Gli enti non profit nella codificazione dei contratti pubblici di forniture di lavori, servizi e forniture – Consiglio di Stato, sezione VI, con la sentenza 16 giugno 2009 n. 3897 –

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Il Consiglio di stato, Sezione VI, con la sentenza 16 giugno 2009 n. 3897, affronta e decide in modo molto importante sul piano giurisprudenziale, stabilendo che la nozione di imprenditore di matrice europea, da applicare alla normativa sugli appalti pubblici, è profondamente diversa da quella emergente dal codice civile italiano, che, invece, non trova spazio per la regolamentazione delle gare pubbliche.
Il Tar del Lazio, con la sentenza n. 7591 del 2008 ha accolto il ricorso della società ricorrente ritenendo fondata la censura della violazione dell’art. 34 del codice dei contratti pubblici approvato con d. lgs. n. 163 del 2006, e cioè la illegittima partecipazione alla gara, nel raggruppamento aggiudicatario, di una fondazione, ed ha assorbito tutti gli altri motivi.
Al riguardo il Tar ha ritenuto che l’elencazione dei soggetti ammessi alle gare (art. 34) sia tassativa e che, in mancanza di espressa previsione, le fondazioni non possano essere ammesse alle gare pubbliche, ciò in quanto esse, ai sensi dell’art 14 e seguenti c.c., hanno specifiche peculiarità: “si tratta di un soggetto, costituito da un patrimonio, personificato dall’ordinamento per la realizzazione di uno scopo determinato, considerato di utilità sociale…..; la rilevanza sociale dello scopo, di carattere non lucrativo, impedisce qualsiasi assimilazione delle fondazioni alle società commerciali, il cui elemento fondamentale è costituito invece dalla divisione degli utili tra i soci”.
 
 
La sentenza del Consiglio di Stato n. 2785 del 2003, che sembrerebbe ammettere alle gare pubbliche le fondazioni, “è precedente alla previsione espressa nell’art. 34 del codice degli appalti”.  
La nuova scelta del legislatore del codice di non far partecipare le fondazioni si spiega anche per il regime fiscale di favore di cui esse godono, con conseguenti riflessi sulla parità di condizioni tra i concorrenti. Inoltre “nell’ambito della disciplina civilistica è discussa la natura di imprenditore commerciale delle fondazioni, in quanto, anche se svolgono attività di impresa, questa resta collaterale e comunque finalizzata ad uno scopo non di lucro”.
Qualora la fondazione assuma il carattere dell’impresa commerciale ai sensi dell’art. 2082 c.c. “sarebbe illegittimo il decreto di riconoscimento e dovrebbe essere disapplicato”; “la previsione dell’art. 34 del codice si riferisce alla nozione di impresa solo per l’imprenditore individuale, mentre per i soggetti collettivi o personificati, fa riferimento espresso alle società commerciali che, com’è noto, sono i tipi previsti dagli artt. 2291 e segg. c.c.”.
 
La sentenza del Tar, depositata il 29.7.2008, è stata successivamente appellata sia dalla Fondazione sia dalla stazione appaltante.
 Il primo appello (della Fondazione ed altro) censura la sentenza impugnata ( in relazione all’unico motivo ivi accolto di violazione dell’art. 34 del codice degli appalti) per violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d. lgs. n. 163 del 2006, degli artt. 3, commi 19 e 20, dello stesso codice, dell’art. 1, commi 2 e 8, e dell’art. 4 della direttiva 2004/18/CE, per cui risulta infondata l’affermazione che l’elenco dell’art. 34 del codice degli appalti sarebbe tassativo e non contemplerebbe le fondazioni tra i soggetti ammessi a partecipare alle gare.
L’art. 3, comma 19, del codice indica che per “imprenditore”, “fornitore” e “prestatore di servizi” si intende “una persona fisica o una persona giuridica o un ente senza personalità giuridica…che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi”.
Il comma 20 precisa poi che per “raggruppamento temporaneo” si intende l’insieme di imprenditori o fornitori o prestatori di servizi costituito allo scopo di partecipare a una specifica gara pubblica.
Ne consegue che l’art. 34 contiene un’elencazione solo indicativa e ciò anche alla luce delle predette disposizioni comunitarie che hanno introdotto un concetto ampio di imprenditore, quale “operatore economico” (cfr. Corte di giustizia 1.7.2008, causa C-49/07; 10.1.2006, causa C-222/04; 29.9.2007, causa C-119/06), nel senso che è l’elemento oggettivo, e non quello soggettivo, che qualifica la definizione di impresa.
 
