È preclusa all’autonomia negoziale la creazione del diritto di uso esclusivo sulle parti comuni dell’edificio condominiale.

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Il lavoro si pone l’obiettivo di ricostruire l’iter giuridico che ha interessato la questione relativa alla configurabilità del “diritto reale di uso esclusivo” su un bene condominiale.

Tale questione – che ha costituito oggetto di interpretazioni contrastanti tanto in dottrina quanto nell’ambito della più recente giurisprudenza – ha infine trovato soluzione con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 28972 del 17 dicembre 2020: La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi”. 

La vicenda

Tre sorelle erano comproprietarie di un edificio costituito, al piano terra, da tre unità immobiliari destinate ad uso commerciale e, al primo piano, altre tre unità destinate ad uso abitativo con corte antistante agli stessi locali commerciali. All’esito della divisione, ciascuna delle proprietarie diveniva titolare rispettivamente di un locale e di un appartamento, la corte retrostante rimaneva comune, fatti salvi gli usi esclusivi. In occasione della costituzione del condominio rispetto agli immobili in questione, una delle sorelle otteneva l’uso esclusivo dell’area antistante il proprio locale commerciale che, successivamente, alienava a terzi, i quali divenivano i nuovi proprietari dell’appartamento e del locale comprensivo di uso esclusivo.

I suddetti, in seguito, venivano convenuti in giudizio dagli aventi causa delle altre due sorelle che contestavano loro, tra le tante, l’uso esclusivo del cortile. Gli attori domandavano la condanna delle parti convenute a cessare la condotta fino a quel momento tenuta con ordine di eliminazione delle opere realizzate nell’area antistante il locale commerciale, ritenuta la natura comune della stessa porzione condominiale.

I convenuti si costituivano in giudizio, contestando tutte le domande formulate nei loro confronti e sostenendo la legittimità della propria condotta, oltre che delle opere realizzate, in quanto titolari di un diritto di uso esclusivo sulla predetta porzione condominiale, derivante tanto dal titolo negoziale, definito con la propria dante causa, quanto dall’atto costitutivo del condominio, adottato all’esito della divisione del complesso immobiliare tra le originarie proprietarie, ovvero per usucapione della relativa servitù oppure in ragione del diritto di uso di cui all’art. 1021 c.c..

Il Tribunale rigettava tutte le domande proposte, ivi incluse quelle riconvenzionale formulate dai convenuti.

La Corte d’Appello, esaminata la CTU espletata in primo grado, evidenziava come gli originari comproprietari dell’edificio, nell’includere tra le parti comuni anche il terreno comprendente la porzione in contestazione avevano fatto salvi gli usi esclusivi di alcune proprietà, tra cui quella degli appellati, intendendo così sottrarre dette aree alle parti comuni del condominio. Si evidenziava, altresì, che in ogni caso l’uso esclusivo effettivamente menzionato nel contratto di compravendita non doveva ricondursi al diritto di uso di cui all’art. 1021 c.c. quanto piuttosto all’uso delle parti condominiali secondo il regime di cui agli artt. 1102 e 1122 c.c.. In conseguenza, anche nel caso in cui fosse stata riconosciuta la natura condominiale della porzione in discussione, il suo uso – in quanto preclusivo di pari possibilità di godimento da parte degli altri condomini -, in ogni caso, doveva ritenersi legittimo in quanto non precluso dalla legge nella stessa disciplina della comunione e, in ogni caso, accettato  da tutti i condomini sin dall’epoca della costituzione del condominio.

La Seconda sezione civile della Cassazione, investita del ricorso, nonostante la successiva rinuncia allo stesso dalle parti, rilevata l’esigenza di esaminare una tematica di diritto che, oltre ad essere decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, investiva una questione di massima di particolare importanza: definire compiutamente la natura giuridica del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di parti comuni dell’edificio condominiale, con ordinanza n. 31420/2019, disponeva la trasmissione degli atti al Primo Presidente, il quale ha ritenuto di rimettere la causa alle Sezioni Unite.

La questione: “Quali sono i rapporti tra diritti reali e autonomia negoziale”

Come ben evidenziato dall’ordinanza di rimessione, la controversia oggetto di ricorso concerne il tema della “utilizzabilità delle obbligazioni, come espressioni di autonomia privata volte a regolare le modalità di esercizio dei diritti reali[1].

La questione cui occorre dare soluzione riguarda, dunque, la possibilità di regolare i diritti reali attraverso l’autonomia privata (rectius mediante rapporti contrattuali); in particolare, per quanto concerne l’oggetto della fattispecie in esame, è controversa la possibilità di regolare il diritto d’uso della parti comuni di un edificio in modo diverso rispetto a quanto dispone l’art. 1021 c.c. al fine di adattarlo alle specifiche esigenze condominiali.

I giudici rimettenti non celano la consapevolezza che, tradizionalmente, la suddetta possibilità è stata ostata dai teorici, i quali hanno sempre evidenziato come la libertà negoziale può conformare unicamente i rapporti di debito e non anche le situazioni reali.

La severità di quest’ultima conclusione trova il suo fondamento nei principi inespressi, ma indiscussi, della tipicità e del numerus clausus in materia di diritti reali; principi che si reputano ispirati ad una esigenza di ordine pubblico, spettando solo al legislatore la scelta di dar vita a “nuove figure che arricchiscano i “tipi” reali normativi[2].

