I fondamenti internazionali della mediazione penale minorile

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La giustizia penale minorile, fra tutti gli ambiti del diritto minorile, è quello nel quale si è sviluppato il maggior numero di fonti internazionali. Questo crescente impegno da parte degli Stati è dettato principalmente da due ragioni, da una parte la specificità del minore (che, quindi, va trattato in maniera diversa dall’adulto anche e soprattutto quando cade nel circuito penale) riconosciuta per la prima volta nella Dichiarazione di Ginevra sui diritti del bambino del 1924 e dall’altra la necessità di arginare l’aumento della delinquenza minorile o di quelle forme che vanno sotto il nome di disagio o devianza minorile.

Il primo testo è rappresentato dalle “Regole minime sull’amministrazione della giustizia dei minori” (chiamate Regole di Pechino) adottate dall’ONU il 29 novembre 1985. Questo strumento internazionale relativamente corto (soltanto 30 articoli) e non vincolante è molto importante perché colma una lacuna – infatti, gli atti precedenti elaborati in seno all’ONU (Regole minime per il trattamento dei detenuti del 1955 e il Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966) non facevano alcun esplicito riferimento alla giustizia minorile – e perché contiene un implicito rinvio alla mediazione penale nell’art. 11.

I principi espressi nelle Regole di Pechino acquistano forza vincolante nella Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo del 1989 che dedica ampio spazio alla giustizia minorile nell’art.40. Di quest’articolo, la mediazione penale risponde al dettato del par. 1: “il diritto del fanciullo […] a essere trattato in un modo che risulti atto a promuovere il suo senso di dignità e valore che rafforzi il suo rispetto dei Diritti Umani e delle libertà altrui, e che tenga conto della sua età, nonché dell’esigenza di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli assumere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima”. A coronamento dell’articolo 40 il par. 4: “Saranno previste norme relative […] a soluzioni alternative al trattamento istituzionale, al fine di garantire che i fanciulli vengano trattati in modo adeguato al loro benessere e proporzionato sia alla loro specifica condizione sia al reato commesso” (si legga anche il par.3 lett. b). La ratio della mediazione penale si attaglia altresì all’art. 39 “assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza”, perché se il minore è giunto a delinquere ci sarà stata la negligenza di qualche soggetto. Inoltre la mediazione ha certamente una valenza educativa perché inculca nel fanciullo il rispetto e lo prepara ad assumere le responsabilità della vita in società (art. 29). Anche altri articoli forniscono indicazioni che si addicono alla mediazione penale, come il diritto all’ascolto (art. 12 par. 2), il diritto allo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale (art. 27 par. 1), diritti che misure diverse dalla mediazione non garantiscono altrettanto. Significativi sono pure i principi espressi nel Preambolo della Convenzione “il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” e “occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali proclamati nello Statuto delle Nazioni Unite e in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà”. La mediazione penale, come ogni forma di mediazione, è informata alla comprensione, alla tolleranza e alla solidarietà (sul cui significato etimologico sarebbe bene riflettere).

Successive alla Convenzione di New York e ad essa ispirate sono in ordine cronologico:

  • Direttive per la prevenzione della delinquenza giovanile del 14 dicembre 1990 (cosiddette Direttive di Riyad; qui la prevenzione della delinquenza giovanile è affrontata in modo positivo, come promovimento del benessere e dell’integrazione sociale, componenti necessarie per evitare che un minore si renda protagonista di comportamenti delittuosi);
  • Regole per la protezione dei minori privati della libertà del 14 dicembre 1990 (denominate Regole dell’Avana);
  • Legge-tipo della giustizia minorile del settembre 1997 preparata dal Centre for the international Crime Prevention dell’ONU.

A livello europeo il Consiglio d’Europa si è occupato di queste tematiche nella Raccomandazione sulle risposte sociali alla devianza giovanile n.87(20), adottata dal Comitato dei Ministri il 17 settembre 1987 (per la mediazione penale si vedano gli artt. 2 e 3).

