Suprema Corte di Cassazione, I Sez. Pen. sent. n. 11985 del 26 marzo 2025: provocazione, ira, gelosia e orgoglio al centro dell’aggravante per futili motivi.
Uno sguardo di troppo e alcune parole pronunciate e non decifrate e la strada si trasforma in un ring.
Pugni sferrati al volto della vittima da chi conosce bene le arti marziali e sa che quei colpi sono categoricamente vietati al di fuori di quel «recinto» in quanto finalizzati al KO tecnico dell’avversario.
Lucidità e spregiudicatezza a fare da sfondo alla grave disinvoltura criminale dell’imputato che, dopo aver visto cadere rovinosamente al suolo la vittima e sbattere la testa contro il marciapiede, con freddezza la lascia lì e si allontana.
Queste le motivazioni poste a base della sentenza della Suprema Corte I Sezione penale n. 11985 del 10 gennaio 2025 e depositata in data 26 marzo con la quale è stata confermata la pronuncia della Corte di Assise di Bari del 12 giugno 2024 che dichiarava l’imputato responsabile del delitto di omicidio volontario, aggravato dai futili motivi e dall’aver commesso il fatto attraverso l’uso di tecniche di combattimento tali da ostacolare la privata difesa.
Confermata, pertanto, la condanna dell’imputato a 21 anni di reclusione e alle pene accessorie con conseguente previsione, a pena espiata, della misura di sicurezza della libertà vigilata per tre anni. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
Indice
1. Il caso: l’omicidio volontario nelle arti marziali
Era il 5 settembre del 2021 quando, a seguito di uno scambio di provocazioni verbali tra la vittima e un amico dell’imputato, aveva inizio quanto poi ha condotto al decesso.
La vittima, poco dopo il primo «scontro» verbale, si portava all’esterno del locale, sedendo alle spalle delle compagne dell’imputato e del suo amico.
A seguito dell’invito di queste ad allontanarsi, questi si mostrava accondiscendente per poi ritornare.
A tale gesto, considerato provocatorio, l’imputato rispondeva sferrando alcuni pugni al volto della vittima che, caduta a terra, sbatteva la testa contro il marciapiede morendo per emorragia encefalica.
Avverso la condanna per omicidio volontario, guidato da dolo eventuale con l’aggravante dei futili motivi, ricorreva per Cassazione l’imputato.
Lamentava l’erronea applicazione dell’articolo 575 cod. pen. trattandosi, a suo dire, di omicidio preterintenzionale, connotato da dolo di percosse ex articolo 584 cod. pen., sostenendo che la condotta posta in essere fu del tutto repentina e impulsiva e quindi non ragionata.
Il suo agire non era diretto ad uccidere, né poteva prevedere l’evento fatale, avendo colpito la vittima con «soli» quattro pugni al viso, zona non vitale.
Dichiarava di aver seguito solo tre/quattro lezioni di box e di non essere quindi esperto di arti marziali.
Si doleva, altresì, del ragionamento della Corte d’Assise che escludeva che la caduta al suolo della vittima fosse da attribuire ad uno stato di alterazione psicofisica.
Contestava, inoltre, l’aggravante dei futili motivi affermando che non cercava un pretesto per dare sfogo ad un impulso criminale ma che vi era stata una provocazione da parte della vittima che aveva lanciato uno sguardo e proferito alcune parole non decifrate ingenerando così in lui uno stato d’ira accompagnato da gelosia e orgoglio, diretto unicamente a provocare lesioni.
Lamentava, infine, la mancata esclusione dell’aggravante della minorata difesa secondo cui l’imputato avrebbe approfittato dell’effetto «sorpresa» in quanto in realtà non aggrediva alle spalle la vittima, affrontandola invece di petto.
Per tali ragioni, la difesa chiedeva l’annullamento della sentenza. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
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2. La pronuncia della Suprema Corte
La sentenza in esame ha rigettato il ricorso ritenendo l’iter argomentativo della pronuncia impugnata scevro da vizi logici e giuridici.
Il dolo eventuale è apparso così giustificato dalla pregressa esperienza dell’imputato che ha praticato boxe dai 13 ai 17 anni e che pertanto aveva consapevolezza, nel momento in cui si scagliava con la massima intensità contro il volto della vittima, che l’avrebbe neutralizzata facendola cadere su una superficie rigida e non sul tappeto di un «ring».