Come intendere, allora, il vincolo reale costituito, in via negoziale, sul bene comune dell’edificio condominiale in favore del condomino proprietario esclusivo di una unità immobiliare.

A tal fine, le Sezioni Unite, passando in rassegna gli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali che, sebbene non pacifici, hanno comunque offerto contributi utili per la risoluzione della questione, valutando se e come il dititto di uso esclusivo sul bene condominiale possa armonizzarsi con la regola basilare di cui all’art. 1102 c.c. (certamente applicabile anche al condominio, stante il rinvio di cui all’art. 1139 c.c.), a norma della quale ciascun comunista può servirsi della cosa comune; ovvero, se il diritto di uso esclusivo abbia natura di diritto reale atipico oppure sia riconducibile ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento, affrontandosi, finanche, l’ipotesi che il diritto de quo non sia neanche ascrivibile alla categoria del diritto reale quanto, piuttosto, a quella del diritto di credito.

Diritto d’uso codicistico

Al fine di meglio comprendere i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite sulla questione, si ritiene utile un preliminare inquadramento normativo del diritto d’uso oggetto di interpretazione.

Il diritto d’uso, disciplinato dall’art. 1021 c.c.[3] è un diritto reale in forza del quale il titolare (usuario) può servirsi della cosa altrui traendo dalla stessa le utilità che è in grado di fornire ove fruttifera, limitatamente a quanto occorre per il soddisfacimento dei bisogni suoi propri e della propria famiglia.

Si tratta di un diritto che non può costitutire né oggetto di cessione né di concessione in locazione (art. 1024 c.c.)[4] in favore di terzi e non può superare il limite di durata della vita dell’usuario ovvero di trent’anni quando questi è persona giuridica (1026 c.c.)[5].

Le forti limitazioni che connotano il diritto d’uso possono, quindi, ritenersi già da sé sufficienti ad escludere la compatibilità della fattispecie con il regime dell’uso dei beni condominiali.

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Origine del “diritto reale di uso esclusivo” sul bene comune del condominio.

Quanto all’origine del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” in ambito condominiale, se in dottrina, sovente, è stata sostenuta la matrice giurisprudenziale dell’istituto, di contro, la stessa giurisprudenza ha sempre negato detta paternità.

È certamente vero che non è stato raro imbattersi in decisioni rese nell’ambito di liti in cui si controverteva circa la pretesa titolarità, in capo ad un condomino, di un diritto di uso esclusivo su una parte comune condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., però, a ben guardare, simili controversie erano piuttosto causate da una certa prassi notarile che, attraverso l’inserimento in contratto di una clausola con cui si concedeva ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di una porzione condominiale, rimediava a problematiche catastali fruendo dei vantaggi conseguenti dalla stessa qualificazione surrettizia.

Eppure, nonostante la diffusione del fenomeno, la giurisprudenza di legittimità non ha preso una posizione chiara ed esplicita in merito al fondamento e alla natura di un “diritto reale di uso esclusivo” di una parte comune dell’edificio condominiale.

Indirizzi contrastanti delle sezioni semplici della Corte di Cassazione

Solo nel 2017 la Cassazione, con sent. n. 24301, ha chiarito che l’uso esclusivo su parti comuni dell’edificio, riconosciuto al momento della costituzione del condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide sul riparto delle facoltà di godimento fra i condomini, che, in tal caso, avviene secondo modalità non paritarie, determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto dagli artt. 1102 e 1117 c.c..

Ne consegue che tale diritto non si ritiene riconducibile al diritto reale d’uso previsto dall’art. 1021 c.c., sicché non ne condivide né i limiti di durata, né i limiti di trasferibilità, né le modalità di estinzione.

Al contrario, la previsione pattizia dell’uso esclusivo, senza escludere del tutto la fruizione di una qualche utilità sul bene in favore degli altri proprietari, costituisce una deroga all’art. 1102 c.c. con effetto conformativo dei rispettivi godimenti. Pertanto, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, deve intendersi tendenzialmente perpetuo e trasferibile anche ai successivi aventi causa dell’unità cui l’uso medesimo accede.

Ed invero, secondo il richiamato indirizzo, la clausola di riserva posta dall’art. 1117 c.c., norma che nell’indicare le parti comuni dell’edificio condominiale precisa che la presunzione di comunione opera “se non risulta il contrario dal titolo”, consentirebbe alle parti, in sede costitutiva del condominio, di convenire l’uso esclusivo di una parte comune in favore di uno o più condomini. Dunque, attraverso la previsione del diritto di uso esclusivo sul bene comune condominiale può definirsi un riparto delle facoltà di godimento diverso – secondo quanto previsto, appunto, nel titolo negoziale – rispetto a quello altrimenti operante, in via presuntiva, ai sensi degli artt. 1117 e 1102 c.c..

In altri termini, i partecipanti diversi dall’usuario esclusivo, in questa ipotesi, conosceranno una diversa conformazione dei rispettivi godimenti secondo le prescrizioni disposte con il titolo negoziale, il quale, espressamente, può prevedere maggiori utilità per l’usuario e minori utilità per gli altri condomini.

