Il diritto di fronte alla morte

Franco Guidoni 20/01/18
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Il principio di autodeterminazione accolto nell’art. 32, II co., Cost.: la libertà/diritto di morire con dignità

Se dai contenuti normativi del diritto alla salute garantiti dall’art. 32, I co., Cost. passiamo a quelli accolti nell’art. 32, II co., Cost., ciò che innanzitutto parrebbe opportuno rilevare è una lettura circa la non necessarietà di una legge che dia piena attuazione e compiuta operatività al principio di autodeterminazione sul proprio corpo quivi accolto e con esso il diritto di rifiutare trattamenti medico-sanitari da parte del soggetto, tranne che questi ultimi non siano previsti specificamente da leggi a protezione di individuati interessi collettivi.

Solo in questa limitata accezione, dunque, parliamo di un ‘diritto di morire’23 che apparirebbe quasi una contradictio in terminis (se non perfino una eccentricità) se non si specificasse subito che si tratta di una mera libertà/diritto di autodeterminazione sul proprio corpo e la propria vita, comprensiva dello stesso rifiuto delle cure anche se dallo stesso dovesse seguirne la morte della persona.

Dunque, nessun dubbio pare doversi esprimere circa la pienezza del diritto del soggetto (ammalato) di rifiutare trattamenti sanitari – qualunque trattamento, ivi compresi quelli definiti di ‘sostegno vitale’ – salvo che gli stessi non siano previsti in attuazione di specifiche terapie necessarie sanitariamente al fine di perseguire finalità di interesse collettivo.

La citazione d’obbligo è quella delle vaccinazioni obbligatori.

Accanto alla chiara, già richiamata, disposizione costituzionale (art. 32, II co.),  un’analoga previsione di comportamento viene prevista dall’art. 32 del Codice di deontologia medica (“In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona …”), nonché dal diritto dell’Unione Europea e da quello internazionale (accordi/convenzioni internazionali in materia).27 In tale direzione muove, ad es., l’art. 3.2.a della Carta di Nizza/Strasburgo, la cui forza giuridica ora è quella stessa dei ‘nuovi’ trattati dell’Unione (la quale inquadra il “rispetto del consenso libero e informato della persona interessata” nel Titolo I, rubricato appunto ‘Dignità’28) nonché l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Oviedo, 1997).

Agli stessi principi di autodeterminazione della persona e del consenso informato si ispira la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sent. 2174829, del 2008, sul caso Englaro) e del Tribunale di Roma (sent. 23 luglio 2007, sul caso Welby), per la quale  “deve escludersi che il diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita” e lo stesso parere più recente del Comitato Nazionale di Bioetica (2008), in cui è dato leggere, non senza qualche sorpresa (a ricordarne gli orientamenti precedenti), che l’ordinamento giuridico esclude “l’imposizione forzata di un trattamento autonomamente e coscientemente rifiutato, pur se necessario al mantenimento in vita della persona”.

Se dunque il principio di autodeterminazione è così chiaramente e nettamente affermato – e con esso certo e sicuro il corrispondente diritto della persona informata a rifiutare le cure mediche –, allo stesso criterio interpretativo occorre rifarsi quando il soggetto non sia più in grado di esprimere validamente e di manifestare una volontà che al momento della pienezza dello stato di salute la persona aveva chiaramente manifestato in una qualche modalità legislativamente regolata e comunque di fede certa.

Altra questione particolarmente meritevole di approfondimento riguarda la nutrizione e la idratazione artificiale. Di tali trattamenti ci si interroga circa la natura di trattamento sanitario, se cioè trattasi di cura sempre e comunque doverosa, e se il paziente possa rifiutarli. Un parere del 2005 del Comitato Nazionale Bioetica li considerava “atti dovuti eticamente”. In altri pareri, lo steso Comitato ne ricostruiva la natura piena di atto medico-sanitario e come tale solo da quest’ultimo somministrabile. L’art. 53 del Codice di deontologia medica segue quest’ultimo indirizzo, ribadendo che “il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della persona malata”. Un orientamento – quest’ultimo – pienamente accolto dalla giurisprudenza del Giudice della nomofilachia. Diversamente deve dirsi – trattandosi di fattispecie diversa – della interruzione della ventilazione meccanica (caso Welby).

