applicazione in concreto di questo procedimento interpretativo, ci si scontra con una difficoltà assai grave: che non risultano positivamente stabiliti questi "parametri normativi predeterminati" in base ai quali interpretare gli elementi di disciplina certi propri di un ente come quelli tali da designarne la pubblicità. Con altre parole, si può dire che non esistono parametri predeterminati[9].
Rinviando ad un paragrafo successivo l’esame dei criteri che è possibile utilizzare per rilevare la pubblicità di un ente, è intanto necessario precisare che la qualificazione di un ente come pubblico è importante perché comporta conseguenze giuridiche di rilievo, anche se poi la presenza di qualcuna di tali conseguenze è spesso considerata come indice rivelatore della pubblicità, per cui vi è una certa sovrapposizione tra presupposti e conseguenze.
Alle Amministrazioni pubbliche, infatti, si applica in via generale una disciplina del tutto propria, che non trova invece applicazione alle figure riconducibili al diritto privato, nel senso che “esistono .azione nell’cietario tipico, comportando una compressione della autonomia funzionale degli organnorme, o complessi normativi, alcuni di rilevante spessore, la cui applicazione agli "enti pubblici" è espressamente prevista da norme dell’ordinamento positivo ovvero da principi giurisprudenziali ormai consolidati”[10].
In primo luogo, la qualificazione di un apparato organizzativo come Amministrazione pubblica comporta, in generale, che è destinatario dell’insieme di norme che possono considerarsi svolgimento di quegli specifici principi costituzionali che fondano il diritto amministrativo, e che hanno come riferimento il fatto che il compito di ogni Amministrazione pubblica è la realizzazione di pubblici interessi[11]. In dottrina si è effettuata una classificazione in categorie, avente carattere descrittivo, degli istituti positivi, a cui si farà di seguito riferimento citandone alcuni, che formano la disciplina generale degli enti pubblici[12].
 
3. Le limitazioni di capacità dell’ente pubblico.
 
Così, la prima categoria comprende i c.d. “istituti di deminutio della capacità”, che comportano l’incapacità in capo all’ente a porre in essere determinati atti, ovvero obblighi di compiere determinati atti od operazioni, in deroga al diritto comune[13].
Tra questi istituti uno dei più importanti (tanto da essere considerato il carattere più qualificante del regime degli enti pubblici) è la perdita della capacità di disporre di sé stessa da parte della preesistente organizzazione, cioè l’indisponibilità della propria esistenza. Tale carattere necessario dell’ente pubblico comporta innanzitutto l’impossibilità per l’ente di autoscioglimento, o di decisione autonoma di privatizzazione, come l’impossibilità di sottrarre i beni alla loro destinazione. Indisponibilità della propria esistenza che è soltanto una conseguenza della doverosità del perseguimento dell’interesse pubblico, perché l’ente pubblico è istituito con quella che viene definita una precisa “vocazione” allo svolgimento di una specifica attività di rilevanza collettiva[14].
Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto di determinate norme per quanto riguarda redazione del bilancio, utilizzo dei mezzi finanziari, assunzione di personale.
La loro attività deve conformarsi alle norme del D. Lgs.vo n. 165/2001, recante “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, per quanto riguarda l’organizzazione degli uffici e i rapporti di impiego.
Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio con un ente pubblico sono soggette ad un particolare regime di responsabilità penale, civile ed amministrativa, e sono tenute al rispetto del segreto d’ufficio[15]. Per esse sono spesso poste specifiche incompatibilità, la cui previsione è tipica dell’esistenza di funzioni pubbliche delicate, che il legislatore vuole salvaguardare, nel loro svolgimento, da interferenze e attività che potrebbero farle deviare dal rispetto delle norme e dei principi costituzionali che governano ogni attività amministrativa.
Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alle pubbliche Amministrazioni, e alcuni loro beni sono soggetti ad un regime speciale. Anche l’attività posta in essere utilizzando gli strumenti del diritto privato è disciplinata da regole speciali, finalizzate ad assicurare che la scelta del contraente avvenga nel rispetto dei principi di imparzialità e di economicità.
 
4. La posizione di privilegio delle pubbliche Amministrazioni e l’applicazione delle norme speciali.
 
Nella seconda categoria rientrano i c.d. “istituti di privilegio”, che sottraggono l’ente all’applicazione di determinate norme di diritto comune, in genere poste a tutela dei terzi, e finalizzate a consentire all’ente determinate facoltà derogatorie rispetto alla normativa comune[16].
Vi rientra perciò la sottrazione al regime fallimentare, stabilita per gli enti pubblici che esercitano attività di impresa (art. 2221 cod.civ.; art. 1 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 – L.fallim.).
Ai beni dell’ente, in quanto destinati ad una funzione o servizio pubblico o alla stessa sua sede, non trovano applicazione tutti quegli istituti di diritto comune che ne comportino la sottrazione alla destinazione stessa, e in particolare l’esecuzione forzata da parte dei creditori[17].
Tale conclusione viene tratta, innanzitutto, dall’art. 4 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, ai sensi del quale “quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’Autorità amministrativa, i Tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”, e “l‘atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti Autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”.
Tale disposizione va poi integrata dal successivo art. 5, secondo cui “in questo, come in ogni altro caso, le Autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” (la c.d. disapplicazione)[18].
La norma è stata sempre intesa in modo estensivo dalla giurisprudenza, come impediente, più in generale, il sindacato e l’ingerenza del giudice ordinario sull’esercizio della discrezionalità amministrativa[19].
Inoltre, l’art. 828 cod. civ., relativo alla “condizione giuridica dei beni patrimoniali”, al comma 2 dispone che “i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”, e il successivo art. 830, relativo ai “beni degli enti pubblici non territoriali”, al comma 2 dispone che “ai beni di tali enti che sono destinati a un pubblico servizio si applica la disposizione del secondo comma dell’articolo 828”.
La possibilità di ottenere coattivamente quanto dovuto, in caso di inadempimento di una pubblica Amministrazione, anche laddove possibile incontra comunque delle limitazioni.
Infatti, l’art. 14 del D.L. 31 dicembre 1996 n. 669, convertito in L. 28 febbraio 1997 n. 30, relativo alla “esecuzione forzata nei confronti di pubbliche amministrazioni”, dispone, al comma 1, che “le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto[20].
Di rilievo è anche l’art. 159 (“norme sulle esecuzioni nei confronti degli enti locali”), del D. Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Testo unico leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale dispone che:
1)     Non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri. Gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa”.
2)     Non sono soggette ad esecuzione forzata, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice, le somme di competenza degli enti locali destinate a:
a) pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi;
b) pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso;
c) espletamento dei servizi locali indispensabili”.
3)     Per l’operatività dei limiti all’esecuzione forzata di cui al comma 2 occorre che l’organo esecutivo, con deliberazione da adottarsi per ogni semestre e notificata al tesoriere, quantifichi preventivamente gli importi delle somme destinate alle suddette finalità”.
4)     Le procedure esecutive eventualmente intraprese in violazione del comma 2 non determinano vincoli sulle somme né limitazioni all’attività del tesoriere[21].
L’art. 27, comma 13, L. 28 dicembre 2001 n. 448 (legge finanziaria 2002), dispone che “non sono soggette ad esecuzione forzata le somme di competenza degli enti locali a titolo di addizionale comunale e provinciale all’IRPEF disponibili sulle contabilità speciali di girofondi intestate al Ministero dell’interno. Gli atti di sequestro e pignoramento eventualmente effettuati su tali somme non hanno effetto e non comportano vincoli sulla disponibilità delle somme”.
Ancora, l’art. 1 del D.L. 25 maggio 1994 n. 313, conv. in L. 22 luglio 1994 n. 460, di “disciplina dei pignoramenti sulle contabilità speciali delle prefetture, delle direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza”, dispone (comma 1) che “i fondi di contabilità speciale a disposizione delle prefetture, delle direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di finanza, nonchè le aperture di credito a favore dei funzionari delegati degli enti militari, destinati a servizi e finalità di protezione civile, di difesa nazionale e di sicurezza pubblica, nonchè al pagamento di emolumenti e pensioni a qualsiasi titoli dovuti al personale amministrato, non sono soggetti ad esecuzione forzata, salvo che per i casi previsti dal capo V del titolo VI del libro I del codice civile (provvedimenti in materia di separazione dei coniugi), nonchè dal testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180.