Trattandosi, pertanto, solo di una particolare modalità di esercizio dello stesso diritto di comunione, deve ritenersi che anche rispetto all’uso esclusivo operino i corollari dell’inerenza del rapporto a tutte le unità in condominio, con la conseguenza che l’uso esclusivo si trasmetterebbe, al pari degli ordinari poteri dominicali sulle parti comuni, anche ai successivi aventi causa tanto dell’unità cui l’uso medesimo accede quanto alle altre, che, inevitabilmente, fruiranno di minore utilità[6].

È evidente che così inteso, il diritto di uso esclusivo non si porrebbe in contrasto con il principio del numerus clausus dei diritti reali, atteso che l’uso esclusivo condominiale si atteggerebbe, piuttosto, solo come una possibile forma di manifestazione del diritto del condomino sulle parti comuni.

La ricostruzione prospettata se, per un verso, appaga le esigenze avvertite dalla pratica notarile di riservare al c.d. uso esclusivo di parti condominiali il rango di diritto “perpetuo e trasmissibile” (quindi, a contenuto non strettamente personale), collegandosi la facoltà di usare il bene non ad un soggetto, ma ad una porzione di proprietà individuale, per altro, la qualificazione del diritto di uso esclusivo quale diritto “quasi” uti dominus, ma pur sempre con il limite di cui all’art. 1102 c.c., non risolve il problema della trascrivibilità e, quindi, dell’opponibilità dell’uso esclusivo sulla cosa comune, considerato che né l’art. 2643 c.c. né l’art. 2645 c.c. richiama tra gli atti soggetti a trascrizione atti negoziali modificativi del diritto di proprietà, di comunione o di condominio.

Non vi è dubbio che la sentenza citata ha aperto la strada a una ricostruzione innovativa, che ha trovato conferma anche in arresti successivi[7], ma non sono mancati orientamenti di senso contrario.

In quest’ultimo senso muove proprio la seconda sezione che, in tempi recenti, ha affermato che non può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà, dando vita ad un diritto reale incompatibile con l’ordinamento (in tal senso Cass. civ., sent. n. 193/2020).

Orientamenti dottrinali esaminati dalle Sezioni Unite

In merito al tema della configurabilità del diritto reale di uso esclusivo in ambito condominiale anche la dottrina ha sollevato non pochi dubbi.

Sono state avanzate censure critiche in ordine alla validità di un accordo interno tra i comunisti che, in deroga all’art. 1102 c.c., possa assegnare l’uso esclusivo di un bene comune (o solo parte di esso) ad uno o più comunisti. A fondamento della perplessità è stata richiamata proprio la lettera dell’art. 1102 c.c., che, nel porre in evidenza un aspetto strutturale ed essenziale della comunione ossia il godimento, secondo un’opinione largamente condivisa, lascerebbe intendere l’insuscettibilità dello stesso godimento a subire modificazioni di ordine sostanziale.

In senso contrario, invece, è stato osservato come esisterebbe un esplicito riconoscimento legislativo degli usi esclusivi tali da determinare una modificazione del diritto di comproprietà, suscettibile di trascrizione. Si tratterebbe dell’art. 6, comma II, lettera b), del decreto legislativo 20 maggio 2005, n. 122, che impone al costruttore di indicare nel contratto relativo ad una futura costruzione le eventuali parti condominiali e pertinenze esclusive.

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, premessa la critica in ordine al ricorso al termine “uso”, tale da indurre in errore evocando il diritto reale di cui all’art. 1021 c.c., si potrebbe superare ogni esitazione, intendendo il rapporto costituito alla stregua di una servitù.

Più precisamente, il “fondo servente” sarebbe costituto dal bene comune (spesso un cortile) nella parte asservita e il fondo dominante sarebbe l’unità immobiliare a favore del quale il bene medesimo è asservito; il peso imposto si identificherebbe nell’esercizio della facoltà esclusiva da parte del condomino (nel cui favore la servitù è costituita) di godere del bene. Né varrebbe ad impedire la configurabilità della servitù l’eccezione del principio nemini res sua servit, atteso che, nella fattispecie, l’intersoggettività del rapporto sarebbe comunque garantita dal concorso di altri titolari sul bene comune.

Dall’esame dei su richiamati indirizzi può trarsi la conclusione che, in generale, anche in dottrina l’opinione prevalente esclude la riconducibilità dell’uso esclusivo in argomento al diritto di uso di cui all’art. 1021 c.c..

C’è poi chi ammette la creazione per via negoziale di diritti reali atipici, sostenendo il superamento dei principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali, il che, se fosse vero, farebbe venir meno ogni ostacolo, fin d’ora, frapposto all’ammissibilità del diritto reale di uso esclusivo.

Percorso motivazionale delle Sezioni Unite

Osservazioni preliminari sull’art. 1102 c.c.

Secondo le Sezioni Unite l’art. 1102 c.c., rubricato “uso della cosa comune”, è applicabile anche al condominio in virtù del rinvio di cui all’art. 1139 c.c., che ricorre al vocabolo “uso” intendendo per tale il potere di “servirsi della cosa comune”.

