Effetti collaterali dell’esito referendario sulla gestione integrata dei rifiuti

Greco Massimo 21/07/11
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“Né con Marx né contro di Marx”

(Norberto Bobbio)

 

1. I referendum del 12 e 13 giugno 2011

Il 12 e 13 giugno i cittadini italiani sono stati chiamati alle urne per votare sui quattro quesiti referendari promossi dai comitati referendari di cui due sull’acqua, uno sul nucleare e l’ultimo sul legittimo impedimento. Il risultato è stato raggiunto avendo tutti e quattro i quesiti superato abbondantemente il quorum necessario per rendere efficace l’effetto abrogativo sotteso ad ogni quesito.

Senza entrare nel merito delle valutazioni politiche e sociologiche sottese all’onda emozionale che ha trascinato come uno tsunami giapponese (scusate il lapsus freudiano) il corpo elettorale italiano, il quesito che agli occhi dei più attenti ha rasentato il bluff è certamente quello col quale si è abrogata la normativa che disciplinava la gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, tra i quali rientra il servizio idrico integrato.

In particolare il quesito n. 1, referendum n. 149, erroneamente classificato come “referendum contro la privatizzazione dell’acqua”, mirava ad abrogare l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a séguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale.

L’art. 23-bis, meglio conosciuto come “Decreto Ronchi”, stabiliva che le modalità ordinarie di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi incluso il servizio idrico integrato, fossero l’affidamento a soggetti privati attraverso gara e l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, con socio privato operativo scelto attraverso gara a doppio oggetto e detentore di almeno il 40% del capitale. La possibilità di ricorrere all’affidamento in house era relegata a deroga eccezionale sulla base di determinate caratteristiche morfologiche, previa analisi di mercato e parere obbligatorio e non vincolante dell’Antitrust (per valori superiori ai 200.000 euro annui, come previsto dal D.P.R. n. 168/2010). Un aspetto importante è che la norma in questione stabiliva e regolamentava, previsione non contemplata dall’ordinamento comunitario, un periodo transitorio per la scadenza obbligatoria degli affidamenti diretti non conformi alla norma stessa, disciplinandone termini e modalità.

L’abrogazione di detta normativa non ha però sortito gli effetti sperati né dai comitati referendari né, soprattutto, dal corpo elettorale non adeguatamente informato degli effetti collaterali all’esito positivo del referendum. In pratica è cambiato molto poco con il referendum abrogativo della normativa vigente in materia di gestione del servizio pubblico locale. Prima la norma abrogata obbligava l’Ente locale ad affidarsi al mercato per la gestione del servizio, adesso viene meno tale obbligo, ma rimane comunque la necessità di optare per un modello di gestione che il medesimo Ente locale ritiene più idoneo (gestione diretta, gestione in house, affidamento esterno mediante gara, affidamento a società mista) sulla base di valutazioni che risentono della normativa e dei principi immanenti nell’ordinamento comunitario.

 Peraltro, la Corte Costituzionale con sentenza n. 24/2011, nel contesto dell’esame preventivo in ordine all’ammissibilità del citato referendum, si era infatti così espressa: “Nel caso in esame, all’abrogazione dell’art. 23-bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica (…)”.

 

2. L’effetto abrogativo e la normativa “di risulta”

Appare evidente, allora, come, nella vigenza dei principi comunitari, l’abrogazione dell’articolo 23-bis non centri l’obiettivo che i referendari si erano proposti. La vacatio iuris che si è venuta a creare per effetto dell’abrogazione della disciplina dei servizi pubblici di rilevanza economica trova la sua naturale rete di contenimento legislativa proprio nelle disposizioni contenute nel Trattato della Comunità Europea e più precisamente nell’articolo 86, paragrafo 2, trasfuso nell’articolo 106 del TFUE. La norma in parola stabilisce che “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata”.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 325 del 2010, aveva già espressamente escluso che l’art. 23-bis costituisse applicazione necessitata del diritto dell’Unione Europea ed aveva affermato che esso integra solo “una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare” il comma I° dell’art. 117 Cost. In detta sentenza viene precisato che l’introduzione, attraverso il suddetto art. 23-bis, di regole concorrenziali (come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici) più rigorose di quelle minime richieste dal diritto dell’Unione europea non è imposta dall’ordinamento comunitario “e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost. […], ma neppure si pone in contrasto […] con la […] normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri”.

Secondo il Giudice delle leggi, il diritto comunitario preferisce non prendere posizione a favore di uno strumento “pro-concorrenza” nella gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica. Tale affermazione è fondata se si considera il caso della città di Parigi in cui il servizio idrico è stato ripubblicizzato nel 2009 dopo oltre 20 anni di gestione affidata a privati.