Inoltre (comma 3), “non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Gli atti di sequestro o di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni medesime nè sospendono l’accreditamento di somme nelle contabilità speciali intestate alle prefetture ed alle direzioni di amministrazione ed in quelle a favore dei funzionari delegati degli enti militari[22].
Una importante deroga alla normativa comune si ha, per gli enti pubblici, anche in materia di cessione di crediti.
Secondo la disciplina dettata dall’art. 1260 del codice civile, infatti, “il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge. Le parti possono escludere la cedibilità del credito; ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione”.
Già l’art. 70, comma 3, del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 (“disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), disponeva invece che “per le somme dovute dallo Stato per somministrazioni, forniture ed appalti, dovessero “essere osservate le disposizioni dell’art. 9, allegato E , della legge 20 marzo 1865, n. 2248 e degli articoli 351 e 355, allegato F , della legge medesima”.
Tale art. 9 disponeva che “sul prezzo dei contratti in corso non potrà aver effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione se non vi aderisca l’amministrazione interessata”.
Da ultimo, il D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”), all’art. 117, relativo appunto alla “cessione dei crediti derivanti dal contratto”, al comma 1 dispone che “le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52, sono estese ai crediti verso le stazioni appaltanti derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori di cui al presente codice, ivi compresi i concorsi di progettazione e gli incarichi di progettazione. Le cessioni di crediti possono essere effettuate a banche o intermediari finanziari disciplinati dalle leggi in materia bancaria e creditizia, il cui oggetto sociale preveda l’esercizio dell’attività di acquisto di crediti di impresa[23].
Inoltre, “ai fini dell’opponibilità alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche, le cessioni di crediti devono essere stipulate mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e devono essere notificate alle amministrazioni debitrici” (comma 2), “le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione, concorso di progettazione, sono efficaci e opponibili alle stazioni appaltanti che sono amministrazioni pubbliche qualora queste non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quindici giorni dalla notifica della cessione” (comma 3), “le amministrazioni pubbliche, nel contratto stipulato o in atto separato contestuale, possono preventivamente accettare la cessione da parte dell’esecutore di tutti o di parte dei crediti che devono venire a maturazione” (comma 4), ed infine “in ogni caso l’amministrazione cui è stata notificata la cessione può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente in base al contratto relativo a lavori, servizi, forniture, progettazione, con questo stipulato” (comma 5).
È indubbio che alle pubbliche Amministrazioni sono comunque conservate alcune posizioni di privilegio anche per quanto riguarda le obbligazioni pecuniarie che le riguardino, in generale. E questo sia se si trovino a rivestire i panni del debitore che quelli del creditore. Come debitore, infatti, si afferma ancora che “il principio espresso dall’art. 1194, c.c., secondo il quale i pagamenti parziali si imputano prima agli interessi e poi al capitale, è di dubbia applicazione nei confronti della pubblica amministrazione, attesa la particolarità del suo procedimento contabile, e, comunque, si applica solo per i pagamenti spontanei e non per quelli coattivi, come quelli imposti da un giudicato”[24].
La giurisprudenza ha tradizionalmente richiesto, al fine di riconoscere gli interessi moratori, una previa messa in mora, o una domanda giudiziale, affermandosi che, “con riguardo ai debiti pecuniari delle p.a., per i quali le norme sulla contabilità pubblica stabiliscono, in deroga al principio di cui all’art. 1182, comma 3, c.c.[25], che i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell’amministrazione debitrice, la natura "querable" dell’obbligazione comporta che il ritardo del pagamento non determina automaticamente gli effetti della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, commi 2 e 3, c.c., occorrendo invece la costituzione in mora mediante intimazione scritta di cui all’art. 1219 cit., affinchè sorga la responsabilità da tardivo adempimento con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno”[26].
Si ritiene inapplicabile alle pubbliche Amministrazioni l’art. 1181 c.c. (“il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente”), cosicché il creditore privato non può rifiutare un adempimento parziale di una di esse, il che può avvenire quando in bilancio non sia stanziata una somma sufficiente a pagare l’intero debito.
Gli enti pubblici possono utilizzare procedure privilegiate per la riscossione delle entrate patrimoniali, come quelle previste dal R.D. 14 aprile 1910 n. 639 (T.U. delle disposizioni di legge relative alla procedura coattiva per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici), che consentono alle pubbliche Amministrazioni di avvalersi di strumenti privilegiati di riscossione coattiva che, anziché realizzarsi mediante procedure giurisdizionali, si fondano su atti delle Amministrazioni stesse (le c.d. ingiunzioni fiscali) [27].
Altra regola peculiare è quella relativa alla possibilità, riconosciuta a favore degli enti pubblici, ma non dei privati nei loro confronti, di operare compensazioni tra propri crediti e debiti[28].
 
5. La titolarità di poteri amministrativi. L’equiparazione tra soggetti pubblici e soggetti privati che svolgano attività amministrativa, o siano tenuti all’applicazione della normativa comunitaria. La giurisdizione sugli atti. Le relazioni tra enti.
 
La terza categoria di istituti positivi che formano la disciplina generale degli enti pubblici è una specificazione della precedente, cioè di quella relativa agli istituti di privilegio, perché attiene alla titolarità, in capo all’ente, di poteri amministrativi in senso tecnico (anche se, come si è già detto, l’espressa attribuzione legislativa di poteri amministrativi è considerata uno dei sintomi di pubblicità dell’ente, qualora sia incerta)[29].
Come in giurisprudenza si è sempre precisato, in ogni caso tutti gli enti pubblici, in quanto tali, sono titolari di un minimo di poteri amministrativi[30], e in particolare della potestà statutaria[31].
Soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia autoritativa sul piano dell’ordinamento generale, impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, e soltanto ad essi è riconosciuta la potestà di autotutela, intesa come il potere di risolvere un conflitto di interessi (vedi l’autotutela demaniale), e di sindacare la validità di propri atti, con l’emanazione di provvedimenti di secondo grado.
E gli atti attraverso i quali l’ente provvede alla propria organizzazione, ed esercita la propria attività, sono considerati veri e propri atti amministrativi, in quanto tali soggetti alla disciplina generale sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso, di cui alla L. 7 agosto 1990 n. 241, ed alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Per i soggetti formalmente privati (enti pubblici privatizzati, società miste, ecc.) tale principio vale, quanto meno, per quella parte di attività con la quale l’ente realizzi pubblici interessi. Ed infatti, l’art. 1 della L. 241/90, al comma 1-ter – aggiunto dall’art. 1 L. 11 febbraio 2005 n. 15 – dispone che “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei princìpi di cui al comma 1”, ai sensi del quale “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princìpi dell’ordinamento comunitario[32].
Il successivo art. 22, poi, nel fornire la definizione di pubblica amministrazione, al fine dell’esercizio del diritto di accesso, precisa che per «pubblica amministrazione» si intende “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Anche al fine dell’applicazione della normativa in materia di appalti, i soggetti privati sono ormai equiparati ai soggetti pubblici. Ed infatti, l’art. 3 del D. Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), dopo aver premesso, al comma 3, che “i «contratti» o i «contratti pubblici» sono i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l’acquisizione di servizi, o di forniture, ovvero l’esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai soggetti aggiudicatori”, ai commi 29 e 31 precisa che “gli «enti aggiudicatori»…comprendono le amministrazioni aggiudicatrici, le imprese pubbliche, e i soggetti che, non essendo amministrazioni aggiudicatrici o imprese pubbliche, operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi loro dall’autorità competente secondo le norme vigenti”, e che “gli «altri soggetti aggiudicatori»,…sono i soggetti privati tenuti all’osservanza delle disposizioni del presente codice”.
In base allo stesso criterio, l’art. 244 del medesimo Codice ha disposto che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale[33].
Gli enti pubblici sono poi soggetti all’applicazione della normativa in materia di semplificazione amministrativa, di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), il cui art. 2 dispone che le norme del testo unico “disciplinano la formazione, il rilascio, la tenuta e la conservazione, la gestione, la trasmissione di atti e documenti da parte di organi della pubblica amministrazione; disciplinano altresì la produzione di atti e documenti agli organi della pubblica amministrazione nonché ai gestori di pubblici servizi nei rapporti tra loro e in quelli con l’utenza, e ai privati che vi consentono”.
