Avv. Andrea Milani, Vice Presidente AODV231
La Corte di Cassazione, sezione II, con la sentenza 4753 del 29.1.2025 è tornata a pronunciarsi su delicati temi, tra i quali la confisca di cui all’art. 19 D.Lgs. 231/01 nell’ambito del rito alternativo patteggiamento. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia
Indice
- 1. Il caso: l’autoriciclaggio e la confisca
- 2. La quantificazione del profitto del delitto di autoriciclaggio e il D.Lgs. 231/01
- 3. L’autonomia di detta quantificazione rispetto a quanto sequestrato in sede cautelare
- 4. I rapporti tra l’accordo delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e la sentenza
- 5. La valutazione della Corte
1. Il caso: l’autoriciclaggio e la confisca
Il caso concerneva una incolpazione di autoriciclaggio relativa alla vendita di un dipinto di provenienza illecita: venivano attinti dalla contestazione tanto il legale rappresentante della galleria, quanto la Galleria stessa ai sensi del D.Lgs. 231/01, per il reato di cui all’art. 648-ter.1 c.p..
La persona giuridica adiva il rito alternativo dell’applicazione della pena su richiesta delle parti; per quanto qui di interesse, nell’omologare il patteggiamento il Giudice procedente disponeva la confisca del profitto del reato e dell’illecito amministrativo (non ostante l’accordo ex art. 444 c.p.p. nulla prevedesse in tal senso), quantificando il relativo importo nel controvalore dell’operazione di autoriciclaggio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 648-quater c.p. e 19 D.Lgs. 231/01.
Avverso la sentenza interponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’ente, eccependo l’errata individuazione del profitto del reato, nonché la duplicazione del titolo ablativo; veniva altresì eccepita l’autonoma determinazione svolta dal Giudice in merito al quantum del profitto, difforme (e maggiore) rispetto a quanto era stato posto sotto sequestro.
I temi giuridici sottesi al decisus della Cassazione sono sostanzialmente tre: (i) la quantificazione del profitto del delitto di autoriciclaggio, (ii) l’autonomia di detta quantificazione rispetto a quanto sequestrato in sede cautelare, (iii) i rapporti tra l’accordo delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e la correlata sentenza. Per restare sempre aggiornato sulle evoluzioni della giustizia penale: Come cambia il processo penale – Dall’abrograzione dell’abuso d’ufficio al decreto giustizia
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2. La quantificazione del profitto del delitto di autoriciclaggio e il D.Lgs. 231/01
Quanto al tema (i), la quantificazione del profitto del delitto di autoriciclaggio, correttamente la pronuncia in commento, ritenendo che il delitto di autoriciclaggio si sostanzi in un c.d. reato-contratto, conferma che la somma da ablare coincida con il valore dell’operazione illecita posta in essere.
Sul punto, merita ricordare come sin dagli albori applicativi del D.Lgs. 231/01, al fine di contemperare la necessità di evitare che la sanzione-confisca diventasse un mero costo di produzione (consentendo il godimento, seppur ridotto, di un qualsivoglia profitto anche solo marginale del reato), con i principi di pertinenza e proporzione della sanzione-confisca (evitandosi così un’azione che – se eccessivamente afflittiva – esorbitasse da quanto realmente costituisce profitto del reato), la Cassazione ricorreva alle categorie concettuali di “reato-contratto” e “reato in contratto”.
La distinzione affonda le sue radici nella Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n° 26654 del 27.3.2008, che ha avuto agio di esprimere come “nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (cd. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca. Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sè, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (cd. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perchè assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.
Pertanto, muovendo dal presupposto per cui è confiscabile quel profitto pertinenziale al reato, la Corte – nelle sue evoluzioni interpretative – ha stabilito come nel caso in cui si sia di fronte ad una attività totalmente illecita, ovvero in presenza di una prestazione “geneticamente marchiata di illecità” (c.d. “reato contratto”), allora e solo allora l’intero profitto derivante dall’esecuzione di tale contratto viziato totalmente è assoggettabile a confisca, essendo tale profitto integralmente pertinente all’attività illecita in quanto conseguenza economica diretta ed immediata del (reato)contratto: in tal caso, infatti, ci si trova di fronte ad una immedesimazione del reato con il negozio giuridico.