Facendo ora un passo indietro, rileva sottolineare come, se del tutto certo risulta il principio costituzionale di autodeterminazione sul proprio corpo e sulla propria vita, ad una analisi più approfondita emerge come le fattispecie fattuali possano essere diverse, facendo emergere l’interrogativo circa la riferibilità della decisione di rifiuto del trattamento sanitario a persona capace di intendere e di volere o meno. Intervenendo sulla lettura dell’art. 32, II co., Cost., in modo argomentato e convincente, Giuseppe Ugo Rescigno ne propone una riformulazione nel modo che segue:

“Chiunque, se capace di intendere e di volere, ha diritto di non essersottoposto a un determinato trattamento sanitario, salvo i casi previsti dalla legge, ed ha il diritto di interrompere il trattamento sanitario se è in grado di farlo da solo”.

Come si vede, in tale lettura, l’art. 32, II co., Cost. non risulterebbe sufficiente a fondare un diritto soggettivo autoapplicativo, e pertanto immediatamente giustiziabile. Si direbbe allora che la relativa disposizione costituzionale fonda essa stessa un diritto che è, al contempo, una libertà negativa e un diritto sociale e in quanto tale pretensivo verso comportamenti (attivi od omissivi) dei pubblici poteri (se non anche di terzi).

Un simile diritto è certamente precluso all’incapace. D’altra parte, come si può cogliere nel caso Welby, la persona (capace di intendere e di volere) che rifiuta il trattamento sanitario potrebbe non essere in grado di compiere l’azione (fisica) necessaria ad interrompere il trattamento (non desiderato) e occorre in questa ipotesi che un altro la possa fare al suo posto, se è “obbligato a compiere quell’azione se (e solo se) c’è una norma valida e vigente che lo obbliga (o fonda l’ordine di un altro che lo obbliga)”33. A seguire una simile analisi, dunque, serve una norma valida che integri l’art. 32, II co., Cost. per conseguire che non inizi il trattamento o che venga interrotto se lo stesso è già iniziato.

Una conferma si coglie comunque anche nel richiamato ragionamento giuridico, nel senso che l’autorevole studioso non prevede la necessarietà di norme integrative dell’art. 32, II co., Cost., qualora la persona sia capace di intendere e di volere e se “l’intervento di un terzo, in sostituzione del paziente impossibilitato, è un intervento volontario”34, come nel caso Welby.

Convincente risulta quello stesso aggravamento che lo studioso propone quando prevede la necessarietà di un previo accertamento circa la capacità di intendere e di volere della persona nella ipotesi in cui l’interruzione del trattamento generi morte o sofferenza; tale accertamento nella ipotesi richiamata dovrebbe essere operato da persona diversa da chi pratica l’interruzione del trattamento ed in ogni caso quest’ultimo non può essere quidam de popolo, richiedendosi competenze appropriate di tipo sanitario.

Assolutamente diverso è il caso della persona non più in grado di decidere e quindi di rifiutare il trattamento sanitario: in questa ipotesi, il medico non può omettere ovvero interrompere il trattamento sanitario verso il paziente incapace di intendere e di volere. Allo stesso legislatore resterebbe preclusa la disciplina che non fosse quella già prevista/imposta dall’art. 32, I co., Cost., e comunque nel rispetto di quanto richiesto dalla pratica terapeutica e dal codice di deontologia medica.

La conclusione che può trarsene è quella che in una materia tanto sensibile sia evitata dal legislatore e nella prassi ogni possibile forzatura della Carta costituzionale per ragioni di tipo ideologico e/o pratico. Se le disposizioni del I e del II comma dell’art. 32 Cost. risultano, per come si è osservato, tanto chiare nei relativi contenuti normativi e nella prospettazione delle relative garanzie, incentrate come sono sul principio di personalità e di libertà, non può farsi altro che riconoscere alla sola persona malata il diritto di decidere sulla propria vita, potendo il paziente ed egli soltanto scegliere fra un esito di morte naturale ovvero, al contrario, accettare trattamenti sanitari che gli assicurano il prolungamento della vita anche se non sempre tale prolungamento si accompagna con il rispetto della dignità del paziente, naturalmente secondo l’interpretazione della stessa che quest’ultimo ne dà.

L’apprezzamento del concetto di vita libera e dignitosa, infatti, è di tipo soggettivo e pertanto è al solo soggetto capace di intendere e di volere, libero e informato, che occorre rimettere le relative determinazioni di rifiuto eventuale dei trattamenti sanitari e di fine vita.