Si pone ad esempio il problema se anche alcuni enti privati possano essere ritenuti equiparabili, al fine dell’applicazione della citata normativa, “agli organi della pubblica amministrazione”, ai quali possono essere prodotti atti e documenti ai sensi del citato DPR. Infatti, anche l’art. 19 di tale DPR, relativo alle “modalità alternative all’autenticazione di copie”, prevede che “la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà di cui all’articolo 47 può riguardare anche il fatto che la copia di un atto o di un documento conservato o rilasciato da una pubblica amministrazione…sono conformi all’originale”.
In base allo stesso criterio prima enunciato, è da ritenere che anche quegli enti privati che svolgano attività di pubblico interesse siano soggetti all’applicazione di quella normativa, e, almeno da quel punto di vista, debbano essere considerati “organi della pubblica amministrazione”, con la duplice conseguenza che, da una parte, tali enti sono tenuti a consentire ai privati la presentazione di dichiarazioni sostitutive e, dall’altra, che i privati stessi, ad esempio in sede di partecipazione ad una gara d’appalto, possono attestare con propria dichiarazione sostitutiva la conformità all’originale anche di copie o di documenti rilasciati da quegli enti[34].
Infine, come quarta categoria di istituti positivi attinenti alla disciplina generale degli enti pubblici, vengono individuati i c.d. istituti di ingerenza, inerenti alla soggezione ad altri poteri amministrativi di cui altri enti sono titolari. Gli enti pubblici sono infatti soggetti a particolari rapporti o relazioni (con lo Stato, la Regione, ecc.), la cui intensità (strumentalità, dipendenza, ecc.) varia in relazione all’autonomia dell’ente. Tra questi emerge il potere, ritenuto dalla giurisprudenza di portata generale, di annullamento degli atti amministrativi, ad opera dell’ente titolare del potere di vigilanza, e il c.d. potere di annullamento straordinario.
Infatti, anche dopo le modifiche al titolo V della Costituzione, resta salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 3, lett. p) della L. 23 agosto 1988 n. 400, ai sensi del quale il Consiglio dei Ministri mantiene il potere di annullamento straordinario, a tutela dell’unità dell’ordinamento, degli atti amministrativi illegittimi di qualsiasi Amministrazione[35], previo parere del Consiglio di Stato[36].
 
6. Le diverse tipologie di enti, e la necessità di utilizzare i vari indici di riconoscimento in maniera combinata. I soggetti pubblici nell’ordinamento comunitario e in quello nazionale: il controllo pubblico e la funzionalizzazione dell’attività.
 
Al fine di affrontare il discorso relativo al modo di individuare un ente pubblico, sembrano ancora attuali le considerazioni di Federico Cammeo, secondo cui “persona giuridica pubblica è quella che ha per scopo l’esecuzione di una pubblica funzione”, con la precisazione che “pubblica funzione, positivamente parlando dal punto di vista giuridico, è il dispiegamento di attività per soddisfare bisogni sentiti da una pluralità di persone che il diritto reputa in un determinato momento storico e in determinate contingenze debba esercitarsi dallo Stato o direttamente o indirettamente a mezzo di altra personalità” [37].
È certamente curioso il fatto che già quasi un secolo addietro lo stesso Cammeo potesse rilevare che “non vi è un tipo speciale e fisso di persona giuridica pubblica”, e che “è impossibile determinare a priori quali sono funzioni pubbliche e quali no per desumere direttamente dalla natura della funzione la natura dell’ente”[38].
La difficoltà di definire l’ente pubblico deriva dal fatto che l’articolazione della sfera pubblica non consente più di definire il “pubblico” come concetto omogeneo, perché non esiste, in effetti, un solo modo di essere “pubblico”, in quanto un soggetto pubblico può essere manifestazione di un ente territoriale o di un corpo sociale diverso, e può esercitare o meno poteri autoritativi[39].
“Ma dappoichè dalla natura intrinseca della funzione esercitata non si può desumere se essa sia pubblica o no, e d’altro canto è dalla natura della funzione che si caratterizza l’organo, per non cadere in una petizione di principio, bisogna dedurre da un qualche dato estrinseco la natura della funzione. Questo dato è l’obbligo della persona giuridica verso lo stato o altra persona giuridica pubblica di adempiere il proprio scopo, obbligo che deve essere inerente alla stessa natura dell’ente, cioè nascere dalla sua stessa costituzione indipendentemente da un successivo e speciale vincolo giuridico e deve esser fondato sopra una norma di legge scritta o di consuetudine avente forza di legge. Ma siccome quest’obbligo non è formulato espressamente così bisogna desumerlo anch’esso da altri dati estrinseci”[40].
Vale a dire che occorre individuare diverse radici della natura pubblica degli enti, e soprattutto compiere analisi dei diversi tipi, anziché forzarli in un unico schema, che risulterebbe poco rappresentativo[41].
Il problema che allora si pone, e la cui soluzione è variata storicamente, è quello di stabilire quali possono essere considerati gli elementi di disciplina, cioè gli istituti positivi, sintomatici della pubblicità di un ente.
Come evidenziato in dottrina, si è passati nel tempo da una concezione sostanzialistica di tali elementi sintomatici (individuati ad esempio nella circostanza che alla persona giuridica fossero attribuiti dalla legge poteri amministrativi in senso tecnico, o comunque compiti specifici di cura di interessi pubblici), ad una concezione che, senza abbandonare la prima, si presenta più formale e organizzatoria di tali indici esteriori (individuati nella disciplina organizzativa concernente la persona giuridica, e quindi, ad esempio, nel potere di nomina o revoca degli amministratori, nel potere di controllo sul funzionamento degli organi o sulla legittimità di certi atti, la previsione di finanziamenti stabili, ecc.)[42].
Avendo però presente, come peraltro da più parti è stato sottolineato, che di tali indici esteriori, utilizzati in dottrina e giurisprudenza per riconoscere un ente pubblico, nessuno può essere ritenuto, da solo, sufficiente, mentre invece essi vengono ritenuti idonei ove considerati nel loro complesso, cioè combinati tra loro[43].
Ed infatti, in giurisprudenza si trova precisato che la natura pubblica di una persona giuridica dipende dall’inquadramento istituzionale della stessa nell’apparato organizzativo della p.A., cioè dal rapporto in cui tale soggetto di diritto, in conseguenza dell’attività espletata, viene a trovarsi rispetto allo Stato o all’ente territoriale di riferimento; pertanto, la qualificazione di un ente come pubblico o privato, allorché la sua natura non sia dichiarata espressamente, costituisce il risultato di una ricerca ermeneutica che ha per oggetto le norme legislative, regolamentarie e statutarie[44].
Tenendo presente che deve dirsi comunque pubblico un ente tutte le volte che dalla ricostruzione sistematica della sua disciplina legislativa risulti che le situazioni giuridiche che l’ordinamento gli attribuisce, e la sua stessa soggettività che tale ordinamento istituisce o riconosce, siano causate, o improntate al principio di necessaria funzionalità dell’attività amministrativa rispetto ai fini pubblici che la legge gli impone di perseguire. Mentre non può che dirsi privato, viceversa, un ente per il quale una tale funzionalizzazione non sia riscontrabile[45].
Necessaria funzionalità del suo essere e del suo agire, con riferimento ai valori di cui all’art. 97 Cost., che impedisce all’Amministrazione, anche all’interno dei limiti con i quali l’ordinamento generale le attribuisce i poteri, di esercitarli in modo libero, nel senso nel quale i privati possono esplicare liberamente la loro capacità negoziale, perché quel principio le impone di esercitare tali poteri per il perseguimento dei fini per i quali l’ordinamento generale glieli ha attribuiti[46].
Precisazione, questa, che vale anche per tutte le ipotesi in cui non di veri e propri poteri si tratti, ma di svolgere l’attività per la quale l’ente è stato previsto. Infatti, come si crede di aver già precisato, la mancata attribuzione ad un ente di poteri pubblicistici non esclude affatto che, ciò nonostante, esso debba essere così qualificato, perché quel che è essenziale, per la sua pubblicità, è appunto tale sua funzionalizzazione, che non deve inerire necessariamente a poteri pubblicistici.