In tale contesto, per la dottrina post referendaria: “la normativa comunitaria tiene una posizione imparziale rispetto alle decisioni dell’autorità locale, come pure rispetto alla natura pubblica o privata del soggetto gestore del servizio, non dettando alcuna prescrizione in merito alla scelta dell’ente locale di ricorrere o meno all’autoproduzione o al mercato e non imponendo all’operatore economico (nozione comunitaria di impresa) alcuna forma per diventare titolare della gestione di servizi[1]. Infatti, “Nella prospettiva europea, la pubblica amministrazione può decidere di erogare direttamente prestazioni di servizi a favore degli utenti mediante proprie strutture organizzative senza dovere ricorrere, per lo svolgimento di tali prestazioni, ad operatori economici attraverso il mercato[2]. Non mancano pronunciamenti della giurisprudenza comunitaria coerenti con quanto affermato dalla Corte Costituzionale. La Corte di Giustizia CE ha infatti stabilito, in generale, che un’autorità pubblica può adempiere ai compiti ad essa incombenti mediante propri strumenti, senza essere obbligata a fare ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi, e che può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche[3]. Invero, “L’ordinamento comunitario consente la gestione dei servizi pubblici locali e nazionali sia da parte di soggetti pubblici che da parte di soggetti privati ma esige che non si creino impropri favori per tali soggetti 8sia pubblici che privati) che possano alterare la concorrenza e, in caso di coinvolgimento dei privati, impedisce che ciò avvenga in modo discriminatorio e non trasparente[4].

In pratica, il diritto comunitario sembra sposare la massima “Né con lo Stato né contro lo Stato” ovvero, per usare le parole di Norberto Bobbio “Né con Marx né contro Marx”[5].

Quindi, “Spetta all’ente valutare le modalità ottimali di espletamento del servizio con riguardo ai costi, ai margini di copertura degli stessi, alle migliori modalità di organizzazione del servizio in termini di efficienza, efficacia ed economicità, nel rispetto dei principi di tutela della concorrenza da un lato e della universalità e dei livelli essenziali delle prestazioni dall’altro[6]. Gli Enti locali recuperano quindi l’autonomia di scelta, che per la verità trova(va) anche una copertura di livello costituzionale, fra le varie forme di gestione, con il solo onere di motivare adeguatamente la decisione finale, da sempre richiesta dalla giurisprudenza amministrativa[7] ed oggi resa più necessaria dai principi elaborati dalla Corte dei Conti in materia. Tali principi, più che sull’estensione analogica di disposizioni normative quali l’art. 380 del T.U. n. 3/1957 e l’art. 152 del D.P.R. n. 1077/1970, “poggiano sul dettato costituzionale di cui all’art. 97 Cost. e sulla considerazione che – atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione ed un suo personale – è con essi che deve ottemperare alle sue funzioni[8].

Pertanto, “L’ente, deve attentamente valutare l’an e il quomodo dell’espletamento del servizio pubblico, procedendo ad esternalizzare lo stesso o a svolgerlo in maniera associata solo quando ciò risulti effettivamente la soluzione migliore, in termini di efficacia, efficienza ed economicità, in alternativa alla gestione diretta da parte dell’ente stesso[9]. In una nota diffusa dall’ANCI[10] all’indomani dell’esito referendario, “I Comuni sono investiti di una nuova <<libertà responsabile>>, che responsabilmente utilizzeranno e del cui utilizzo saranno chiamati a rispondere”. In conclusione, “nessuna controrivoluzione, dunque, ma semplicemente un ritorno alle ordinarie regole del diritto comunitario[11].

Orbene, senza nulla obiettare in ordine alle illustrate argomentazioni, non possiamo non evidenziare in questa sede, a meno di rischiare l’alienazione rispetto agli approfondimenti giuridici sul tema degli ultimi dieci anni, che nell’attuale fase storica si registra anche un indirizzo volto a favorire in prima istanza l’iniziativa privata nell’erogazione dei servizi pubblici a rilevanza economica e, solo in caso di inefficacia dell’iniziativa privata, ad esaltare il ruolo delle istanze più vicine ai cittadini, cioè gli Enti locali, che peraltro procedono ordinariamente allo svolgimento dei servizi loro spettanti tramite affidamento a terzi. Basti evidenziare che la manovra finanziaria, approvata in questi giorni in tempi record dal Parlamento Italiano nel tentativo disperato di correggere i conti pubblici e di respingere le speculazioni del mercato finanziario, prevede tra le altre azioni, la privatizzazione di società a partecipazione statale, ma anche di quelle aziende municipali non ancora trasformate in società per azioni, con la sola, ed ovvia, avvertenza per le municipalizzate destinate alla gestione dei servizi idrici.