A tanto si aggiunga che il volto è considerato, come confermato dal consulente interpellato, zona vitale: «Tutta la parte anatomica che va dal setto nasale a salire, quindi verso la tempia, va ritenuta punto vitale, essendovi comunque la possibilità che vegano causate emorragie interne».
I micidiali pugni sferrati, usando una tecnica replicabile solo da chi conosce le tecniche fondamentali di combattimento, e l’essersi allontanato con freddezza dopo la caduta, non mostrando alcuna preoccupazione, sono per la Suprema Corte «elementi, tutti, in grado di svelare nitidamente la sussistenza sia dell’elemento rappresentativo che volitivo dell’accettazione del rischio dell’evento mortale».
Se l’intenzione era solo quella di intimorire il rivale, prosegue la Corte, «non avrebbe assunto una posizione strategica di guardia o mirato al volto ma avrebbe certamente moderato l’intensità dei colpi o quantomeno li avrebbe indirizzati a zone non vitali».
L’esperto sentito in dibattimento ha precisato: «I colpi eseguiti dall’imputato sono categoricamente vietati al di fuori del ring, poiché, essendo finalizzati al Ko tecnico dell’avversario, rappresentano un rischio per l’incolumità».
Il decesso, nonostante sia avvenuto per emorragia encefalica legata alle fratture craniche, si pone come conseguenza altamente probabile dell’agire dell’imputato il quale accettava il rischio che la vittima, che aveva già perso conoscenza e quindi non aveva attivato alcun meccanismo di difesa, urtasse contro un piano rigido.
Quanto al tasso alcolemico riscontrato, pari a 1,74 grammi per litro, si legge in sentenza, «questo non è generalmente in grado di compromettere la stabilità motoria di una persona e, nel caso in esame, le immagini delle video riprese hanno confermato che la vittima, prima dell’aggressione, non manifestava anomalie di carattere motorio, come perdita di equilibrio o rallentamento dei riflessi».
In merito all’aggravante per futili motivi, questa sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale” (cfr anche Cass. sez V sent. n. 25940/20).
Appare evidente, pertanto, che uno sguardo percepito come provocatorio non è sufficiente a giustificare un crimine.
A tanto si aggiunga che la Suprema Corte ha in passato chiarito che anche un precedente contatto fisico, come una spinta, non è in grado di fondare un motivo serio per giustificare una violenta aggressione (Cass. Sez V n. 45138 /2019).
Confermato, altresì, lo stato di minorata difesa in cui versava la vittima.
Lo scenario è quello di un esperto nell’arte del combattimento che si scaglia con lucidità e spregiudicatezza contro la vittima la quale non è vigile o pronta nell’attuare anche una minima difesa poiché colta di sorpresa.
Ad avallare la disinvoltura criminale dell’imputato sono state le intercettazioni dei colloqui con la moglie in occasione dei quali questi riconduceva l’azione commessa alla sua sfera caratteriale e non ad un eventuale fatto ingiusto subito, disvelando così la propria personalità istintivamente violenta.
Alla luce di quanto emerso, è evidente che non poteva ravvisarsi la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale ex art. 584 cod. pen. ai sensi del quale “Chiunque con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582 cod. pen. cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da 10 a 18 anni” atteso che a caratterizzare tale omicidio è la volontarietà della sola condotta finalizzata a percuotere o ledere dalla quale derivi un evento più grave di quello voluto dal reo.
In buona sostanza, nell’omicidio preterintenzionale non vi è la volontà di uccidere.
Nel caso di specie, invece, l’imputato aveva consapevolezza della sua “forza” e delle conseguenze che potevano derivare dal suo scagliarsi contro la vittima.
Doveroso dunque ravvisare il dolo eventuale e ritenere sufficiente a sostegno dell’elemento psicologico ex articolo 43 del codice penale, la previsione della possibilità del verificarsi dell’evento, accompagnata dall’accettazione del relativo rischio.
E mentre si disquisisce sulla difficoltà di risalire nei reati di sangue alle reali intenzioni dell’agente…occorre mestamente constatare come la vita di un uomo che non c’è più vale solo 21 anni. Dura lex sed lex.
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