La Fondazione ricorrente ha eccepito inoltre di avere nel suo statuto lo svolgimento di ogni attività economica per il raggiungimento dello scopo di prestare cura agli infermi, è iscritta alla Camera di commercio, è riconosciuta dal 1972 come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto privato ed è stata accreditata dalla Regione.
Esercita, al pari di altre strutture sanitarie, un’attività di carattere imprenditoriale in campo sanitario.
Il fatto che non persegua un utile, non le impedisce di svolgere un’attività economica sul mercato e di concorrere con altre strutture e società commerciali che operano nel medesimo settore.
 
 
Va precisato come il Consiglio di Stato osservi, quanto alla natura dei soggetti legittimati ad accedere ai contratti pubblici, che la previsione legislativa nazionale (art. 3, punto 19, del codice dei contratti) riferisce i termini di imprenditore, fornitore e prestatore di servizi ad “una persona fisica, o una persona giuridica, o un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico ( GEIE ) costituito ai sensi del decreto legislativo 23 luglio 1991, n. 240, che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi”.
Parimenti la norma comunitaria (art. 1, par. 8, della direttiva n. 2004/18/CE) indica che “i termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi”.
 
Non v’è quindi ragione di escludere che anche soggetti economici senza scopo di lucro, quali le fondazioni, possano soddisfare i necessari requisiti ed essere qualificati come “imprenditori”, “fornitori” o "prestatori di servizi" ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, attese la personalità giuridica che le fondazioni vantano e la loro capacità di esercitare anche attività di impresa, qualora funzionali ai loro scopi e sempre che quest’ultima possibilità trovi riscontro nella disciplina statutaria del singolo soggetto giuridico.
Viene in tal modo precisata la linea di demarcazione che distingue la disciplina codicistica interna dell’imprenditore, dal concetto di «operatore economico» discendente dalla normativa comunitaria: la definizione comunitaria di impresa non deriva da presupposti soggettivi, ma da elementi oggettivi. Non ha, dunque, rilevanza alcuna che l’ente persegua lo scopo di lucro. Occorre, invece, ai sensi dell’articolo 3, comma 19, del dlgs 163/2006, che il soggetto intenzionato a partecipare a gare d’appalto offra nel mercato beni e servizi da scambiare con altri soggetti. Ciò, di per sé, consente di qualificare il soggetto come «imprenditore» alla luce della disciplina comunitaria: infatti l’offerta nel mercato di prestazioni rientranti tra quelle disciplinate dal codice dei contratti è da considerare attività di impresa, anche quando tale attività non sia quella principale dell’operatore economico.
 
 
Viene pertanto ritenuta non accettabile la sentenza del Tar, in primo grado, sopra citata con cui si ritiene che la natura giuridica della Fondazione, costituita da un patrimonio personificato dall’ordinamento per la realizzazione di uno scopo determinato considerato di utilità sociale, unitamente al carattere non lucrativo della attività svolta dalla persona giuridica di che trattasi, impedirebbe qualsiasi assimilazione delle fondazioni alle società commerciali, il cui elemento fondamentale è costituito dalla ripartizione degli utili tra i soci, con la conseguente non ammissibilità delle prime alle gare pubbliche, anche per la natura tassativa dell’elencazione contenuta nell’art. 34 del codice che non le contempla espressamente.
Dunque il Consiglio di Stato sostiene che l’elencazione dell’art. 34 non sia tassativa e che tale conclusione trovi conforto in altre norme del codice degli appalti che definiscono la figura dell’imprenditore o fornitore o prestatore di servizi nell’ambito degli appalti pubblici (art. 3, commi 19 e 20) e nelle disposizioni comunitarie prima richiamate le quali (art. 1, comma 8, 4 e 44 della direttiva 2004/18/CE) indicano che il soggetto abilitato a partecipare alle gare pubbliche è l’ “operatore economico” che offre sul mercato lavori, prodotti o servizi, secondo un principio di libertà di forme (persone fisiche o persone giuridiche).
 