Con la suddetta locuzione si riassumono tutte le facoltà ed i poteri per mezzo dei quali il comunista (rectius il condomino) ritrae dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di offrire compatibilmente alla sua oggettiva destinazione. Così inteso, è evidente che l’“uso” assume il carattere di connotazione essenziale, aspetto intrinseco del contenuto del diritto di comproprietà, al pari di quanto previsto per il diritto di proprietà in ragione del dettato di cui all’art. 832 c.c.

Il carattere intrinseco e tipizzante l’uso della cosa comune trova, altresì, conferma in seno alla stessa disposizione, proprio nella parte in cui si impone l’obbligo, al singolo partecipante alla comunione, di non impedire agli altri “di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Con quest’ultima espressione si riassumono i normali connotati che contraddistinguono l’uso della cosa comune nell’ambito della comunione ovvero del condominio, che normalmente si esaurisce nel riconoscimento a tutti i partecipanti di un uso della cosa indistintamente paritario, promiscuo e simultaneo.

Se questa è la configurazione normale del regime di comunione, lo statuto giuridico predisposto dal legislatore non esclude, però, la possibilità che possa essere riconosciuto, in favore del singolo, un uso, per così dire, più intenso rispetto agli altri.

In particolare, l’art. 1123 c.c. contempla espressamente la possibile esistenza di cose destinate a servire i condomini “in misura diversa”, regolando il riparto delle spese in proporzione all’uso, previsione che conosce ulteriore specificazione nella lettera di cui all’art. 1124 c.c. in ordine ai casi di manutenzione e sostituzione di scale ed ascensori.

Dunque, anche le Sezioni Unite confermano che l’art. 1102 c.c., pur prescrivendo che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune senza alterarne la destinazione e senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non esclude che la stessa regola possa essere derogata in sede di adozione del regolamento condominiale. Richiamando, infatti, un indirizzo già sostenuto dalla medesima giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite in commento precisano che se “i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, resta fermo che non è consentita l’introduzione di un divieto generalizzato delle parti comuni (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2114; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27233)”.

Il diritto di uso esclusivo sulle parti comuni del condominio non può ricollegarsi all’art. 1126 c.c.

Né può ritenersi che un tale diritto, con connotazione di realità, possa trovare fondamento nell’art. 1126 c.c., che ammette l’acquisto in proprietà da parte del singolo condomino del lastrico solare. Detta norma è richiamata dalle Sezioni Unite in considerazione del fatto che è esistito un precedente (Cass. n. 1103/1973), ancorché isolato, nella giurisprudenza della stessa Cassazione, che ha qualificato l’uso esclusivo ivi menzionato come diritto reale di godimento come tale usucapibile.

Si osserva, però, come l’usucapione non può certo riguardare il lastrico solare in quanto tale, stante l’ontologica insopprimibilità delle utilità che lo stesso offre all’intera compagine condominiale in ragione della propria destinazione a copertura ed a protezione del fabbricato. Ne consegue che, come inteso dallo stesso art. 1126 c.c., è ammessa la sola possibilità che il singolo condomino possa acquisire l’uso esclusivo  del calpestio rispetto al lastrico ossa il c.d. “diritto di calpestio esclusivo”. Tale uso esclusivo è ritenuto dalla dottrina un diritto reale equivalente ad una servitù; sicché nulla impedisce il suo acquisto per usucapione quale diritto autonomo rispetto al diritto di proprietà del lastrico solare.

È evidente, allora, come la previsione di cui all’art. 1126 c.c. si riferisce ad una situazione del tutto peculiare ossia quella dei lastrici solari che, pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell’edificio, possono essere oggetto di calpestio, per la loro conformazione ed ubicazione, da parte di un solo ovvero alcuni soltanto dei condomini, sicché l’uso esclusivo come descritto, in ogni caso, non priva tutti gli altri condomini di alcunché, considerato che questi continuano, in ogni caso, a trarre l’utilità della copertura, pur non potendovi comunque accedere.

Proprio la connotazione speciale della suddetta norma, secondo le Sezioni Unite, consentirebbe di desumere a contrario la non configurabilità di ipotesi ulteriori di uso esclusivo, che, in violazione della regola generale stabilita dal già richiamato articolo 1102 c.c. oltre che dei principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali, sottraggano a taluni condomini il diritto di godimento della cosa comune loro spettante. Neanche l’art. 1226 c.c. può, dunque, offre valido appiglio normativo per la costituzione di un più ampio diritto reale di uso esclusivo delle parti comuni.

Il diritto di uso esclusivo non discende dall’uso frazionato, il quale costituisce solo una delle possibili forme con cui esercitare l’uso paritetico

Parimenti privo di pregio pare il richiamo dell’art. 1122 c.c., come novellato dalla riforma del condominio intervenuta nel 2012, il quale nel prevedere che nelle parti normalmente comuni, ma destinate all’uso individuale il condomino non possa eseguire opere che ne pregiudichino la stabilità ovvero la sicurezza ed il decoro dello stesso edificio, in ogni caso, non fa mai riferimento alcuno ad un diritto reale di uso esclusivo sulle citate parti comuni; tutt’al più, la richiamata fattispecie può ben riferirsi all’uso frazionato delle parti comuni. Come è noto, infatti, l’uso paritetico può assumere caratteri diversi, pur sempre nei limiti della reciprocità come dimostrato, a titolo esemplificativo dall’uso frazionato (Cass. n. 14694/2015) ovvero l’uso turnario (Cass. n. 29747/2017).