Invero, “A livello comunitario il coinvolgimento nella gestione dei servizi di soggetti privati viene visto con favore, potendo essi apportare alla pubblica amministrazione know how e una gestione più manageriale[12]. Sia la Commissione che il Parlamento Europeo concordano nel ritenere il partenariato pubblico/privato (PPP) in tutte le sue manifestazioni (partenariato contrattuale, partenariato istituzionalizzato ecc..), come un possibile strumento di organizzazione e gestione delle funzioni pubbliche, riconoscendo alle amministrazioni la più ampia facoltà di stabilire se avvalersi o meno di soggetti privati esterni, oppure di imprese interamente controllate o, ancora, di esercitare direttamente i propri compiti istituzionali.

Secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa interna, appare scontato che la pubblica amministrazione che intenda acquisire lavori, servizi e forniture debba – e non semplicemente possa – rivolgersi al mercato nel rispetto degli istituti di derivazione comunitaria[13]. Per altro verso, “ i casi in cui è consentito evitare il ricorso alla gara sono da interpretarsi in senso restrittivo anche in ragione della situazione di conflitto d’interesse che tale modalità di affidamento determina in capo agli enti pubblici locali, i quali risultano essere al contempo affidatari del servizio, azionisti, e amministratori della società di gestione di servizi, nonché componenti degli organismi chiamati a vigilare e disciplinare la medesima[14].

Più recentemente il Consiglio di Stato è ritornato sull’argomento affermando che “nessuna norma obbliga i comuni ad affidare all’esterno determinati servizi (illuminazione pubblica, centri assistenziali, case di accoglienza, case di riposo, case famiglia, assistenza domiciliare per anziani ed handicappati, asili nido, mense scolastiche, scuola-bus, biblioteche, impianti sportivi: tutti servizi che notoriamente, gran parte dei comuni italiani gestiscono direttamente, senza appaltarli a privati)[15]. Tuttavia tale decisione, destinata “evidentemente ad aprire un nuovo dibattito[16], concerne solamente i servizi pubblici a rilevanza non economica, come opportunamente precisato dal Tar Lazio[17] e non anche quelli a rilevanza economica ai quali appartengono certamente i servizi per la gestione integrata delle risorse idriche e dei rifiuti.

Corollario di questo ragionamento è che, contrariamente a quanto auspicato dai promotori del referendum abrogativo, anche a seguito dell’abrogazione dell’art. 23-bis e del connesso Regolamento attuativo D.P.R. n. 168/2010, l’affidamento in house rimane comunque una modalità del tutto eccezionale per l’affidamento del servizio. Infatti, “Il ricorso all’autoproduzione continua a risultare pesantemente condizionato da tutti i paletti posti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale in tema di <<controllo analogo>> e di <<prevalenza dell’attività>>[18]. Di contro, “le modalità ordinarie di affidamento del servizio saranno la gara ovvero l’affidamento a società mista a partecipazione pubblica e privata[19].

 

3. Inquadramento normativo generale del servizio di gestione integrata dei rifiuti

Il sistema di gestione dei rifiuti trovava una sua peculiare normativa nel Codice dell’Ambiente. L’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti, risultava disciplinato dall’art. 202, comma 1, del D.lgs n. 152/2006, come modificato dal D.lgs. n. 4/2008, che così recitava: “L’Autorità d’ambito aggiudica il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani mediante gara disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie, in conformità ai criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonchè con riferimento all’ammontare del corrispettivo per la gestione svolta, tenuto conto delle garanzie di carattere tecnico e delle precedenti esperienze specifiche dei concorrenti, secondo modalità e termini definiti con decreto dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio nel rispetto delle competenze regionali in materia. I soggetti partecipanti alla gara devono formulare, con apposita relazione tecnico-illustrativa allegata all’offerta, proposte di miglioramento della gestione, di riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire e di miglioramento dei fattori ambientali, proponendo un proprio piano di riduzione dei corrispettivi per la gestione al raggiungimento di obiettivi autonomamente definiti”.

Appare utile in questa sede ricordare che il Decreto Ministeriale 2 maggio 2006 pubblicato sulla G.U. n. 108 dell’11 maggio 2006, anche se non produttivo di effetti giuridici in forza della nota dello stesso Ministero del 26/06/2006 pubblicata nella G.U. n. 146 del 26/06/2006[20], all’art. 2, comma 2°, così recitava: “La gestione del servizio di cui al precedente comma 1 è aggiudicata mediante gara ad evidenza pubblica disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie, in conformità ai criteri di cui all’art. 113, comma 7, del decreto legislativo n. 152/2006, nel rispetto del piano d’ambito e del principio di unicità della gestione per ciascun ATO”. Il successivo art. 2, comma I°, così recitava: “Le AATO sono soggetti aggiudicatari e procedono all’affidamento della gestione del servizio mediante gara pubblica, da espletarsi con il sistema della procedura aperta, adottando per l’aggiudicazione il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata secondo le modalità di cui al presente decreto”.