Sembra quindi cogliere nel segno la tesi secondo cui, anziché ricostruire una figura unitaria di ente pubblico, deve piuttosto individuarsi il minimo comune denominatore delle varie figure pubbliche, cioè il criterio base sottostante alle diverse qualificazioni pubblicistiche[47], individuabile, per ciascuna figura giuridica pubblica, nella valutazione, da parte dell’ente di riferimento (Stato o Regione), della necessità dell’esistenza di tale figura, nel senso che va considerato pubblico l’ente la cui esistenza è considerata necessaria dall’ente territoriale, che vi intrattiene quindi rapporti connessi a tale valutazione. Le valutazioni circa il carattere necessario dell’ente hanno, ovviamente, carattere politico e quindi sono non solo storicamente determinate ma anche variabili, in connessione ai diversi indirizzi politici. Le finalità che portano alla istituzione di enti pubblici, o al conferimento della natura giuridica pubblica a organismi già esistenti, possono essere le più varie, e vanno dalla volontà di disporre di un organismo volto a realizzare gli stessi fini che potrebbero essere perseguiti dall’Amministrazione diretta, ma che si ritiene preferibile realizzare con strumenti organizzativi più flessibili, fino alla volontà di tutelare interessi che non sono propri dell’ente territoriale ma ai quali si ritiene di dover accordare una tutela rafforzata. È chiaro che tale valutazione dell’ente territoriale non è effettuata discrezionalmente dagli amministratori dell’ente, ma è manifestata con atto normativo.
È infine da sottolineare come l’individuazione formale dell’ente pubblico nel nostro ordinamento sia in parte superata, o comunque ridotta ad una rilevanza molto inferiore, a fronte della nozione di origine comunitaria, ma pienamente accolta nell’ordinamento nazionale, degli “organismi di diritto pubblico”, “istituiti per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, e avente personalità giuridica e la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico” [cfr. art. 3, commi 25 e 26, D. Lgs.vo 12 aprile 2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), laddove, nel definire le «amministrazioni aggiudicatrici», tali organismi sono equiparati alle amministrazioni dello Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici, alle associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti][48].
Ora, mentre in ambito nazionale si è tradizionalmente tentato di elaborare, nei termini sopra evidenziati, una concezione tendenzialmente unitaria di soggetto pubblico, nell’ordinamento comunitario, invece, la nozione di soggetto pubblico non è intesa come categoria unitaria.
Come è stato infatti rilevato[49], “al contrario, per affermazione della stessa Corte di Giustizia, tale nozione viene elaborata settore per settore, tanto sul piano normativo quanto nell’interpretazione giurisprudenziale, adattandola, quindi, alle esigenze sottese alla normativa delle singole materie nelle quali il riferimento al soggetto pubblico è necessario ed obbligato, sì da estenderne o ridurne, caso per caso, l’ampiezza”.
Così, ad esempio, al fine di stabilire l’ambito di operatività della deroga al principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (ex art. 39, par. 4, relativo al potere degli Stati membri di riservare ai propri cittadini gli impieghi nella “pubblica amministrazione”, e art. 45, par. 1, del Trattato CE, che prevede una deroga alla libertà di stabilimento quando l’attività comporti l’<<esercizio anche occasionale di pubblici poteri>>), il giudice comunitario ha sostenuto in modo restrittivo che la nozione di pubblica amministrazione debba essere elaborata ricorrendo ai criteri della “partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche”[50].
Mentre allo scopo di individuare gli apparati degli ordinamenti dei singoli Stati membri nei cui confronti devono considerarsi operanti gli obblighi e i divieti previsti dal diritto comunitario, in modo da poter imputare ai relativi Stati di appartenenza le eventuali violazioni commesse, si è affermato, più genericamente, “che fa comunque parte degli enti ai quali si possono opporre le norme di una direttiva idonea a produrre effetti diretti un organismo che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli”[51].
L’accennata evoluzione, registrabile nell’ordinamento italiano, sia del concetto di ente pubblico che della stessa tipologia di enti considerabili quali soggetti pubblici, nonché il modo in cui è intesa nell’ordinamento comunitario la nozione di “pubblico potere” o di “pubblica amministrazione”, consentono di individuare, in entrambi gli ambiti normativi, un minimo comune denominatore, costituito dalla visione sostanzialistica del fenomeno: nel senso che all’individuazione dei soggetti pubblici non si procede con riferimento a precisi criteri formali di definizione, bensì sulla base di parametri di tipo sostanziale, dati in particolare, per quanto riguarda l’ambito comunitario, dalla sottoposizione del soggetto ad un controllo pubblico, di carattere funzionale o strutturale, e per l’ordinamento nazionale dalla funzionalizzazione dell’attività della persona giuridica alla realizzazione di finalità di interesse generale e dall’inquadramento istituzionale della stessa, sebbene in senso lato, in quello che una volta, quando era ancora possibile una concezione unitaria di pubblica Amministrazione, poteva essere definito l’apparato organizzativo della p.A., che adesso si estrinseca in una tipologia diversificata sia dei soggetti (pubblici e privati) che del modo di realizzare interessi pubblici. E anche quando nella realizzazione di tali interessi sono coinvolti soggetti formalmente privati, questi sono ormai ritenuti obbligati, in quanto “preposti all’esercizio di attività amministrative”, a perseguire “i fini determinati dalla legge”, ed a conformare la propria azione a “criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza”, nonché ai “princìpi dell’ordinamento comunitario[52] (art. 1 L. 241/90).
 
dauno f.g. trebastoni
magistrato t.a.r. catania –
professore a contratto di istituzioni di diritto pubblico
presso la facoltà di scienze politiche
dell’università degli studi di catania
 


[1] Cfr. Sorace, Diritto delle Amministrazioni pubbliche, Bologna, 2000, 225.
[2] In Cons. Stato, 1993, II, 2116.
[3] Per una ricostruzione del problema in esame, vedi Caputi Jambrenghi, Azione ordinaria di responsabilità ed azione di responsabilità amministrativa in materia di società in mano pubblica. L’esigenza di tutela degli interessi pubblici, in Atti del LI convegno di studi di Scienza dell’Amministrazione (Varenna, settembre 2005) su Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile ad un decennio dalle riforme, Milano, 2006. A proposito dei danni arrecati al patrimonio di enti pubblici vedi anche S. Buscema, Funzioni di controllo e di giurisdizione. La giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa e contabile, in Atti del convegno internazionale di studi su “La Corte dei Conti nei paesi del Mediterraneo. Funzioni giurisdizionali in materia di contabilità pubblica” (Agrigento, 16 e 17 aprile 2004), Verona, 2005, 24: “le norme civilistiche sulla responsabilità (artt. da 2392 a 2395) trovano applicazione anche nei confronti di amministratori e di dirigenti che gestiscono le azioni di società formalmente privatistiche. Il mancato esercizio dell’azione di responsabilità dinanzi al giudice ordinario fa scattare il meccanismo della responsabilità per danno derivante al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico, dinanzi alla Corte dei Conti in sede giurisdizionale. Occorre constatare che tale meccanismo è stato furbescamente raggirato – con l’avallo della classe politica – con la creazione di s.p.a. con la partecipazione dominante di società a loro volta create dallo Stato o da altri enti comunitari”. Vedi anche M.Orefice, Percorsi del controllo (dal controllo di legittimità sugli atti alle diverse e più recenti forme di controllo sulla gestione), Roma, 2003, 156 e passim.
[4] Caringella, Corso di Diritto Amministrativo, IV ed., I, Milano, 2005, 705, ribadisce che “la disciplina dettata per tali enti si caratterizza per la previsione di regole di funzionamento che, se da un lato costituiscono una consistente alterazione del modello societario tipico, comportando una compressione della autonomia funzionale degli organismi societari, dall’altro, rivelano la completa attrazione nell’orbita pubblicistica dell’ente societario”. Virgilio – Il regime dei beni, in Atti del convegno di studi su “Le società pubbliche”, (Firenze, 20 maggio 2005), in Giustamm., 21 ss. – rileva come nelle privatizzazioni, sia solo formali che sostanziali, così come nelle privatizzazioni nel settore dei pubblici servizi (pagg. 60 s.s.), “anche sotto il profilo del regime dei beni la situazione, dal punto di vista sostanziale, rimane tutto sommato immutata. Invero, i beni destinati al pubblico servizio e già qualificati come demaniali o patrimoniali indisponibili, continuano per lo più, e non di rado per legge, a restare assoggettati alla medesima destinazione pubblica malgrado sia mutata la veste giuridica del proprietario che, a seconda dei casi, passa da un soggetto pubblico (Stato o altro ente pubblico territoriale o non) ad un soggetto, almeno nella forma, privato. Peraltro, come già accennato, sulle società pubbliche erogatrici di servizi succedute agli enti di gestione (o scorporate dai vari Ministeri) e sul regime dei beni strumentali da esse possedute o ad esse attribuite in seguito alla privatizzazione (anche se solo formale) incide profondamente il diritto comunitario e, in particolare, due principi”, di cui “il primo è la liberalizzazione dei pubblici servizi e la conseguente libertà di concorrenza e di stabilimento, ed il secondo è il divieto di aiuti di Stato”. Per Corso, L’attività amministrativa, Torino, 1999, 156, “quelle che comunemente vengono chiamate società a partecipazione pubblica non sono una terza specie di enti pubblici: sono invece società per azioni nelle quali azionista, unico, di maggioranza o di minoranza, è l’ente pubblico. Si tratta, cioè, di una species del genus società per azioni (di diritto privato)”.