Il diritto di uso esclusivo non trova riconoscimento legale nell’art. 6, II comma lett. b) del d.lgs. n. 122/2005

Non si ritiene condivisibile la tesi, talvolta affermata, secondo cui il riconoscimento legislativo degli usi esclusivi idonei a modificare il contenuto comune del diritto di comproprietà, potrebbe desumersi dall’art. 6, II comma lett. b), del decreto legislativo n. 122/2005, che obbliga il costruttore ad indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le “pertinenze esclusive”. Nel merito, è già risolutivo osservare che la norma de qua ha carattere eccezionale, sicché dalla stessa non può, in ogni caso, desumersi l’affermazione di un generale diritto reale di uso esclusivo.

Il diritto di uso esclusivo non è ascrivibile al diritto reale di servitù

Per le Sezioni Unite deve, comunque, escludersi che il diritto reale di uso esclusivo sulle parti condominiali possa assimilarsi ad una servitù prediale. La preclusione trova fondamento proprio negli stessi requisiti essenziali  che definiscono la fattispecie della servitù. Ed invero, se si considera che il diritto reale di servitù si concreta nella costituzione di un rapporto di assoggettamento tra due fondi, che importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, senza, però, che la stessa restrizione si risolva in una elisione totale delle facoltà di godimento del fondo servente, a parere delle stesse Sezini Unite, “è del tutto evidente che, se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’“uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla se non un vuoto simulacro”.

Il diritto di uso esclusivo non è ascrivibile né alla categoria delle obbligazioni propter rem né a quella degli oneri reali

Il diritto d’uso esclusivo non può rientrare neanche nella categoria delle obbligazioni propter rem ovvero in quella degli oneri reali. Ed invero, entrambe le fattispecie non conoscono un’applicazione generale e illimitata in quanto ammissibili solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Le obbligazioni propter rem e gli oneri reali sono, infatti, caratterizzati dal requisito della tipicità, quindi, possono sorgere per contratto solo nei casi e con il contenuto previsti dalla legge (Cass. n. 5888/2010; Cass. n. 4572/2014).

Inammissibilità dei diritti reali atipici

Preso atto della mancanza di riferimenti normativi, nell’ambito della disciplina giuridica vigente in tema di condominio, da cui desumere l’effettiva esistenza del diritto reale di uso esclusivo del bene comune, alle Sezioni Unite non resta che chiedersi “se la creazione di un atipico diritto reale di uso esclusivo”, tale da svuotare di contenuto il diritto di comproprietà, possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale”.

Orbene, l’ipotetica costituzione del diritto de quo, per i giudici di legittimità, deve essere esclusa, essendo ostacolata dai principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali, per effetto dei quali solo la legge può istituire figure di diritti reali e risulta precluso ai privati il potere di incidere sul contenuto legale dei diritti reali tipici snaturandolo.

Si prende atto dell’esistenza di una dottrina, certo minoritaria, che sostiene il superamento, anche in Italia, del dogma del numerus clausus e della tipicità in materia di diritti reali. A fondamento dell’opinione si pone il riconoscimento di una pari diginità tra diritti reali e diritti di credito dal punto  di vista dell’autonomia privata, che non incontrerebbe altro limite se non quello derivante dalla contrarietà all’ordine pubblico, dell’illiceità e della immeritevolezza della causa contrattuale valutata in concreto. In conseguenza, i privati ben potrebbero creare, in via negoziale, ogni genere di diritto tanto di natura reale quanto di natura obbligatoria, purché siano rispettati i principi inderogabili dell’ordinamento giuridico. E ciò, in considerazione del fatto che nessuno meglio delle parti private può rispondere, tempestivamente, alle sempre nuove esigenze del traffico giuridico; considerato che lo stesso legislatore, di norma, non è in grado di garantire eguale tempestività e completezza negli strumenti.

Tuttavia, proprio a dimostrazione della fallacia sottesa all’opinione surrichiamata, le Sezioni Unite ritengono sufficiente osservare che i diritti reali si caratterizzano per la sequela e l’opponibilità ai terzi; pertanto, ammettere la creazione di diritti reali atipici per contratto significherebbe incidere non solo sulle stesse parti contraenti, ma anche sui terzi acquirenti della cosa, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente. Ammettendo la primazia dell’autonomia contrattuale anche in materia di creazione dei diritti reali si arriverebbe a vincolare i terzi estranei ad un regolamento negoziale stabilito inter alios.

E allora, quando si sostiene che, dato il superamento dei principi del numerus clausus e della tipicità, nulla osterebbe a far sorgere dall’autonomia contrattuale diritti reali atipici, a rigore, non si tiene in debita considerazione una norma che, ove fosse vera l’irrilevanza dei principi suddetti, sarebbe stata superflua. Il riferimento va all’art. 1372 c.c., che limita gli effetti del contratto tra le parti, con la precisazione che solo la legge può ammettere che lo stessa produca effetti anche nei confronti di terzi.

A confermare la perdurante operatività del principio del numerus clausus nel nostro ordinamento concorre, di certo, anche l’art. 2643 c.c., che nel riportare l’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione, non fa menzione di atti negoziali modificativi del diritto di proprietà, il che sarebbe già sufficiente a negare la possibilità di trascrivere il diritto reale di uso esclusivo sul bene comune del condominio.