I primi commentatori non hanno esitato a rilevare che “E’ emersa fin da subito la scomparsa della possibilità di scelta tra diversi modelli di gestione come consentito dal comma 5 dell’art. 113 del TUEL sostituita dalla previsione della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del gestore. Il Codice, dunque, ammette una sola modalità di affidamento del servizio, ritenendo che in questo settore esista un mercato dove operano soggetti economici ed è quindi intervenuto a tutela di quel mercato, e, in definitiva della concorrenza, creando per i rifiuti una disciplina di settore diversa rispetto a quella ordinaria. Lo stesso comma 1 dell’art. 202 contiene dei criteri di selezione del gestore (l’ammontare del corrispettivo offerto) che non sono pertinenti ad un rapporto in house, ma lo sono se si tratta di selezionare un soggetto terzo, pubblico o privato[21].

Coerente con la citata argomentazione è il contenuto del parere espresso dal Consiglio di Stato n. 3838 del 5/11/2007 sullo schema di decreto legislativo concernente “Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale” che al punto 29 così recitava: “La modifica, mediante rinvio generalizzato all’art. 113, consente anche, in luogo della gara, l’utilizzo del sistema in house che invece il decreto legislativo aveva inteso, in questo settore, eliminare. Essa, pertanto, è di carattere sostanziale ed esula, come tale, dai limiti del potere correttivo. Va aggiunto che il ripristino del sistema in house non è in linea con il diritto comunitario, secondo cui laddove vi è un mercato contendibile in cui gli operatori privati sono in grado di assicurare il servizio pubblico, la riserva del servizio pubblico all’amministrazione (mediante gestione diretta, o società in house) non è giustificabile. Il sistema in house deve essere pertanto considerato eccezionale, consentito laddove vi sono oggettive esigenze di svolgimento di un servizio pubblico in regime di privativa………. Non sono ammissibili deroghe alla concorrenza che non siano necessarie al perseguimento della missione di carattere generale affidata al gestore del servizio. La relazione, invece, nulla dice sulle ragioni oggettive ed eccezionali che rendono ancora attuale l’in house[22].

Lo stesso Consiglio di Stato[23], questa volta in sede giurisdizionale, stabiliva che “..a mente del combinato disposto degli artt. 199, 200 e 201, D.lgs. n. 152 del 2006 l’organizzazione territoriale dei servizi di gestione integrata dei rifiuti è affidata agli enti gestori degli ambiti territoriali ottimali; questi ultimi, giusta il puntuale disposto dell’art. 202, D.lgs. n. 152 cit., sono obbligati ad esternalizzare il servizio mediante gara nel rispetto dei principi comunitari e nazionali; non è prevista la formula organizzativa della società pubblica. Consegue alle superiore considerazioni l’inconferenza di tutte le doglianze sviluppate dall’appellante nel presupposto che si controverta di un affidamento del servizio a società in house”.  

Il fatto che nelle citate “Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale”, veicolate attraverso il D.lgs 8 novembre 2006, n. 284, scompariva la citata proposta di reintrodurre l’ipotesi dell’in house, confermava la bontà del ragionamento fin qui illustrato.

Ma, se l’ipotesi dell’in house non era riuscita ad entrare direttamente dalla porta principale nel Codice dell’Ambiente, l’occasione per un ingresso indiretto veniva data dal legislatore con il nuovo sistema normativo introdotto nell’ordinamento attraverso la decretazione d’urgenza. L’articolo 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 definiva infatti una nuova disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, finalizzata ad un nuovo assetto del mercato, che doveva essere regolato da principi omogenei, così da essere trasversale rispetto a quelle settoriali, soprattutto con riferimento al profilo dell’affidamento e della gestione dei rispettivi servizi.

L’operazione legislativa, mal digerita anche dalla dottrina[24], non trovava entusiasmi neanche tra i componenti dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture[25] che, nel contesto di un procedimento di accertamento della legittimità degli affidamenti in house ai soggetti gestori pubblici del Servizio di Gestione Integrata dei rifiuti urbani, così si esprimevano: “E’ scomparsa quindi la possibilità di scelta tra diversi modelli di gestione come consentito dal comma 5 dell’art. 113 del TUEL, sostituita dalla previsione della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del gestore. Il Codice Ambientale, dunque, ammette una sola modalità di affidamento del servizio, ritenendo che in questo settore esista un mercato, e in definitiva della concorrenza, creando per i rifiuti una disciplina di settore diversa rispetto a quella ordinaria”. La stessa Autorità evidenziava altresì che “Secondo le previsioni di cui all’art. 23-bis della legge n. 133/2008, successivamente modificato dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009 n. 135, convertito in legge n. 166 del 20/11/2009, le gestioni in house, esistenti alla data del 22 agosto 2009, cessano al 31 dicembre 2011 se conformi ai principi comunitari ed al 31 dicembre 2010 se difformi rispetto a detti principi, salvo che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40% del capitale attraverso modalità competitive e di evidenza pubblica”.