[5] Ottaviano, Ente pubblico, in Enc dir., XIV, 1965, precisa che “poiché la pubblicità è relativa ad una certa regolamentazione, la dichiarazione della natura pubblica di un ente che sia in contrasto con la disciplina in effetti disposta, da sola non sarebbe sufficiente a farlo qualificare pubblico. Normalmente, però, con il dichiarare che un ente è pubblico il legislatore intende indicare la regolamentazione pubblica che vuole applicare all’ente, sicché tale dichiarazione vale come espressione riassuntiva di siffatta normativa”.
[6] In Foro Amm., 1988, 3141.
[7] Cfr. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, Milano, 2006, 71.
[8] Cfr. Virga, Diritto Amministrativo, I principi, Milano, 1989, 14. Cerulli Irelli – “Ente pubblico”: problemi di identificazione e disciplina applicabile, in Cerulli Irelli e Morbidelli (a cura di), Ente pubblico ed enti pubblici, Torino, 1994, 89 – ribadisce che “non basta una mera disposizione del legislatore per dire che un ente è pubblico. Ovvero, la disposizione del legislatore che attribuisce o che nega la pubblicità di un ente può essere ritenuta a sua volta illegittima, sotto il profilo costituzionale ovvero comunitario”. Per Cass., sez. Un., ord. 22 dicembre 2003 n. 19667, in Foro amm. – CdS, 2004, 685,“sono attribuiti alla Corte dei conti i giudizi di responsabilità amministrativa,…anche nei confronti di amministratori e dipendenti di enti pubblici economici (restando invece per tali enti esclusa la responsabilità contabile), essendo irrilevante il fatto che detti enti – soggetti pubblici per definizione, istituiti per il raggiungimento di fini del pari pubblici attraverso risorse di eguale natura – perseguano le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato” (nella specie, il giudizio di responsabilità per danno erariale era stato promosso nei confronti del presidente e degli altri componenti del consiglio di amministrazione nonché di dipendenti di un consorzio comprensoriale per la gestione di opere acquedottistiche – istituito tra vari comuni ai sensi dell’art. 25 L. n. 142/90 – per fatti attinenti allo svolgimento di un’operazione finanziaria dell’ente, e dunque all’attività imprenditoriale dello stesso). Cass. sez. Un., 26 febbraio 2004 n. 3899, in Foro amm. – CdS, 2004, 375, va ancora oltre, affermando che“l’affidamento, da parte di un Comune (nella specie: quello di Milano) ad un ente privato esterno (nella specie, una società per azioni, avente un capitale detenuto in misura assolutamente maggioritaria dallo stesso Comune), della gestione del servizio relativo agli impianti e all’esercizio dei mercati annonari all’ingrosso, integra una relazione funzionale incentrata sull’inserimento del soggetto privato controllato nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale, non rilevando, in contrario, nè la natura privatistica dell’ente stesso, nè la natura privatistica dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto in questione”. Per Cass., Sez. Un., 2 luglio 2004 n. 12192, in Foro it., 2006, 1518, “spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in ordine all’accertamento della responsabilità degli agenti contabili (nella specie, una società per azioni e una società a responsabilità limitata) in relazione ai danni da essi prodotti ad un ente locale (il Comune di Roma) per la gestione della sosta a pagamento sul suolo comunale e dei parcheggi a pagamento”.
[9] Così Cerulli Irelli, Ente pubblico, cit., 87, il quale (pag. 85, nota 2) rileva anche che “la nozione di “ente pubblico” come nozione unitaria (come quella che designa una serie di fattispecie accomunate da una disciplina generale) è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, pur supportata da una produzione dottrinale assai nota”.
[10] Cfr. Cerulli Irelli, Ente pubblico, cit., 85.
[11] Cfr. Sorace, op.cit., 226, il quale cita l’art. 11 del cod.civ., ai sensi del quale “gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”.
[12] Per tale classificazione vedi Cerulli Irelli, Ente pubblico, cit., 90 ss.
[13] Vedi ad es. gli artt. 203, 204 e 207, D. Lgs. 207/2000, relativi rispettivamente alle regole da rispettare, da parte degli enti locali, per il ricorso all’indebitamento, per assumere direttamente mutui, per rilasciare fideiussioni a favore “di aziende da essi dipendenti, da consorzi cui partecipano nonché dalle comunità montane di cui fanno parte”.
[14] Cfr. Casetta, op.cit., 71, il quale rileva anche che “l’interesse è pubblico non già perché ontologicamente si possa qualificare come tale, ma in quanto la legge, accertato che esso ha una dimensione collettiva, l’abbia imputato ad una persona giuridica, tenuta giuridicamente a perseguirlo: di qui il riconoscimento della <<pubblicità>> di quella persona giuridica”.
[15] Infatti, Cass. pen, sez. V, 14 aprile 1980, in Cass. pen., 1981, 1541, dopo aver precisato che “Il momento di individuazione della natura pubblica di un ente non va ricercato negli scopi da esso perseguiti (dal momento che mentre alcuni enti privati perseguono finalità cui tende lo Stato stesso, come quelle relative all’istruzione e al credito, quest’ultimo, a sua volta, interviene frequentemente in concorrenza con i privati in attività di natura privatistica, come nel campo dell’economia e della produzione), ma nel regime giuridico dello stesso nonché nella sua collocazione istituzionale in seno all’organizzazione statale, come organo ausiliario necessario al raggiungimento di finalità di interesse generale e, in quanto tale, dotato di poteri e prerogative analoghi a quelli dello Stato e assoggettato ad un intenso sistema di controlli pubblici”, conclude che “I caratteri sopra indicati si riscontrano negli automobil clubs provinciali, ai quali pertanto deve riconoscersi la natura di enti pubblici”, con la conseguenza che “i funzionari di tali enti sono pubblici ufficiali e pubblici gli atti da essi posti in essere nell’esercizio delle loro funzioni”.
[16] Per una panoramica dei privilegi e delle limitazioni degli enti pubblici nel diritto positivo, vedi G. Rossi, Ente pubblico, in Enc. Giur. Treccani, Milano, XII, 1989, 12 s.s., il quale rileva (pag. 14) che sussistono “aspetti non marginali che danno corpo ad uno status pubblicistico connesso alla qualificazione pubblica degli enti, rendendo tutt’altro che evanescente la nozione di enti pubblici e che inducono quindi a ribadire la permanente necessità di una riflessione sulle ragioni della natura pubblica degli enti”.
[18] Per un esame dei rapporti tra i due articoli, e dei poteri del giudice ordinario nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, sia consentito rinviare a Trebastoni, La disapplicazione nel processo amministrativo, in Foro amm., 2000, 689 ss., nonché a Trebastoni, La tutela giurisdizionale dei dipendenti di pubbliche Amministrazioni, Torino, 2006, 105 ss.