In ogni caso, deve rammentarsi che nel nostro ordinamento la trascrizione assolve ad una funzione meramente dichiarativa, pertanto, precisano le Sezioni Unite, “ammesso e non concesso che una simile trascrizione sia oggi tecnicamente possibile, non ha cittadinanza nel diritto vigente una regola generale che faccia discendere dalla trascrizione – se non sia il legislatore, ovviamente, a stabilirlo – l’efficacia erga omnes di un diritto che non abbia già in sé il carattere della realità. Ciò – sia detto per inciso – a tacere del rilievo, rimanendo alla trascrizione, che il c.d. “diritto reale di uso esclusivo”, ove inteso come prodotto della atipica modificazione negoziale del diritto di comproprietà, non sarebbe comunque trascrivibile, dal momento che l’art. 2643 c.c., contempla al numero 14 la trascrizione delle sentenze, non degli atti negoziali, che operano la modificazione di uno dei diritti precedentemente elencati dalla norma.

Non è dunque configurabile, per la Corte, la costituzione di diritti reali al di fuori dei tipi tassativamente previsti dalla legge, non potendo la proprietà essere asservita per ragioni privatistiche in modo tale da rendesi illusoria e priva di contenuto, inetta a realizzare i propri fini essenziali. Ne discende “la necessità di non abbandonare all’autonomia privata la materia dei diritti reali (iura in re aliena) e di mantenere la loro creazione entro schemi inderogabili fissati da esigenze di ordine pubblico” (Cass. n. 1343/1950).

Viene così rimarcata la differenza sostanziale e contenutistica tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento, da cogliere nell’ampiezza ed illimitatezza del primo rispetto alla multiforme atteggiabilità del secondo, che proprio in ragione della natura obbligatoria e non reale del rapporto giuridico prodotto, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto. Resta, dunque, fermo il principio per cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle previste dalla legge, né possono modificarne il regime (Cass. n. 5034/2008).

E, allora, se il connotato distintivo del diritto d’uso è la potenziale estensione delle facoltà dell’usuario a tutte le possibilità di uso diretto della cosa e se può, quindi, ammettersi che il titolo costitutivo restringa il contenuto del diritto con l’esclusione di talune facoltà, al contrario, deve ritenersi che l’attribuzione di una soltanto delle facoltà di uso consentite dalla natura bene possa dar vita ad un rapporto obbligatorio, ma non già ad un diritto reale di uso essenzialmente diverso da quello previsto dalla legge.

La soluzione

Per le Sezioni Unite va, dunque, affermato che la pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’articolo 1102 c. c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi.

Resta ovviamente riservata al legislatore la facoltà di dar vita a nuove figure che arricchiscano i tipi reali normativi.

Quale la sorte del titolo negoziale che prevede il diritto reale di uso esclusivo sul bene comune del condominio

Esclusa la validità della la costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, in ambito condominiale, inevitabilmente, sorge il problema della sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia contemplato.

In proposito, secondo la Corte, occorre, anzitutto, esaminare il titolo giuridico per verificare se le parti, al momento della costituzione del condominio, abbiano inteso limitarsi alla attribuzione dell’uso esclusivo ovvero abbiano voluto trasferire la proprietà del bene oggetto del contratto.

Orbene, considerato il tenore dell’art. 1326 c.c. nonché quello caratterizzante la formula “diritto d’uso esclusivo” si dovrebbe ritenere che la pattuizione non potrebbe mai deporre in favore del trasferimento della proprietà. Considerato che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine di adeguato processo interpretativo, anche nel caso in cui siano impiegate espressioni che, di norma, non necessitino di particolari approfondimenti interpretativi. Non può, quindi, escludersi a priori la possibilità che, sussistendone le condizioni, l’uso esclusivo concesso con il titolo negoziale sia effettivamente riconducibile al diritto reale d’uso di cui all’art. 1021. A tal fine, si rende, allora, necessario l’accertamento dei presupposti per la conversione del contratto così interpretato in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria ossia avente valore solo inter partes e non erga omnes.

Riflessioni conclusive sull’attuale portata applicativa dei principi di tipicità e del numerus clausus.

Le Sezioni Unite hanno individuato nei principi di tipicità e del numerus clausus la chiave risolutiva della questione di diritto controversa.

Tanto il principio di tipicità quanto quello del numero chiuso sono tramandati dalla dottrina e dalla giurisprudenza come principi di ordine pubblico; eppure, nonostante la loro indiscussa rilevanza in seno al nostro ordinamento, nessuno dei due costituisce oggetto di specifica previsione normativa.

Considerata la ricorrente affermazione degli stessi da parte della giurisprudenza, come confermato, da ultimo, dalla sentenza in commento, si ritiene utile ricostruirne la reale portata applicativa, anche al fine di meglio comprendere le limitazioni che la loro perdurante affermazione frappone all’esercizio dell’autonomia negoziale in sede contrattuale.

Pare opportuno ricostruirne l’origine storica, verificando quanto della resti ancora della stessa nella loro attuale configurazione.