 

4. Il rapporto tra normativa generale e normativa speciale sugli affidamenti dei servizi pubblici locali a rilevanza economica

L’art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, relativo alla disciplina dell’affidamento e della gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, prevedeva che “(…) Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili. Sono fatte salve (…) le disposizioni della legge 2 aprile 1968, n. 475, relativamente alla gestione delle farmacie comunali, (…)”. Tale disciplina era destinata ad essere completata, ai sensi del comma 10, da uno o più regolamenti con natura delegificante che dovranno disciplinare una serie di questioni molto importanti per lo sviluppo industriale delle società che, a vario titolo, già forniscono servizi pubblici locali di natura economica e di quelle che vorrebbero entrare su tali mercati. Essa conteneva un complesso di disposizioni (commi da 1 a 9) che si potevano considerare immediatamente precettive, ancorché limitate dal fatto che l’art. 23-bis, comma 10, lett. m) rimetteva al Regolamento il compito di individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo, dando così espressa esecuzione al disposto del comma 11 ove si affermava genericamente che l’art. 113 del D.lgs. n. 267/2000 doveva ritenersi abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni del presente articolo.

A partire dall’entrata in vigore di detto articolo, la tradizionale tesi secondo cui nella materia de qua (gestione integrata dei rifiuti) sarebbe prevalente la disciplina posta dalla legge di settore all’art. 201 del D.lgs. n. 152/2006, non poteva più essere sostenuta, soprattutto perché la disciplina di cui all’art. 23-bis concerneva espressamente la tutela della concorrenza, applicandosi a tutti i servizi pubblici locali (“Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà, di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”).

Puntuale, in questa direzione, arrivava il Tar Veneto che, attraverso un’articolata sentenza[26], ripescava l’ipotesi dell’in house anche per la gestione dei servizi pubblici connessi alla raccolta dei rifiuti, affermando che “L’art. 23-bis del D.L. 25 giugno 2008  convertito con modificazioni in L. 6 agosto 2008 n. 133 dispone, con disciplina che espressamente si applica a tutti i servizi pubblici locali e prevale sulle norme degli ordinamenti di settore con esse incompatibili (quindi, anche sull’ordinamento relativo ai rifiuti di cui allo stesso D.L.vo 152 del 2006), che <<in deroga alle modalità di affidamento ordinario … a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica>>, i servizi pubblici locali possono anche essere diversamente affidati, <<per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato>>,  previa <<adeguata pubblicità>> a tale scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato con contestuale trasmissione “di una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione”. Peraltro il legislatore, se avesse voluto fare salvi alcuni servizi pubblici dotati di propria disciplina lo avrebbe fatto espressamente alla stregua di quanto statuito, ad esempio, per la gestione delle farmacie comunali[27].

Restava da chiedersi se nella fase transitoria, il citato art. 202 del Codice dell’Ambiente risultava di fatto da considerare abrogato esclusivamente in base al meccanismo delle incompatibilità. Più in dettaglio, le discipline di settore erano dichiarate “incompatibili” con le attuali disposizioni generali che “prevalgono” a tutti gli effetti sulle prime. A questo punto la questione prioritaria riguardava il significato della nozione di prevalenza e cioè, se, in termini giuridici, si trattava di una vera e propria abrogazione. Una cosa è infatti stabilire che una norma prevale su un’altra, altra cosa è prevederne espressamente l’abrogazione. In tale contesto, “la domanda non appare inutile se la frase del c. 1 viene letta in connessione con quanto affermato al c. 10, lett. d) dove si prevede che al regolamento sia affidato, tra l’altro, il compito di <<armonizzare>> la <<nuova disciplina>> e quelle settoriali <<individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua>>, cioè in tutti gli ambiti regolati da normative di settore[28].

A spazzare ogni residuo dubbio in ordine al rapporto tra normativa speciale (art. 202, comma 1, D.lgs. n. 152/2006) e normativa generale (art. 23-bis della L. n. 133/2008) ci ha pensato il tanto atteso Regolamento attuativo, veicolato attraverso il D.P.R. n. 168 del 07/09/2010 e pubblicato nella G.U. n. 239 del 12/10/2010. L’art. 12 di detto Regolamento, alla lettera “c” del comma 1, ha provveduto infatti ad abrogare espressamente l’art. 202, comma 1, del D.lgs. n. 152/2006, e successive modificazioni, ad eccezione della parte in cui individua la competenza dell’Autorità d’ambito per l’affidamento e l’aggiudicazione.