Qualora invece il fatto di reato vada ad inserirsi in contesto di attività in sé lecita, andando a esempio ad incidere sulle vicende genetiche o esecutive di un contratto (“reato in contratto”), occorre scindere la condotta lecita da quella illecita: l’iniziativa lecitamente assunta e finalizzata, infatti, resta estranea all’ambito di illiceità; e il corrispettivo della prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed e ricevuta dalla controparte, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine jure.
Applicandosi tali principi al caso di specie, trova concordi l’interpretazione per la quale il reato di autoriciclaggio sia un reato-contratto e – conseguentemente – il relativo profitto vada identificato con il controvalore dell’operazione posta in essere (nel caso di specie, il prezzo dell’operazione di trasferimento dell’opera d’arte provento di delitto). Né pare pregevole l’argomentazione per la quale da tale valore andrebbe scorporato il profitto relativo al reato presupposto, diversamente andandosi ad addebitare all’autore dell’autoriciclaggio non solo la plusvalenza relativa alla operazione posta in essere, bensì anche il profitto del delitto a monte; tale argomentazione, infatti, non considera che tanto il delitto a monte quanto il successivo autoriciclaggio consistono in attività ex sé illecite portatrici di autonomi e distinti profitti (a loro volta illeciti): il primo, relativo al reato presupposto; il secondo, relativo alla operazione autoriciclante, con la conseguenza che entrambi i profitti devono essere ablati per intero.
3. L’autonomia di detta quantificazione rispetto a quanto sequestrato in sede cautelare
Quanto al tema (ii), l’autonomia di detta quantificazione rispetto a quanto sequestrato in sede cautelare, deve concordarsi con la sentenza in commento a mente della quale il principio della domanda cautelare vige esclusivamente in detta fase, e non anche in quella di merito; pacifico – infatti – come il Giudice del merito possa e debba valutare l’entità dell’eventuale profitto illecito sulla base degli elementi a propria disposizione, che inevitabilmente integrano, confermano o travolgono le valutazioni che siano state eventualmente condotte nella fase cautelare; noto infatti come il giudicato cautelare, a differenza di quello ordinario, è volto “a presidiare la congruenza tra la situazione di fatto esistente in un dato momento del procedimento e le misure cautelari in atto” (Cassazione penale sez. III, 17/03/2022, n.14994), e come sopravvenienze fattuali possano comportare una sua conferma ovvero una sua diversa valutazione.
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4. I rapporti tra l’accordo delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e la sentenza
Quanto – infine – al tema (iii), i rapporti tra l’accordo delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e la correlata sentenza, con specifico riferimento al tema della confisca ex art. 19 D.Lgs. 231/01, quanto statuito nella sentenza in commento francamente non convince.
Pacifico come la confisca in esame si configuri come una sanzione principale, obbligatoria ed autonoma.
In quanto tale, essa va certamente applicata tutte le volte in cui sia ravvisabile un profitto in capo all’ente.
Proprio in ragione di quanto sopra, un condivisibile e pregevole orientamento giurisprudenziale (Cass. Pen. Sez. 6, n. 30604 del 20.6.2024, Presidente dott. Fidelbo, Relatore dott. Di Geronimo) ritiene che la confisca, come tutte le altre componenti sanzionatorie dell’illecito, non può non rientrare nell’accordo delle parti, con la conseguenza che – nel caso in cui detto accordo difetti di prendere in esame il tema della confisca – esso dovrà essere rigettato (ed eventualmente riformulato).
5. La valutazione della Corte
Avverso tale orientamento, la sentenza in esame eccepisce che “la confisca, a differenza delle altre sanzioni che prevedono una forbice edittale, non consente valutazioni discrezionali del giudice né in ordine all’”an” né in ordine al “quantum”, poiché è la norma che la impone in relazione” al reato e poiché trattasi di “sanzione che non è commisurata alla gravità della condotta né alla colpevolezza dell’autore”.