[20] Corte Cost., 30 dicembre 1998 n. 463in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 81 Cost. Il divieto di notificare l’atto di precetto – introdotto dal comma 3 dell’art. 44 del D.L. 30 settembre 2003 n. 269, come modificato dalla relativa legge di conversione, 24 novembre 2003 n. 326 – trova la sua ratio nella circostanza di fatto che, nella prassi, i creditori, anche prima della scadenza dei 120 giorni, procedevano a notificare anche atto di precetto, con conseguente aggravio di spese per le Amministrazioni. C’è da rilevare che se il creditore, contestualmente al titolo esecutivo, notificava all’Amministrazione anche l’atto di precetto, si trovava nell’impossibilità di avviare concretamente l’esecuzione forzata. Infatti, l’art. 481 c.p.c. dispone che “il precetto diventa inefficace, se nel termine di novanta giorni dalla sua notificazione non è iniziata l’esecuzione”. E come precisato, l’esecuzione non può appunto più iniziare prima che siano trascorsi centoventi giorni dalla notifica del titolo esecutivo. Quindi il creditore deve opportunamente notificare previamente quest’ultimo, per notificare solo in un secondo momento l’atto di precetto; e se questo viene notificato una volta già decorsi i centoventi giorni, deve anche assegnare l’ulteriore termine di almeno dieci giorni per adempiere, come previsto dall’art. 482 c.p.c. , in Giust. civ., 1999, I, 1277, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità di tale disposizione, sollevata
[21] Ma Corte Cost., 18 giugno 2003 n. 211, in Foro amm. – CdS, 2003, 1823,ha dichiarato l’illegittimità del citato art. 159, commi 2, 3 e 4, nella parte in cui non prevede che la impignorabilità delle somme destinate ai fini indicati alle lettere a), b) e c) del comma 2 non operi qualora, dopo la adozione da parte dell’organo esecutivo della deliberazione semestrale di preventiva quantificazione degli importi delle somme destinate alle suddette finalità e la notificazione di essa al soggetto tesoriere dell’ente locale, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l’ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell’ente stesso. Sulla scia di tale pronuncia, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 4 novembre 2005 n. 2003, in Giustamm., ha affermato che “poiché il comma 5 del medesimo art. 159 dispone che i provvedimenti adottati dai commissari ad acta nominati in sede di giudizio di ottemperanza devono essere muniti dell’attestazione di copertura finanziaria “e non possono avere ad oggetto le somme di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2, quantificate ai sensi del comma 3”, è evidente che il venir meno del vincolo alla disponibilità di quelle somme deciso dalla Corte Costituzionale – nel caso in cui l’Ente abbia emesso mandati di pagamento “a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l’ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell’ente stesso” – non può non valere anche per i commissari ad acta, i quali devono quindi preliminarmente verificare se l’Ente abbia rispettato le rigorose procedure previste dalla legge, prima di seguire qualsiasi altra alternativa. Nel caso invece in cui tali procedure non siano state rispettate, e non siano disponibili altre somme, ne consegue che potranno essere utilizzate, al fine dell’esecuzione del giudicato, anche quelle destinate al pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi, al pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso, ed all’espletamento dei servizi locali indispensabili”. Corte Cost, 27 marzo 2003 n. 83manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale del citato art. 159, nella parte in cui non ammette procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai loro tesorieri, “in quanto deve escludersi che la disposizione censurata, che si limita a fissare una semplice modalità dell’azione esecutiva, evidentemente funzionale all’esigenza di imprimere una specifica destinazione alle risorse finanziarie dell’ente locale a tutela dell’interesse pubblico, sia di per sè lesiva del diritto di agire in giudizio e del principio di eguaglianza”., in Foro amm. – CdS, 2003, 850, ha comunque dichiarato
[23] La citata legge 52/91, di “disciplina della cessione dei crediti di impresa”, regolamenta una serie di aspetti, tra cui la “cessione di crediti futuri e di crediti in massa” (art. 3:1. I crediti possono essere ceduti anche prima che siano stipulati i contratti dai quali sorgeranno. 2. I crediti esistenti o futuri possono essere ceduti anche in massa. 3. La cessione in massa dei crediti futuri può avere ad oggetto solo crediti che sorgeranno da contratti da stipulare in un periodo di tempo non superiore a ventiquattro mesi. 4. La cessione di crediti in massa si considera con oggetto determinato, anche con riferimento a crediti futuri, se è indicato il debitore ceduto, salvo quanto prescritto nel comma 3”), la “garanzia di solvenza(art. 4: “1. Il cedente garantisce, nei limiti del corrispettivo pattuito, la solvenza del debitore, salvo che il cessionario rinunci, in tutto o in parte, alla garanzia”), “l’efficacia della cessione nei confronti dei terzi” (art. 5:1. Qualora il cessionario abbia pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione ed il pagamento abbia data certa, la cessione è opponibile: a) agli altri aventi causa del cedente, il cui titolo di acquisto non sia stato reso efficace verso i terzi anteriormente alla data del pagamento; b) al creditore del cedente, che abbia pignorato il credito dopo la data del pagamento; c) al fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento, salvo quanto disposto dall’articolo 7, comma 1. 2. È fatta salva per il cessionario la facoltà di rendere la cessione opponibile ai terzi nei modi previsti dal codice civile. 3. È fatta salva l’efficacia liberatoria secondo le norme del codice civile dei pagamenti eseguiti dal debitore a terzi”), la “revocatoria fallimentare dei pagamenti del debitore ceduto” (art. 6: “1. Il pagamento compiuto dal debitore ceduto al cessionario non è soggetto alla revocatoria prevista dall’articolo 67 del testo delle disposizioni sulla disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 . Tuttavia tale azione può essere proposta nei confronti del cedente qualora il curatore trovi che egli conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto alla data del pagamento al cessionario. 2. È fatta salva la rivalsa del cedente verso il cessionario che abbia rinunciato alla garanzia prevista dall’articolo 4”), il “fallimento del cedente” (art. 7:1. L‘efficacia della cessione verso i terzi prevista dall’articolo 5, comma 1, non è opponibile al fallimento del cedente, se il curatore prova che il cessionario conosceva lo stato di insolvenza del cedente quando ha eseguito il pagamento e sempre che il pagamento del cessionario al cedente sia stato eseguito nell’anno anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento e prima della scadenza del credito ceduto. 2. Il curatore del fallimento del cedente può recedere dalle cessioni stipulate dal cedente, limitatamente ai crediti non ancora sorti alla data della sentenza dichiarativa. 3. In caso di recesso il curatore deve restituire al cessionario il corrispettivo pagato dal cessionario al cedente per le cessioni previste nel comma 2”).
[24] Cfr. Cons. St., sez. IV, 15 aprile 1997 n. 399, in Foro Amm., 1997, 1069.
[25]L’obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza”.
[26] Così Cass. civ., sez. I, 28 marzo 1997 n. 2804, in Giust. civ. Mass., 1997, 497. Ma vedi Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 1998 n. 876, in Foro Amm., 1998, 1380: “le regole del diritto privato sull’esatto adempimento delle obbligazioni si applicano ai debiti di ogni natura dell’amministrazione pubblica. Pertanto l’eventuale esigenza di adottare le procedure della contabilità pubblica, l’incertezza sul quantum delle somme da corrispondere o sull’identificazione dell’amministrazione debitrice non giustificano la deroga al principio della responsabilità del debitore per l’inesatto o tardivo adempimento della prestazione, nè a quello che fa decorrere gli interessi dal giorno della costituzione in mora…”. Ora, per quanto riguarda il termine dell’adempimento in generale, la disciplina del procedimento contabile contenuta nel D.P.R. 20 aprile 1994 n. 367, Regolamento recante semplificazione e accelerazione delle procedure di spesa e contabili,stabilisce, all’art. 7, che i pagamenti avvengano “nel tempo stabilito dalle leggi, dai regolamenti e dagli atti amministrativi generali”, con la conseguenza, affermata in dottrina, che, “in ogni caso, alla scadenza del termine per il pagamento, il credito liquido si deve quindi ritenere senz’altro esigibile”: Casetta, op. cit., 644. Ma vedi ora il D. Lgs. 9 ottobre 2002 n. 231, di “attuazione della Direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. Tale decreto, nel prevedere, all’art. 1, che le disposizioni in esso contenute “si applicano ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”, precisa, all’art. 2, lett. a), che per transazioni commerciali debbano intendersi “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”. E dopo avere stabilito, all’art. 3, che “il creditore ha diritto alla corresponsione degli interessi moratori, ai sensi degli articoli 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, dispone, all’art. 4, commi 1 e 2, che “gli interessi decorrono, automaticamente, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento” (cioè il termine stabilito in contratto) e anche che ciò avviene “automaticamente, senza che sia necessaria la costituzione in mora”. Sull’argomento sia consentito rinviare a Trebastoni, Pagamenti delle pubbliche Amministrazioni e rispetto dei termini, in Foro amm. – CdS, 2003, 3493.