Si può quindi tirare una prima conclusione, secondo la quale, fino alla pubblicazione, a cura del Presidente della Repubblica, del decreto che proclama l’esito referendario[29], le modalità di affidamento del servizio di gestione integrata dei rifiuti risultano ancora disciplinate dal nuovo art. 23-bis e dal successivo Regolamento attuativo n. 168/2010, attesa non tanto la prevista “prevalenza”, quanto l’espressa abrogazione dell’art. 202 del Codice dell’Ambiente contenuto nel medesimo Regolamento. Se, pertanto, questo quadro normativo pre-referendum consente agli Enti locali di accedere anche alla forma eccezionale (rectius, non ordinaria) dell’in house per la gestione del servizio integrato dei rifiuti[30], l’istituto della “gara” costituisce comunque la modalità ordinaria per l’affidamento di siffatti servizi pubblici locali a rilevanza economica.

 

5. Gli effetti del referendum sulla gestione integrata dei rifiuti

Non essendo il settore dei rifiuti, alla stregua di quello idrico, preservato dal legislatore, alla demolizione del sistema normativo disciplinato dall’art. 23-bis della legge n. 133/2008 ad opera del referendum consegue, come statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata in premessa “l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica”, dovendosi escludere la reviviscenza dell’art. 201 del Codice dell’Ambiente[31].

Ciò significa che l’Autorità d’ambito (Ente locale, Consorzio d’ambito, Società d’ambito) titolare della gestione del servizio integrato dei rifiuti per ambito territoriale ottimale, non sarà più obbligata ad affidarsi al mercato concorrenziale per la scelta del soggetto gestore, ma potrà valutare anche l’ipotesi della gestione diretta ovvero quella dell’affidamento diretto secondo il più noto istituto dell’in house. Ovviamente, coma già detto, dopo un’attenta valutazione tecnica, economica ed amministrativa, attesi i limiti tratteggiati dalla giurisprudenza comunitaria in ordine all’accertamento dei requisiti in capo alla società partecipata (partecipazione pubblica totalitaria, controllo analogo ed attività prevalente), ma anche quelli interni indicati dalla giurisprudenza della Corte dei Conti in materia di partecipazione degli enti locali in società di diritto privato.

L’art.3, c. 27 e seguenti, della legge finanziaria 2008 n. 244/2007 prevede infatti che “al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E’ sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e l’assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel lambito dei rispettivi livelli di competenza. L’assunzione di nuove partecipazioni e il mantenimento delle attuali devono essere autorizzati dall’organo competente che è il Consiglio Comunale con delibera motivata in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui al comma 27”.

Secondo quanto affermato dalla Corte dei Conti[32], l’art. 3, commi 27-32, nel porre limitazioni alla costituzione e alla partecipazione in società da parte delle pubbliche amministrazioni, ribadisce e rafforza il principio generale secondo cui la costituzione di società o il mantenimento di partecipazioni azionarie da parte degli enti locali richiede come presupposto la “funzionalizzazione” dell’attività di carattere imprenditoriale alla cura di interessi generali giuridicamente organizzati in funzioni o servizi pubblici, attribuiti ad una pubblica amministrazione. Il comma 27, sopra citato, va quindi oltre la disposizione di cui all’art. 13 del D.L. n. 223/2006 (decreto Bersani, conv. in L. n. 248/2006) richiedendo da un punto di vista oggettivo non tanto una pura e semplice “strumentalità”, bensì un rapporto di “stretta necessità” per il perseguimento delle attività istituzionali dell’ente, con ciò evidenziando che, oltre al rapporto di stretta necessità e/o alla sussistenza di servizi di interesse generale, dovranno emergere esigenze di ordine tecnico (ad esempio, con riferimento a beni e servizi non altrimenti reperibili nel libero mercato, o strutturalmente non erogabili direttamente dall’ente) o economico (per es. legate alla maggiore convenienza economica dell’autoproduzione del bene o servizio rispetto all’acquisizione di esso sul mercato) che depongano in favore dell’opzione societaria. L’ente dovrà quindi, attentamente valutare i costi e i benefici dell’affidamento del servizio con lo strumento dell’in house in termini di efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di lungo periodo, nonché le ricadute sui cittadini e sulla responsabilità dell’amministrazione stessa.

 

6. Considerazioni finali:

Le considerazioni finali che possono farsi in ordine alle modalità di gestione del servizio integrato dei rifiuti sono le seguenti:

a) in quanto rientrante nell’ambito dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, il settore dei rifiuti è direttamente investito dagli effetti dell’esito abrogativo operato dal referendum;

b) la normativa di risulta immediatamente applicabile circa le modalità di gestione integrata dei rifiuti è quella comunitaria a cui fa espresso riferimento la Corte Costituzionale nella sentenza n. 24/2011;

c) la sopravvivenza della disciplina abrogata con riguardo ai rapporti in essere sorti in forza della medesima non è in discussione, attesa la nota efficacia ex nunc dell’abrogazione referendaria;   

d) la “gara pubblica” per la scelta del soggetto gestore, mentre non rappresenta più il modello ordinario imposto alle Autorità d’ambito per espressa volontà legislativa, non può certamente essere esclusa nell’ambito di un settore, qual’è quello dei rifiuti, in cui risulta ampiamente dimostrata l’esistenza di un mercato concorrenziale di operatori economici altamente specializzati;

e) gli altri modelli di affidamento del servizio in regime di gestione diretta ovvero di semi-amministrazione (affidamento in house) mentre non sono più da considerare derogatori, richiedono pur sempre un’adeguata e convincente motivazione, attesi gli illustrati limiti imposti per giustificare tale scelta.

