Furto merce: licenziamento disciplinare illegittimo se è scaduta

È illegittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore autore di furto di merce – scaduta e di modico valore– dalla fornitura del datore di lavoro.

A cura di Avv. Davide Maria Testa c/o DLA Piper
È illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un lavoratore resosi autore di furto di merce – scaduta e di modico valore (due confezioni di carne) – rientranti nella fornitura del datore di lavoro.
Così ha statuito la Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento (n. 27695 del 25 ottobre 2024).
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Indice

1. I fatti: licenziamento disciplinare per furto


La vicenda trae spunto dal licenziamento per giusta causa irrogato da una società a un proprio dipendente per aver – quest’ultimo – sottratto, appropriandosene, merce aziendale scaduta (due confezioni di carne).
La Corte d’appello di Palermo, in conferma della pronuncia di primo grado, ha accertato la illegittimità del licenziamento per “insussistenza del fatto addebitato” ed ha condannato il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.
A supporto della propria decisione, la Corte territoriale ha ritenuto:

  • da una parte, violato il principio di immutabilità della contestazione disciplinare in quanto, stando ai fatti in sentenza di Cassazione, la società avrebbe mutato gli addebiti disciplinari a seguito della contestazione, includendo altresì l’ulteriore “violazione di regole operative poste a garanzia delle corrette operazioni di discarico dei prodotti non più commerciabili in quanto avariati o scaduti“;
  • in ogni caso, illegittimo il licenziamento “in mancanza di fatti che potessero rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario“, trattandosi di sottrazione di merce scaduta e quindi “priva di ogni valore patrimoniale per l’azienda“.

Oltre a quanto sopra, è stato altresì appurato che non vi fosse intenzionalità da parte del dipendente nell’infrangere le regole operative per le operazioni di discarico dei prodotti non più commerciabili; in proposito, infatti, durante i giudizi di merito, è emersa notevole incertezza sull’effettiva conoscenza delle istruzioni operative da parte del lavoratore.
Alla luce di tutto quanto sopra e considerata, dunque, l’inoffensività della condotta addebitata, “tale da ridurre, fino a neutralizzarla, la portata antigiuridica“, i Giudici d’Appello hanno applicato il regime della reintegra previsto dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.
A fronte di tale sentenza, la società ha proposto ricorso per cassazione eccependo, tra le altre, che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che “non fosse stata fornita la prova della conoscenza della procedura di smaltimento degli scarti da parte del lavoratore“, nonostante la produzione di dichiarazioni testimoniali rese dal dipendente in questione nell’ambito di un altro procedimento giudiziale a carico di un collega.
Inoltre, a parer della società deve ritenersi sussistente “l’antigiuridicità del fatto posto in essere dal lavoratore“, il quale ben sapeva che “i prodotti scaduti venivano smaltiti all’interno del reparto stesso in appositi bidoni” e “non portati a casa dei singoli dipendenti al fine di smaltirli“. Per approfondire la materia del lavoro subordinato, si consiglia il seguente volume, il quale analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni): Il lavoro subordinato

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2. L’ordinanza della Corte di Cassazione


La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato.
Preliminarmente, i Giudici di Cassazione hanno rilevato che eccezioni mosse dalla società ricorrente sono state orientate verso la “erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta“.
È emerso, dunque, sin da subito che la società non avesse eccepito un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge, bensì un vizio-motivo ed afferente al caso concreto.
Dunque, ciò che è stato “richiesto” alla Cassazione riguardava maggiormente aspetti valutativi della fattispecie concreta.
In simili situazioni, stando all’interpretazione normativa nomofilattica (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014), i Giudici di legittimità devono orientare le proprie determinazioni in senso valutativo, riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (che, peraltro, nel caso di specie è impedito dalla presenza di una sentenza c.d. “doppia conforme”).
Ne deriva che il perimetro d’azione della Corte di legittimità diviene considerevolmente ridotto. Ciò, in ogni caso, non ha impedito ai Giudici di evidenziare che le corti di merito hanno compiuto una puntuale attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (presidio del licenziamento per giusta causa) mediante “la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie“.
Tale attività è sindacabile in Cassazione a condizione che “la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale“.
L’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (e insindacabile in sede di legittimità).
A parer della Cassazione, nel caso di specie, nei precedenti gradi di giudizio s’è (ampiamente) tenuto conto di vari aspetti del caso concreto sottoposto a giudizio ed afferenti a:

  • natura e qualità del rapporto di lavoro;
  • grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente;
  • nocumento eventualmente arrecato;
  • portata soggettiva dei fatti stessi;
  • motivi ed intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

A valle dell’analisi di tutti i suddetti aspetti, la Corte di Cassazione ha confermato l’insussistenza di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, accertando altresì la ricorrenza della nozione di “insussistenza del fatto” (tale da comprendere anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità), che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. lav.

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Davide Maria Testa

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