Occorre evidenziare, in via preliminare, come il principio di tipicità, da una parte, ed il principio del numero chiuso, dall’altro, evochino due funzioni sostanzialmente diverse:

– il principio di tipicità sancisce l’impossibilità, per l’autonimia negoziale, di alterare il contenuto tipico dei diritti reali come definiti dal legislatore: l’autonomia negoziale non può andare fuori dagli schemi legali e neanche nell’ambito degli stessi può modificare il contenuto legale dei tipici diritti reali.

– il principio del numero chiuso preclude all’autonomia negoziale la creazione di diritti reali totalmente diversi rispetto a quelli ex lege, sicché si nega al privati la possibilità di creare situazioni reali secondo modelli o tipologie oggettivamente nuove.

Poste queste precisazioni di ordine sistematico, ci si interroga sull’origine storica dei medesimi principi stante la loro tralaticia affermazione pur in assenza della loro espressa tipizzazione.

È opinione largamente condivisa che le fondamenta ideologiche cui entrambi si ispirano si collochino, storicamente, nell’epoca della rivoluzione francese.

Più precisamente, si temeva che la creazione di diritti reali atipici potesse ricostituire quelle tecniche, proprie dell’Ancien Regime, idonee a svuotare in radice proprio uno dei principali diritti rivendicati con la rivoluzione: “la proprietà piena ed esclusiva”.

La principale preoccupazione era rappresentata dal timore che l’esercizio dell’autonomia negoziale in materia di diritti reali avrebbe potuto condurre ad un vero e proprio smembramento della proprietà. Ed invero, la stessa sarebbe potuta diventare potenzialmente frammentabile in una pluralità indefinita di distinti diritti, tutti concorrenti sul medesimo bene, che, di fatto, avrebbe potuto riproporre proprio il fenomeno grazie al quale aristocrazia e clero avevano fondato la propria egemonia: il c.d. della c.d. mano morta, consistente nel tramandare interi patrimoni di generazione in generazione, impedendo la loro libera alienazione[8].

È evidente, però, che l’originaria giustificazione storica posta a fondamento dei su richiamati principi non può certo ritenersi ancora attuale.

Occorre, allora, attualizzare la giustificazione dei richiamati divieti, posto che la stessa giurisprudenza di legittimità ne fa ancora menzione, ritenendoli principi indisponibili a presidio dell’ordine pubblico. A tal fine, sono state prospettate diverse soluzioni interpretative[9].

È stato sostenuto che a fondamento dei due principi che di fatto, limitano considerevolmente l’esercizio dell’autonomia negoziale nella configurazione dei diritti reali, si pone la preoccupazione che, ammettendo la proliferazione dei diritti reali atipici, la proprietà rischierebbe di diventare inefficiente sotto il profilo economico e produttivo. Si sostiene l’idea che troppi diritti reali possono aggravare la proprietà[10], impedendo alla stessa di realizzare la sua tipica vocazione produttiva di nuova ricchezza. La proprietà deve essere lasciata, quanto più possibile, libera; considerato che solo se non è gravata da pesi reali è posta nella condizione ottimale di produrre benessere e ricchezza.

Si tratta di una tesi che, in linea di massima, incontra lo sfavore dell’opinione dominante, che evidenzia come a fondamento delle richiamate considerazioni si pone, forse, un’eccessiva sfiducia nei risultati che seguono al libero esercizio dell’autonomia negoziale.

A ben guardare, proprio l’esame del diritto vivente consente di rilevare che l’autonomia negoziale, ogniqualvolta ha tentato una forzatura al limite della tipicità dei diritti reali, creando diritti reali atipici, lo ha fatto proprio per accrescere la vocazione produttiva della proprietà e non già per mortificarla. Solo a titolo esemplificativo può evocarsi l’esperienza della multiproprietà o, ancora, della cessione di cubatura, tutti schemi – poi in qualche modo ratificati dal legislatore – che, certamente, sono diretti ad intensificare e non a frustrare, le possibilità di sfruttamento economico delle prerogative proprietarie.

Un altro indirizzo, a sostegno dell’attuale vigenza dei principi in argomento, ha evocato la loro strumentalità ad impedire situazioni di insicurezza giuridica.

In questo caso si è partiti dal presupposto che, il proliferare di diritti reali atipici sarebbe fonte di insicurezza giuridica, che deriverebbe dalla possibilità di opporre detti diritti reali atipici ai terzi acquirenti ignari della loro esistenza sul bene acquistato, stante l’impossibilità di conoscerne l’esistenza.

Anche detto indirizzo, probabilmente, non è del tutto persuasivo in quanto muove da una idea in parte contraddittoria ossia dall’opinione che l’autonomia negoziale possa creare un diritto reale atipico e che, peraltro, lo stesso possa godere di un regime di opponibilità ai terzi, addirittura superiore a quello di cui godono i diritti reali tipici.

Ed invero, è noto che i diritti reali atipici, come confermato dalle stesse Sezioni Unite in commento, sono opponibili ai terzi solo ed in quanto trascritti. È proprio la trascrizione che consente al titolare degli stessi diritti trascritti di farli valere nei confronti del terzo acquirente; detti diritti sono opponibili proprio perché il terzo poteva conoscerli consultando i registri immobiliari. Allora, è evidente che, quando si ammette la possibilità di creare diritti reali atipici questa possibilità poi non può non implicarne anche la trascrivibilità.