7. Il caso siciliano

Il legislatore siciliano, in materia di servizi pubblici locali a rilevanza economica[33] ha preferito fare uso dello strumento del rinvio alla legislazione statale. La scelta, probabilmente, è risultata saggia se si considera che più recentemente alcuni servizi pubblici locali a rilevanza economica hanno formato oggetto di importanti pronunce della Corte Costituzionale, che, dopo aver escluso che detti servizi possano essere ricondotti nell’ambito delle funzioni fondamentali degli enti pubblici, ha ricondotto la forma di gestione dei servizi e le procedure di affidamento degli stessi alla materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa statale[34].

Nel caso specifico della gestione integrata dei rifiuti, pur in presenza di un riconoscimento alle Regioni della possibilità di adottare misure che garantiscono una concorrenza nelle procedure di affidamento maggiore rispetto a quella assicurata dal legislatore statale[35], il legislatore siciliano ha preferito, attraverso l’art. 15 della L.r. 08/04/2010 n. 9, rinviare all’art. 202 del D.lgs. n. 152/2006 ed all’art. 23-bis della legge n. 133/2008 e s.m.i. per quanto concerne le modalità di affidamento del relativo servizio.

Dopo l’abrogazione dell’art. 202 del D.lgs. n. 152/2006 ad opera del DPR n 168/2010 e dell’art. 23-bis della legge n. 133/2008 e s.m.i. ad opera del referendum, si pone la questione se il rinvio contenuto nel citato art. 15 della L.r. n. 9/2010 abbia natura recettizia ovvero formale e dinamico, anche alla luce di quanto sostenuto dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, secondo cui trattasi di rinvio materiale o recettizio quando il legislatore regionale fa propria la norma statale (con eventuali modifiche ed integrazioni) rendendola quindi estranea alla normativa statale. Diversamente il rinvio si configura formale e dinamico, ma anche in tale ipotesi il legislatore regionale pone invero limiti di compatibilità, di competenze dei soggetti, di assetto procedimentale, contingenti o di successiva legislazione. Con il rinvio recettizio e materiale (o statico) l’ordinamento regionale non subisce automatiche modifiche per l’intervento (o, specularmente, per l’eliminazione) di norme statali[36].

 Tale questione appare, tuttavia, irrilevante nel caso di specie, posto che il citato rinvio alla norma statale opera nella misura in cui il legislatore regionale, pur avendo una competenza esclusiva sulla materia, decide di uniformarsi alla disciplina statale. Nel caso in specie, cioè quello delle modalità di affidamento di servizi pubblici a rilevanza economica, la Regione Siciliana non esercita alcuna competenza esclusiva e pertanto il rinvio operato, più che statico, ovvero dinamico, è da considerarsi virtuale. Diverso sarebbe stato il caso in cui ad essere abrogata fosse stata, ad esempio, una disciplina statale di una materia su cui la Regione Siciliana esercita per Statuto la propria competenza in via esclusiva (enti locali, urbanistica, beni culturali, pubblico impiego regionale ecc…).

Per una corretta ricostruzione del quadro dei rapporti tra fonti statali e regionali all’indomani dell’esito referendario, si può quindi sostenere che l’abrogazione a livello statale dell’art. 202 del D.lgs. n. 152/2006 prima e dell’art. 23-bis dopo, incide anche sulla sopravvivenza delle relative norme nello spazio giuridico siciliano, trattandosi, nel caso in specie, di rinvio virtuale. Pertanto, a tale tipologia di rinvio al medesimo sistema normativo adottato dallo Stato, travolto dall’esito del referendum, consegue anche per l’ordinamento siciliano l’ingresso automatico delle illustrate norme comunitarie, trattandosi di norme che, trovando applicazione immediata nell’ordinamento interno, a fortiori risultano cogenti anche nel sistema ordinamentale regionale.

In tale contesto, le considerazioni finali su elencate sono da estendere, senza alcun ritocco, anche al caso siciliano.

 

[1] Valeria Avaltroni, “L’assetto della disciplina del SII dopo il referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011 – note d’approfondimento”, in Diritto dei servizi pubblici, 06/07/2011.

[2] Corte Cost. sent. n. 439 del 15/12/2008.