Il concetto di diritto penale minorile configurato in queste fonti risponde ad un diritto penale minimo che preveda l’applicazione delle quattro “D” in ordine progressivo:

decriminalizzazione, degiudizializzazione, diversione (ricorso a vie extragiudiziarie) e deistituzionalizzazione. Queste quattro “D” non partecipano tanto di quel processo di degiuridificazione che interessa altri campi quanto di un processo di umanizzazione del diritto resa ancor più necessaria dall’età di una delle parti (aspetto dell’età rimarcato nell’art. 37 lett. c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in cui si richiamano l’”umanità” e la “dignità umana”) e dalla materia delicata del diritto penale.

Inoltre sono posti i pilastri del processo penale minorile:

specializzazione dei soggetti che vi intervengono;

indagine sulla personalità del minore;

presa in considerazione dell’opinione del minorenne;

coinvolgimento necessario dei genitori.

Orbene la mediazione penale minorile nasce proprio dall’applicazione delle quattro “D” ed in modo particolare della cosiddetta “diversion” (facendo attenzione ai vari significati che ha questa parola nella lingua inglese) e risponde ai principi fondamentali del processo penale minorile.

La mediazione penale, cui ha dato un grosso contributo la vittimologia (scienza che ha avuto un nuovo impulso negli U.S.A. intorno ai primi anni ’70), è una modalità della giustizia riparativa che non è tanto il superamento dei due precedenti modelli di giustizia, retributivo e socio-riabilitativo, quanto il loro completamento. In sede penale la mediazione consiste in un percorso di incontro, confronto e dialogo tra il reo e la vittima del reato per permettere il passaggio dalla violenza al riconoscimento della sofferenza di cui essa è portatrice, dal disordine alla costruzione di un nuovo ordine (è una sorta di riparazione psicologica). E’ importante soprattutto nel nostro processo penale minorile perché si dà voce alla persona offesa dal reato che non può costituirsi parte civile (art. 10 D.P.R. 448/1988).

L’intervento mediativo è ancor più determinante quando vittima è il minore, specialmente nei reati consumati in famiglia serve a ripristinare il rapporto tra minore vittima e parente autore del reato e nei reati sessuali risponde altresì ai principi espressi nel “Protocollo facoltativo alla Convenzione sui diritti dell’infanzia riguardante il traffico di bambini, la prostituzione infantile e la pornografia infantile” del 25 maggio 2000. Infatti, in quest’ultimo atto si legge all’art. 8 par. 1 “ Gli Stati Parti dovranno adottare misure appropriate per proteggere i diritti e gli interessi dei bambini vittime delle pratiche proibite dal presente Protocollo durante tutte le fasi del processo di giustizia penale, in particolare: (lett. c) consentendo che le opinioni, i bisogni e le preoccupazioni dei bambini vittime siano presentati e presi in considerazione nei processi nei quali sono coinvolti i loro interessi personali, in conformità alle regole procedurali previste dalle leggi nazionali” e all’art. 9 par. 3 “ Gli Stati Parti dovranno adottare ogni misura possibile con lo scopo di assicurare tutta l’adeguata assistenza alle vittime di tali reati, inclusa la loro piena reintegrazione sociale e la loro completa riabilitazione fisica e psicologica”.

A suggello di tutto ciò il documento elaborato nel 2005 a cura dell’UNICEF Italia “Per una mediazione a misura di bambini”, ove si legge: “La mediazione in tutte le sue forme costituisce uno strumento di elevato valore sociale per la realizzazione – a opera della stessa società – della pace sociale e per garantire la tutela dei diritti dell’infanzia. Tale valore si esprime in particolare nei conflitti sociali connessi a problematiche interetniche, nei conflitti emergenti in ambito scolastico, nei conflitti connessi a relazioni familiari e intergenerazionali e nei conflitti connessi a fatti di rilevanza penale o inerenti all’ordinamento penitenziario”. Con l’auspicio, per un futuro migliore per tutti e non solo per i bambini, che, ancor prima della diffusione della cultura della mediazione, si recuperi la cultura dell’educazione, perché come sostiene il Premio Nobel per la pace, Nelson Mandela, “l’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo”. Quel mondo migliore che è l’obiettivo della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite firmata nel settembre 2000.

 

Dott.ssa Margherita Marzario

Docente, laureata in giurisprudenza e perfezionata in legislazione minorile, cultrice di scienze umane

Dott.ssa Marzario Margherita

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