I diritti reali atipici, se consentiti, dovrebbero essere trascrivibili e, dunque, opponibili ai terzi solo se risultanti dai registri immobiliari; sicché, il rischio della insicurezza giuridica, evidentemente, non può ragionevolmente prospettarsi. E ciò perché non è giuridicamente concepibile che un diritto reale possa esistere ed essere opponibile anche se non risulta nei registri immobiliari.

Non è un caso, infatti, che quando il legislatore ha dovuto affrontare la questione relativa all’ammissione di alcuni diritti reali atipici (si pensi all’art. 2645 ter c.c. oppure i diritti edificatori), lo stesso è intervenuto proprio in materia di trascrizione. Ha previsto norme che pur non riconoscendo espressamente l’ammissibilità delle fattispecie atipiche ne hanno ammesso la trascrivibilità, lasciando, a questo punto, la questione della loro validità per presupposta.

Quindi, acclarato che anche il diritto reale atipico, ai fini della opponibilità, deve essere comunque necessariamente trascritto (e solo in quanto trascritto sarà opponibile) occorre, comunque, evidenziare che, tuttavia, la stessa trascrizione del diritto reale atipico può porre inconvenienti di ordine pratico tutt’altro che irrilevanti.

Orbene, proprio l’esistenza di un diritto reale atipico creato dalla autonomia negoziale, non previsto dalla legge e, quindi, non riconducibile ad alcuno schema, espone il soggetto potenzialmente interessato all’acquisto di quel diritto all’incertezza delle conseguenze che quella natura atipica può comportare. Non è agevole cogliere nell’immediato tutte le facoltà ed i poteri che quel diritto reale atipico può determinare in capo al soggetto che ne è titolare. Certo, lo si può comprendere solo a mezzo di un ben più approfondito esame del titolo negoziale che lo ha costituito, ma, normalmente, una simile indagine postula conoscenze tecniche non disponibili al terzo potenzialmente interessato, che dovrà necessariamente affidarsi a tecnici che possano supportarlo in un acquisto pienamente consapevole. È evidente, che simili circostanze non fanno altro che incrementare i normali costi di transazione, ponendosi l’esigenza di sostenere spese che, comunque, si rivelano necessarie per acquisire informazioni chiare sul contenuto dei diritti reali atipici cui si rapportano. Il potenziale acquirente, per comprendere esattamente cosa sta acquistando e a quali conseguenze si sta esponendo, deve affrontare oneri economici ulteriori alle comuni voci di costo della transazione e questo, certamente, potrebbe scoraggiare lo stesso alla conclusione dell’acquisto o, più in generale, potrebbero rendere il medesimo molto più costoso del normale.

Ecco, quindi, che verosimilmente proprio per questa ragione il proliferare di diritti reali atipici può costituire un ostacolo alla circolazione dei beni. Un’apertura dell’autonomia negoziale in materia di diritti reali potrebbe effettivamente porsi in contrasto con l’ordine pubblico economico[11], considerato che è interesse generale dell’ordinamento che non si rallenti ovvero scoraggi la circolazione dei beni.

E, a quanto pare, la creazione di diritti reali atipici può, invero, finire per ostacolare il dinamismo naturale del traffico giuridico.

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Note

[1] Cassazione, Sezione seconda, ordinanza di rimessione n. 31420 del 2 dicembre 2019.

[2] Ordinanza di rimessione cit.

[3] Art. 1021 c.c. “Uso” – Chi ha il dirito d’uso di una cosa può servirsi di essa e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia. I bisogni si devono valutare secondo la condizione sociale del titolare del diritto.

[4] Art. 1024 c.c. “Divieto di cessione” – I diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione.

[5] Art. 1026 c.c. “Applicabilità delle norme sull’usufrutto” – Le disposizioni relative all’usufrutto si applicano, in quanto compatibili, all’uso e all’abitazione.

[6] Cassazione civile, sent. n. 24301 del 16 ottobre 2017.

[7] Cass. civ., sent. n. 24958 del 10 ottobre 2018; Cass. civ., sent. n. 15021 del 31 maggio 2019; Cass. civ., sent. n. 18024 del 4 luglio 2019; Cass. civ. Sent. n. 22059 del 3 settembre 2019).

[8] M. Comporti, Atti del Convegno «La civilistica italiana dagli anni cinquanta ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative», Marsilio, Venezia, 1990, secondo cui «Le istanze espresse dalla realtà socio-economica del momento venivano pertanto a tradursi, nell’ordinamento nascente dal Code Napoléon, nella decretata superiorità del sistema chiuso della proprietà e degli altri principali diritti reali sul sistema delle obbligazioni».

[9] Per la ricostruzione delle teorie in confronto sull’attuale tenuta dei principi di tipicità e numero chiuso in materia di diritti reali si rinvia ai contributi del Consigliere R. Giovagnoli, in Manuale di Diritto civile, itaedizioni, 2019, pagg. 349-350.

[10] G. Alpa – M. Bessone – M. Fusaro, Tipicità e numero chiuso dei diritti reali. Posizioni della dottrina, orientamenti giurisprudenziali, in www.altalex.com.

[11] R. Giovagnoli, Manuale di Diritto civile, cit.

Sentenza collegata

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Laura Cristarella

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