 
La giurisprudenza comunitaria ha affermato che per “impresa”, pur in mancanza di una sua definizione nel Trattato, va inteso qualsiasi soggetto che eserciti attività economica, a prescindere dal suo stato giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (Sentenza Corte di giustizia 1.7.2008, causa C-49/07, e richiami ivi indicati); che costituisce attività economica qualsiasi attività che consiste nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte di giustizia 10.1.2006, causa C-222/04 relativa a una fondazione bancaria che sia stata autorizzata dal legislatore nazionale a effettuare operazioni necessarie per la realizzazione degli scopi sociali, tra i quali anche la ricerca, l’educazione, l’arte e la sanità); che l’assenza di fine di lucro non esclude che un soggetto giuridico che esercita un’attività economica possa essere considerato impresa (Corte di giustizia 29.11.2007, causa C-119/06, relativa a organizzazioni sanitarie che garantiscono il servizio di trasporto d’urgenza di malati e che possono concorrere con altri operatori nell’aggiudicazione di appalti pubblici, a nulla rilevando che i loro collaboratori agiscono a mezzo di volontari ed esse possono presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli degli altri concorrenti).
La definizione comunitaria di impresa non discende da presupposti soggettivi, quali la pubblicità dell’ente o l’assenza di lucro, ma da elementi puramente oggettivi quali l’offerta di beni e servizi da scambiare con altri soggetti, nell’ambito quindi di un’attività di impresa anche quando non sia l’attività principale dell’organizzazione.
 
Così viene sostenuto che l’elenco di cui al pluricitato art. 34 del d lgs 163/2006, non è affatto tassativo, ma solo esemplificativo: va guardato, infatti, in combinazione con le disposizioni dell’articolo 3, commi 19 e 20 e con le statuizioni della giurisprudenza comunitaria, da anni ormai a garantire la più ampia partecipazione agli appalti pubblici, a garanzia dei principi di concorrenza e di libertà di forma organizzative degli operatori economici.
È del tutto evidente che la normativa sulla concorrenza non può essere interpretata ed applicata come una barriera che impedirebbe ad alcuni soggetti di aspirare agli appalti pubblici: questo, infatti, altro non è che protezionismo o, comunque, chiusura parziale del mercato.
 
Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato ha sovvertito non solo la decisione in primo grado del Tar Lazio Roma, Sezione III 29 luglio 2008, n. 7591, ma un intero filone giurisprudenziale ed interpretativo, ancora imperniato sulla concezione di impresa derivante dal codice civile e, di conseguenza, portato a ritenere che i soggetti senza scopo di lucro, in quanto privi di uno dei requisiti soggettivi propri dell’impresa commerciale, come tali non possano partecipare alle gare d’appalto, neanche se possano svolgere attività commerciali accessorie alla propria.
 
 
Il Tar Lazio per parte sua, ha tenuto nel massimo conto della linea interpretativa antitetica alla disciplina comunitaria, ed aveva ritenuto che una fondazione non potesse essere ammessa ad una gara d’appalto perché l’assenza dello scopo di lucro non le permetterebbe di svolgere attività commerciali e, inoltre, per la ragione che le fondazioni non sono comprese nell’elenco dei soggetti a cui possono essere affidati appalti pubblici, contenuto nell’articolo 34, considerato tassativo dai giudici del Tar.
Il Tar sopra menzionato, ha inoltre sostenuto che la fondazione godrebbe di un regime fiscale di favore idoneo a incidere sulla dinamica concorrenziale.
Tuttavia non sembra apprezzabile detta annotazione nella misura in cui il regime fiscale di favore assiste anche altri soggetti, quali le cooperative, senza che si possa sostenere che queste siano escluse dagli appalti pubblici, ovvero le ONLUS che secondo la recente giurisprudenza amministrativa (Cons. di Stato, VI, n. 185 del 2008; V, n. 1128 del 2009) possono essere ammesse alle gare pubbliche quali “imprese sociali”, cui il d. lgs. 24 marzo 2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un’attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d’interesse generale, anche se non lucrativa.
Così il fatto che la fondazione non persegua utili o che gli utili siano reinvestiti nell’attività non esclude che essa svolga attività di carattere economico con modalità tali da consentirle di permanere sul mercato e di concorrere con altre strutture, enti o società commerciali che operano nello stesso settore.
 
Con la sentenza di cui si riferisce con la presente, il Consiglio di stato, dunque, consolida una radicale diversificata interpretazione giurisprudenziale, più adeguata alla normativa comunitaria.
 
 
 
Gabriele Gentilini

Gentilini Gabriele

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