[27] Sull’argomento sia consentito rinviare a Trebastoni, Ripetizione di aiuti comunitari e riscossione privilegiata (nota a Cons. St., sez. VI, 8 maggio 2001 n. 2599), in Foro amministrativo – CdS, 2002, 1524. L’art. 2 del citato R.D. dispone che “il procedimento di coazione comincia con la ingiunzione, la quale consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare entro trenta giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta”. Come specificato dal successivo art. 3, “entro trenta giorni dalla notificazione della ingiunzione, il debitore può contro di questa produrre ricorso od opposizione avanti il conciliatore o il pretore, o il tribunale del luogo, in cui ha sede l’ufficio emittente, secondo la rispettiva competenza, a norma del Codice di procedura civile”. Lo speciale procedimento ingiunzionale disciplinato dal R.D. 639/1910 è comunemente ritenuto applicabile “non solo per le entrate strettamente di diritto pubblico, ma anche per quelle di diritto privato, trovando il suo fondamento nel potere di autoaccertamento della Pubblica Amministrazione”: così Cass. Sez. I, 15 giugno 2000 n. 8162, in Giust. civ. Mass., 2000, 1306. Il presupposto fondamentale richiesto è però “che il credito in base al quale viene emesso l’ordine di pagare la somma dovuta sia certo, liquido ed esigibile, senza alcun potere di determinazione unilaterale dell’amministrazione, dovendo la sussistenza del credito, la sua determinazione quantitativa e le sue condizioni di esigibilità derivare da fonti, da fatti e da parametri obiettivi e predeterminati, e riconoscendosi all’amministrazione un mero potere di accertamento dei detti elementi ai fini della formazione del titolo esecutivo”: Cass. Sez. I, 15 giugno 2000 n. 8162, cit. Una caratteristica fondamentale della c.d. “ingiunzione fiscale” è che essa cumula in sé le caratteristiche del titolo esecutivo e del precetto, e proprio per tale inscindibile cumulo “non può essere scissa e distinta in un titolo esecutivo e in un atto di precetto, ciascuno di essi regolato dalle norme del codice di procedura civile che lo riguardano, sicché alla stessa non può essere riferito ed applicato l’art. 481 cod. proc. civ., sulla cessazione dell’efficacia del precetto per il decorso del termine di 90 giorni dalla sua notifica senza che sia stata iniziata l’esecuzione”.
[28] Strettamente legato a tale profilo, sebbene inserito in una concezione ormai normativamente superata di Amministrazione dello Stato unitariamente considerata, è l’istituto del c.d. fermo amministrativo, disciplinato dall’art. 69 della legge di contabilità dello Stato (R.D. 18 novembre 1923 n. 2440). Secondo tale disposizione, qualora un’amministrazione dello Stato (non quindi una pubblica Amministrazione qualsiasi) – che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso soggetti che vantino crediti nei confronti di altre amministrazioni – richieda a queste ultime la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo. Dopo l’accertamento dell’esistenza del debito nei confronti del terzo, da parte dell’Amministrazione, con provvedimento definitivo potrà avvenire l’effettivo incameramento delle somme dovute dallo Stato al terzo, e la compensazione legale dei debiti con i crediti dello Stato. Come precisato in giurisprudenza, “il provvedimento di fermo amministrativo ha natura cautelare ed è assistito, per definizione, da motivi di urgenza, in quanto rivolto a sospendere, in presenza di ragioni di credito, eventuali pagamenti dovuti, la cui mancata erogazione, altrimenti, sarebbe ascritta a mora dell’amministrazione debitrice; proprio per la sua natura cautelare e intrinsecamente provvisoria, può essere adottato non solo quando il diritto di credito a cautela del quale è disposto sia già definitivamente accertato, ma anche quando il credito sia contestato, ma sia ragionevole ritenerne l’esistenza, posto che suo presupposto normativo…è la mera <<ragione di credito>> e non la provata esistenza del credito stesso”: così Cons. St., sez. VI, 8 aprile 2002 n. 1909, in Foro amm. CDS, 2002, 965.
[29] Sulle società per azioni a cui “partecipano lo Stato o gli enti pubblici” in Auletta-Salanitro – Diritto commerciale, XIV ed., Milano, 2003, 261 ss. – nell’esaminare le particolarità di tale disciplina (potere esclusivo di nomina e revoca di amministratori, potere di esprimere il gradimento all’acquisizione di partecipazioni rilevanti ai fini del controllo della società, potere di veto all’adozione di delibere di scioglimento o fusione della società, ecc.), si rileva che “anche tali società rimangono di natura privata, ma poiché alla disciplina di diritto comune sono apportate alcune deroghe, le società con partecipazione pubblica vengono anche definite <<società di diritto speciale>>”.
[30] Cfr., ex multis, Cons. St., Ad. Pl., 7 luglio 1975 n. 5.
[31] Ottaviano, op. cit., rileva che “un ente che sia dotato di poteri pubblici è pubblico. Non vale però la proposizione inversa, giacché…la attività dell’ente può essere regolata come compiuta nell’esercizio di un compito pubblico anche se svolta verso i terzi nelle forme del diritto privato”.
[32] Vedi T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. I, 7 febbraio 2005 n. 145, in Foro amm. – T.A.R., 2005, 2, 557, per la precisazione che “la natura giuridica dell’ente resistente (nella fattispecie, società consortile a partecipazione pubblica minoritaria, avente personalità giuridica di diritto privato) non implica, di per sè, l’impossibilità di qualificare i relativi atti come provvedimenti amministrativi; pertanto, gli atti con i quali i gruppi di Azione Locale (cosiddetti Gal), incaricati di gestire sovvenzioni pubbliche da concedere ai destinatari finali del finanziamento, procedono, attraverso un procedimento di evidenza pubblica, all’individuazione delle proposte progettuali più vantaggiose, costituiscono esercizio di funzioni oggettivamente pubblicistiche, per cui sono soggetti alla giurisdizione del g.a.”. Per T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 6 agosto 2002 n. 7010, in Foro amm. – T.A.R., 2002, 2532, gli atti delle Ferrovie dello Stato s.p.a. e della Rete Ferroviaria Italiana sono soggettivamente ed oggettivamente amministrativi, “perché, nonostante la veste solo formalmente privatistica, tali società sono concessionarie "ex lege" della gestione del servizio di trasporto ferroviario e quindi sostituto ed organo indiretto della p.a.”. Interessanti le considerazioni di A. Romano – Relazione al convegno di studi su “Le nuove regole dell’azione amministrativa” (Catania, 11 e 12 novembre 2005), Catania, 2006, 16 – il quale evidenzia che le regole cui sono assoggettate le pubbliche Amministrazioni hanno “una precisa ragion d’essere e quindi, una radice comune. Conseguono, cioè, da un principio di base: l’attività dell’amministrazione che ne è oggetto, deve considerarsi permeata intrinsecamente dalla sua funzionalizzazione a fini collettivi; solo da questo punto di vista, mi pare, si può comprendere perché la vincolino, e in che modo, sul fondamento del principio di legittimità. Quindi, la disposizione che sottopone quell’azione di tali soggetti privati, in tale loro ruolo, alle medesime regole che le amministrazioni devono osservare quando agiscano anzitutto pubblicisticamente, ha un chiaro presupposto: che anche questa azione debba considerarsi del pari così funzionalizzata. È abbastanza generalmente accettato, e da tempo, che così accada, quando tali soggetti privati operino esercitando capacità pubblicistiche: che, come è tradizionalmente risaputo, possono essere attribuite, per esempio, ai concessionari di funzioni pubbliche, sia pure entro certi limiti e con certi caratteri. Ma, ora, si deve precisare: la medesima funzionalizzazione deve essere rilevata pure in quella attività amministrativa che quei soggetti privati medesimi esercitino con la loro capacità di diritto comune. Certo, è assai problematico distinguere e delimitare questa attività così funzionalizzata di tali soggetti, dall’altra che per loro è generalmente connaturata, che funzionalizzata non è, che è da loro liberamente determinata secondo i loro personalissimi scopi e valutazioni. Ma che la prima esista pare indubbio”.
[33] Per un esame delle problematiche legate all’applicazione di tale normativa, riproduttiva della norma di cui all’art. 6 L. 205/2000, vedi De Nictolis, Affidamenti di lavori, servizi e forniture, in Caringella-Garofoli,Trattato di Giustizia Amministrativa, Il riparto di giurisdizione, Milano, 2005, vol. I, 823 ss.
