Gli atti del Presidente del Consiglio negli enti locali della Sicilia

Greco Massimo 09/10/08
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La figura del Presidente del Consiglio dell’assemblea elettiva locale, salva l’ipotesi della mozione di sfiducia e della sua fattibilità giuridica, non risulta particolarmente studiata. Scarsi sono anche i casi oggetto di giurisprudenza.
Del resto la funzione istituzionale esercitata appare confinata permanentemente all’interno dei rispettivi organi consiliari.
L’art. 185 dell’Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana approvato con legge regionale n. 16/1963 si limita a dire che “Chi preside le adunanze provvede a mantenere l’ordine, l’osservanza delle leggi e la regolarità delle discussioni e delle deliberazioni. Ha facoltà di sospendere e di sciogliere l’adunanza”. Statuti e regolamenti, nell’espressione dell’autonomia degli enti, disciplinano le restanti modalità di esercizio dei poteri e delle attribuzioni del Presidente del Consiglio.
La funzione del Presidente non è strumentale all’attuazione di un indirizzo politico ma al corretto funzionamento dell’istituzione in quanto tale: essa è perciò neutrale, e, ferma la necessaria cautela nel richiamo all’ordinamento di organi costituzionali, analoga è la funzione dei Presidenti delle Camere, come consolidatasi nel tempo indipendentemente dalla provenienza politica e dalla maggioranza che li abbia eletti” (Consiglio di Stato, sez. V°, sent. n. 1983 del 25/11/1999).
La figura concentra su di sè tutti i compiti di programmazione dei lavori consiliari, di coordinamento e tutela dei diritti dei singoli consiglieri, sia in seduta che al di fuori, variamente collegati con il minus (si veda Tessaro e Randelli, Organi e sistema elettorale, Maggioli Rimini 2001).
La finalità di direzione e coordinamento risponde, pertanto, ad esigenze di trasparenza, correttezza, autonomia degli Organi assembleari e del Sindaco (o Presidente della Provincia), controllo delle minoranze, come se il Presidente fosse un “primus inter pares”, affine alla figura dello speaker di stampo britannico, tant’è vero che la sua figura è stata paragonata, dalla dottrina, ad una sorte di mediatore tra le forze in campo, senza connotazione politica.
Da ciò discende la natura amministrativa delle funzioni esercitate, ma sulle modalità attraverso cui viene veicolata la sua volontà monocratica, il vuoto normativo è evidente e diffuso.
Il problema si pone non tanto in occasione degli adempimenti di rito quali sono le convocazioni dei consiglieri, la trasmissione degli ordini del giorno o l’attività di direzione all’interno dell’assemblea elettiva, ma nel caso, per la verità assai raro, in cui il Presidente deve sostituirsi al Consiglio per designare, ad esempio, il collegio dei revisori dei conti, non nominato dall’assemblea entro il termine ultimo previsto dalla legge.
Infatti in questo caso, non avendo il Consiglio comunale, allo spirare di tre giorni antecedenti la scadenza del termine di proroga, provveduto alla “costituzione” del collegio dei revisori dei conti, il relativo potere di nomina si trasferisce in maniera integrale e unitaria in capo al Presidente del Consiglio comunale.
A questo punto ci si chiede, attraverso quale strumento amministrativo il Presidente del Consiglio nomina il collegio dei revisori dei conti? Una delibera, una determina o cos’altro. La delibera viene utilizzata per lo più dagli organi collegiali, consiglio e giunta, mentre la determina trova maggiore consensi per veicolare atti gestionali, così come definiti dall’art. 183 del T.U., o atti dell’organo monocratico, Sindaco e Presidente della Provincia.
Il Presidente del Consiglio è certamente una figura politica ma non è revocabile in dubbio che lo stesso, per le prerogative a lui riconosciute dalla legge o dalle norme statutarie e regolamentari, agisce nella qualità di organo monocratico.
Pertanto appare più logico che lo stesso, per veicolare la propria volontà politico-amministrativa, utilizzi lo strumento della determina (o determinazione), da pubblicare all’albo pretorio secondo il disposto di cui all’art.124 del T.U. n. 267/2000.
Tuttavia in questa sede non può non essere considerato quanto affermato dal Consiglio di Stato secondo cui “…la parola <<deliberazione>> ab antiquo esprime sia risoluzioni adottate da organi collegiali che da organi monocratici ed essendo l’intento quello di rendere pubblici tutti gli atti degli enti locali di esercizio del potere deliberativo, indipendentemente dalla natura collegiale o meno dell’organo emanante” (V. Corte cost. nn. 38 e 39 del 1/6/1979 e Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1129 del 6/12/1977).
In conclusione ai fini della regolarità procedurale non rileva il nomen iuri utilizzato – delibera o determina – ma i tradizionali requisiti che riposano sulla consistenza della natura amministrativa dell’atto adottato dal Presidente del Consiglio. Peraltro “per quanto riguarda la qualificazione di un provvedimento, esso non è annullabile per il fatto di non essere adottato in forma di decreto, purchè in esso siano individuabili l’autorità emanante, l’oggetto, il contenuto dispositivo e la sottoscrizione”(Consiglio di Stato, sez. IV, 16/02/1998, n. 30).
 
Massimo Greco

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