[3] Sent. Coditel Brabant CE, 09.06.2009 causa C-480/06.

[4] Giampaolo Rossi, “Ricomporre il quadro normativo delle società di gestione dei servizi pubblici locali. Alla ricerca del filo di Arianna”, Giustamm.it, n. 6/2011.

[5] Norberto Bobbio, “Né con Marx né contro Marx”, Editori Riuniti, maggio 1997, Roma.

[6] Corte dei Conti sez. di contr. in sede cons., delib. 11/05/2009 n. 195.

[7] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 08/02/2011 n. 854.

[8] Rosa Francaviglia, “L’incidenza della flessibilità del rapporto di lavoro sul costo del personale nelle aziende sanitarie”, Diritto.it, giugno 2004.

[9] Corte dei Conti, sez. reg.le di contr. Regione Lombardia, parere 22/10/2008 n. 79.

[10] Nota interpretativa del 14/06/2011.

[11] Luca Manassero, “Il Servizio Idrico Integrato – e gli altri Servizi pubblici locali – ed il referendum 2001: alle soglie di una (contro) rivoluzione?”, Diritto dei Servizi Pubblici, 06/06/2011.

[12] Cons. Stato, Ad. Plen., decisione n. 1/2008.

[13] Cons. Stato, sent. 23/03/2003 n. 1289.

[14] Segnalazione dell’AGCM (AS468) del 04/08/2008: affidamento di servizi pubblici locali aventi rilevanza economica secondo modalità c.d. in house.

[15] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 26/01/2011 n. 552.

[16] Maria Alessandra Sandulli, intervento al seminario “Affidamento e gestione dei servizi pubblici locali alla luce del regolamento attuativo, Milano 09/02/2011.

[17] Tar Lazio, Sez. II ter, sent. 04/02/2011 n. 1077.

[18] Gerardo Guzzo, “L’assetto della disciplina SPL di rilevanza economica all’indomani del risultato del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011: riflessioni minime”, Diritto dei Servizi Pubblici, 06/06/2011.

[19] Ugo Patroni Griffi e Ilaria Rizzo, “L’appalto in house non cede all’esito del referendum”, Il Sole 24Ore, 03/07/2011.

[20] Si veda a tal proposito Tar Palermo, sez. I, sent. n. 2511, 05/11/2007.

[21] Carlo Rapicavoli, “La gestione dei rifiuti urbani nel codice ambientale”, LexItalia.it, n. 10/2007.

[22] A tal riguardo la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 206 del 2001, ha affermato che i decreti correttivi ed integrativi devono avere lo stesso oggetto del decreto originario e seguire gli stessi criteri direttivi ai quali quest’ultimo si è ispirato.

[23] Consiglio di Stato, Sez. V, sent. 13/02/2009 n. 824.

[24] Si vedano i commenti di Laura Ammannati, “Frammenti di una <<riforma>> dei servizi pubblici locali”, Amministrazione In Cammino, 26/11/2008.

[25] Deliberazione n. 2, Adunanza del 13/01/2010.

[26] Tar Veneto Sez. I°, sent. n. 236 del 02/02/2009.

[27] Con sentenza n. 1598 del 28/06/2011, il Tar di Catania ha implicitamente confermato la prevalenza della disciplina generale contenuta nell’art. 23-bis sulle normative speciali in ordine alle modalità di affidamento dei relativi servizi pubblici, ad eccezione di quelle (come nel caso trattato della farmacie comunali) espressamente elencate e fatte salve dalla medesima normativa.

[28] Laura Ammannati, “Frammenti di una <<riforma>> dei servizi pubblici locali”, Amministrazione In Cammino, 26/11/2008.

[29] Ai sensi dell’art. 37 della legge n. 352/70, “l’abrogazione ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale”.

[30] L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, chiamata ad esprimere il proprio parere ai sensi dell’art. 26 della legge n. 287/90, ha mantenuto una linea rigorosa in ordine all’accertamento dei requisiti per l’affidamento in house del servizio di gestione integrata dei rifiuti. Si veda tra le tante, parere del 18/11/2009 richiesto dal Comune di Boscoreale.

[31] Reviviscenza costantemente esclusa dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997.

[32] Sezione giurisdizionale per il Veneto, parere n. 5/2009.

[33] Solo per i servizi pubblici a rilevanza non economica, la cui competenza è stata assegnata dalla Corte Costituzionale alle Regioni con sentenza 27 luglio 2004, n. 272, la Regione Siciliana ha recentemente legiferato con l’art. 21 della L.r. n. 5 del 11/04/2011.

[34] Si vedano le sentenze n. 272/2004, 307/2009 e 325/2010.

[35] Corte Costituzionale, sent. n. 307/2009.

[36] C.G.A., parere n. 592 del 16/11/1993 e C.G.A decisione n. 403/2010.

Greco Massimo

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