L’assunto non pare condivisibile.
Partendo dal dato normativo, non si può prescindere dal fatto che lo stesso art. 444 c.p.p., comma 2, prevede che a fronte della richiesta di applicazione pena, “il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, le determinazioni in merito alla confisca, nonché congrue le pene indicate, ne dispone con sentenza l’applicazione”.
Evidente pertanto come la stessa norma preveda che il tema confisca debba essere trattato nell’ambito dell’accordo delle parti (a fortiori laddove si consideri che – come detto – ai sensi del D.Lgs. 231/01 l’ablazione ha natura sanzionatoria, e quindi un significato vieppiù pregnante rispetto alla confisca prevista dal codice penale)… con la conseguenza che solo laddove il Giudice ritenga corrette (anche) le determinazioni in merito alla confisca potrà disporre con sentenza l’applicazione dell’accordo; laddove – viceversa – dette determinazioni dovessero essere ritenute erronee (o, a maggior ragione, pretermesse), il Giudice altro non potrà fare se non rigettare la richiesta di applicazione pena, con l’eventuale possibilità di sua riproposizione (laddove consentito), previe le emende del caso.
Nessun potere integrativo o suppletivo da parte del Giudice!
Oltre al dato normativo invalicabile, paiono poi soccorrere le ineccepibili argomentazioni di cui alle motivazioni della già citata Cass. Pen. Sez. 6, n. 30604 del 20.6.2024: ferma la circostanza per cui “nel caso della confisca ex art. 9 e 19 D.Lgs. 231/01, in considerazione della natura obbligatoria, le parti non potranno concordarne l’esclusione, se non nei casi in cui si ritenga che l’illecito non ha prodotto alcun profitto per l’ente”, la tesi per la quale l’obbligatorietà della confisca la sottrarrebbe alla disponibilità delle parti, “tende a sovrapporre l’aspetto relativo alla obbligatorietà […] con quello della sua negoziabilità”.
Infatti, tutte le sanzioni principali previste in relazione ad un illecito sono ex sé obbligatorie, ma ciò non toglie ch’esse – nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 444 c.p.p. – debbano essere oggetto di accordo tra le parti, rimesso al controllo giudiziale.
Ed il fatto che – a detta della sentenza qui in commento – l’an ed il quantum della confisca non sarebbero soggetti a valutazione discrezionale (e quindi, secondo tale incondivisa teoria, non negoziabili), non tiene in debito conto due aspetti fondamentali.
Anzitutto, il fatto che la non discrezionalità non esclude la necessità di percorsi valutativi in ordine all’esistenza ed alla quantificazione del profitto (soprattutto se rapportati alla valutazione circa il ritrovarsi nell’ambito di un reato “contratto” ovvero “in contratto”), ovvero in ordine ad eventuali azioni restitutorie o ancora in relazione ad eventuali diritti di terzi in buona fede (come peraltro espressamente previsto dall’art. 19 D.Lgs. 231/01).
In secondo luogo, e forse ancor più fondamentale per i principi giuridici generali, che l’in sé dell’istituto dell’applicazione della pena è proprio la richiesta delle parti: l’istituto deflattivo viene adito in ottica di riduzione del rischio e degli effetti, in un alveo di previa conoscibilità e consenso; attribuire al Giudice – invero chiamato, come sopra ricordato, ad un controllo di legalità e adeguatezza della proposta –, un potere coercitivamente integrativo dell’accordo, avrebbe l’effetto di trasformare il patteggiamento in un istituto trilaterale, deprivato però della facoltà di parte proponente di non accettare termini e condizioni ritenuti non appetibili nell’ottica deflattiva.
In ragione di tutto quanto sopra, si ritiene non condivisibile l’approdo della sentenza in commento, dovendosi invece condividere quanto statuito della già citata Cass. Pen. Sez. 6, n. 30604 del 20.6.2024: “l’accordo sulla pena, concluso senza la determinazione – nell’an e nel quantum – della confisca del profitto dell’illecito commesso dall’ente, non poteva essere recepito dal giudice mediante l’unilaterale determinazione della confisca”.
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