[34] Cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 23 febbraio 2006 n. 265, in Foro amm. T.A.R., 2006, 764, che ammette la possibilità di presentare una dichiarazione sostitutiva, al posto dell’attestazione rilasciata da una Società di Attestazione (SOA), in un caso in cui la commissione aveva escluso dalla gara la ricorrente proprio per non aver prodotto l’attestazione, nonostante né il bando né il disciplinare di gara contenessero alcun divieto espresso di sostituire la predetta attestazione con una dichiarazione sostitutiva. Cfr. anche Id., 5 ottobre 2006 n. 16178 (a proposito della presentazione della copia dell’attestazione), e Cons. St., sez. VI, 14 ottobre 2003 n. 6280., in Servizi pubbl. e appalti, 2004, 180
[35] Anche degli enti locali, visto che l’art. 138 del D. Lgs. N. 267/2000 (T.U. enti locali) lo fa salvo.
[36] Corte Cost. 21 aprile 1989 n. 229, in Rass. Avv. Stato, I, 15, ha dichiarato incostituzionale la disposizione citata, nella parte in cui prevede l’adozione da parte del Consiglio dei Ministri delle determinazioni concernenti l’annullamento straordinario degli atti amministrativi illegittimi delle Regioni e delle Province autonome.
[37] Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d. (ma 1910), 650.
[38] Cfr. Cammeo, op. cit., 651.
[39] Cfr. Rossi, Introduzione al Diritto Amministrativo, Torino, 2000, 201.
[40] Così Cammeo, op. cit., 652.
[41] Cfr. M.S. Giannini, Il problema dell’assetto e della tipizzazione degli enti pubblici nell’attuale momento, in Riordinamento degli enti pubblici e funzioni delle loro Avvocature, Napoli, 1974, 43.
[42] Cfr. Cerulli Irelli, Corso di Diritto Amministrativo, Torino, 2001, 116.
[43] Per Ottaviano, op. cit., tali indici “rivelano la natura pubblica dell’ente solo se ne dimostrano il dovere istituzionale di agire per la cura di un interesse collettivo”. Cfr., nell’ottica esposta nel testo, quanto precisato da Cons. St., sez. VI, 25 maggio 1979 n. 384, in Riv. amm. R. It., 1979, 643: “Il perseguimento di finalità e di interessi pubblici, da un lato, e la sottoposizione ai poteri di direttiva e di controllo da parte di Enti pubblici, dall’altro, non costituiscono, di per sè, elementi a cui sia necessariamente collegabile la pubblicità del soggetto, com’è dimostrato da una vastissima serie di Istituti (taluni dei quali come i Partiti ed i Sindacati, esercitano addirittura funzioni di rilevanza costituzionale), di cui è concordemente ammessa la natura privata”; per cui “al fine di affermare la natura pubblica di un Ente non è sufficiente il collegamento dell’Ente stesso con un Ente pubblico esponenziale del sistema organizzatorio di cui esso fa parte, ma è richiesta un’indagine specifica, intesa ad accertare la sussistenza degli elementi sostanziali e formali che costituiscono gli indici necessari della pubblicità”. In termini analoghi Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 1977 n. 5245, in Riv. amm. R. It., 1978, 618: “I caratteri distintivi dell’ente pubblico non stanno nelle finalità da esso perseguite, dal momento che alcuni enti, sicuramente privati, perseguono finalità a cui tende lo Stato stesso mentre quest’ultimo svolge anche attività privatistiche, ma sono dati in modo preminente dalla titolarità di pubblici poteri, di autoorganizzazione, di certificazione e di autotutela, dalla operatività necessaria, ossia dall’impossibilità che i suoi compiti vengano espletati da altri soggetti che non siano altri enti pubblici ad essi preposti, e dall’impossibilità che l’ente stesso fallisca o si estingua per propria volontà, nonché dal controllo e dall’ingerenza dello Stato o di altri enti pubblici sulla formazione della sua volontà”. Il concetto è ribadito da Cass. civ., sez. un., 19 luglio 1982 n. 4212, in Giust. civ. Mass., 1982: “la natura pubblicistica o privatistica dell’attività di un ente pubblico deve essere desunta, più che dalla correlazione o meno con le finalità istituzionali dell’ente, dal tipo di organizzazione con cui essa viene esplicata, dovendosi qualificare attività pubblicistica quella che si svolga utilizzando un’organizzazione improntata a criteri pubblicistici, indipendentemente dalla sua correlazione con il fine primario o con un fine strumentale e secondario del medesimo ente, mentre deve qualificarsi privatistica l’attività che, pur se diretta al perseguimento di una finalità istituzionale, si svolga mediante un’organizzazione improntata a criteri di economicità, cioè tesa al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi”.
[44] Così Cons. St., sez. VI, 23 ottobre 1973 n. 397. Anche T.A.R. Lombardia, 15 luglio 1981 n. 796, in Tributi, 1981, 819,afferma che “nei casi in cui sia difficile accertare la natura – pubblica o privata – di un ente, diviene decisivo l’aspetto formale attinente al regime delle norme, di diritto pubblico o privato, in cui l’ente, in virtù degli atti che ne disciplinano l’attività, è tenuto a operare”. Vedi anche A.M.Sandulli, Manuale di Diritto Amministrativo, Napoli, 1989, 193-194: “l’elemento al quale occorre rifarsi per stabilire, nei casi dubbi (e cioè nei casi in cui un ente non sia definito pubblico, direttamente o indirettamente, dalle leggi), se si sia in presenza di un ente pubblico, non può essere cercato tanto negli interessi (generalmente collettivi, ma non sempre propri dell’Ente superiore, Stato o Regione, legittimato ad istituire un tale ente) che l’ente persegue, quanto nel regime (trattamento) che ai singoli enti faccia il diritto positivo (e cioè nell’aspetto formale). Ciò che occorre determinare è unicamente se l’ente del quale si tratti sia collocato dall’ordinamento in una posizione giuridica particolare, differenziata da quella propria dei soggetti di diritto comune, o, meglio, se l’ente sia assoggettato ad un regime giuridico il quale gli conferisca poteri e prerogative di diritto pubblico, che in qualche modo lo assimilino a quelli degli enti che sicuramente hanno natura pubblica, facendone perciò un «pubblico potere». La peculiarità di tale posizione fatta agli enti pubblici trova la sua ragion essere nel fatto che essi, nel perseguire i propri fini, soddisfano interessi che stanno particolarmente a cuore all’ordinamento generale, e anzi talvolta hanno per compito addirittura la cura di interessi propri dell’Ente superiore, Stato o Regione (enti strumentali). È infatti appunto in considerazione di tali circostanze che l’ordinamento fa, di tali enti, dei soggetti pubblici, inserendoli così nel sistema delle pubbliche Amministrazioni. Il momento di individuazione della categoria degli enti pubblici va perciò cercato in elementi estrinseci e formali: e precisamente proprio nel regime giuridico, e nell’inserimento istituzionale degli enti stessi nell’organizzazione amministrativa pubblica, che può avere carattere multiforme, per cui si parla di atipicità degli enti pubblici e della loro capacità giuridica”. A proposito degli orientamenti giurisprudenziali in materia di indici di riconoscibilità di un ente pubblico vedi anche B. Mollica, Gli enti pubblici non economici, in Falcone-Pozzi (a cura di), Il Diritto Amministrativo nella giurisprudenza, I, Torino, 1998, 183.
[45] Virgilio, op.cit., 86, cita la Patrimonio dello Stato s.p.a., costituita – ex art. 7, 1° comma, D.L. 63/2002, conv. in L. 15 giugno 2002 n. 112 – allo scopo di “valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato”: “società formalmente privata, ma sostanzialmente pubblica con funzioni tipiche di ente strumentale, poiché il capitale non può essere che pubblico ed opera secondo direttive ministeriali previa delibera del CIPE”.
[46] Cfr. A. Romano, Introduzione, in Mazzarolli, Pericu, A. Romano, Roversi Monaco, Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, III ed., Bologna, 2001, 55 ss., 276.
[47] Cfr. Rossi, Introduzione, cit., 203.
[49] Cfr. Caringella, op.ult.cit., 798 s.s.
[50] Cfr., ex multis, Corte Giust. CE, 30 maggio 1989, causa C-33/88, in Racc., 1989, 1591.
[51] Così Corte Giust. CE, 12 luglio 1990 n. 188, causa C-188/89, in Dir. lav., 1991, II, 44. Vedi anche Cass. Civ., sez. III, 23 gennaio 2002 n. 752, in Giur. it., 2002, 1273.
[52] Cioè i principi di imparzialità, partecipazione, diritto di accesso, obbligo di motivazione, risarcibilità dei danni prodotti dall’amministrazione, termine ragionevole nel quale le pubbliche amministrazioni debbono pronunciarsi, proporzionalità, legittima aspettativa.

Trebastoni Dauno F.G.

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