La novità del testamento biologico. La nuova legge sul fine vita

  1. Il testamento biologico. Il consenso informato quale elemento essenziale del contratto con il medico e presupposto di legittimità del suo intervento.

Nell’ambito del fine vita l’autonomia negoziale si esplica nel testamento biologico, definito come quel «documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato».

L’attuazione del testamento biologico rimanda all’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente, la quale deve improntare tutte le fasi del trattamento sanitario. Se il malato pienamente capace è in grado di instaurare un dialogo consapevole con il medico riguardo ai trattamenti cui intende o meno sottoporsi, nel momento in cui avvenga la perdita di coscienza il consenso informato del paziente è recuperato attraverso la rilevanza giuridica di quanto anticipatamente consacrato nelle direttive6.

Il principio del consenso informato, quale manifestazione dell’adesione consapevole del paziente al trattamento sanitario, è stato assunto dalla Corte costituzionale quale criterio ispiratore dell’attività medica. Esso sintetizza due diritti fondamentali: il diritto all’autodeterminazione (art. 13 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.)7. La persona ha il diritto – non il dovere – di curarsi, in quanto l’esigenza di salute non può determinare una lesione della libertà di autodeterminarsi in ordine alle scelte esistenziali relative al proprio benessere. Il paziente non è più destinatario inerte della cura medica, ma ne è attivo protagonista, poiché il trattamento è sempre frutto di un percorso concordato con il medico, sul quale incombe il dovere di colmare l’asimmetria informativa.

In tale prospettiva, il consenso informato non è soltanto elemento essenziale del contratto concluso con il medico, ma è anche presupposto di legittimità del suo intervento. Il medico che non abbia acquisito il consenso del paziente, dopo averlo adeguatamente informato, incorre in responsabilità contrattuale per il danno alla salute patito, anche se l’intervento sia stato correttamente eseguito secundum legis artis.

Così la Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438.

La Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145  prevede, all’art. 5, che «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato».

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000, sancisce, all’art. 3, che «nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata».

Quanto alla legislazione nazionale, la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale prevede che «gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari» (art. 33, l. 23 dicembre 1978, n. 833). Specifiche applicazioni sono previste in tema di procreazione medicalmente assistita (art. 6, l. 19 febbraio 2004, n. 40) e di attività trasfusionali (art. 3, l. 21 ottobre 2005, n. 219).

Il principio del consenso informato è altresì consacrato nell’art. 35 del codice di deontologia medica.

  1. Dal consenso informato alla legittimità del testamento biologico.

Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente.

Con il testamento biologico la scelta di fine vita viene intimamente collegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe (living will, direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento “ad un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato”.

Da questa definizione si può ricavare da subito che è errato ritenere che le

dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le

dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti e vanno trattati separatamente.

Le dichiarazioni anticipate  (DAT) servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte.

In questo senso esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno alcuna possibile implicazione eutanasica.

Va chiarito che le dichiarazioni anticipate possono contenere anche indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico .

Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico.

Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale ad esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 cost., che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto.

A prescindere dalle problematiche sull’eutanasia le dichiarazioni anticipate sono certamente un efficace strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche tanto più che, grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti dell’Uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.

Vale la pena di ricordare l’intervento del Comitato nazionale per la Bioetica (18 dicembre 2003) con il quale si è affermato che le “dichiarazioni anticipate di trattamento” si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente.

Le dichiarazioni possono essere intese sia come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia come spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.

Nell’ambito delle tesi che favoriscono la introduzione negli ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il “testamento biologico” è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi e personali.

In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro quello di perdere il controllo su di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un “diritto di morire” equivale a riconoscere a individui autonomi, in possesso delle proprie facoltà, la libertà di decidere che la loro qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere (Massimo Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino 2002, 109).

Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca per suo conto in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità di autodeterminazione. Sotto taluni aspetti l’istituto del fiduciario per così dire “della salute” è un meccanismo che mette il paziente in grado di indicare al medico chi dovrebbe essere il proprio delegato o sostituto. Si ritiene che l’efficacia giuridica di tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita. L’autorità del procuratore può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari. Accomunate in un’unica categoria, il “testamento di vita” e la “procura per la salute” rientrano nella categoria delle “direttive anticipate”. Nel Regno Unito l’opinione dei giuristi è leggermente diversa da quella prevalente negli Stati Uniti. La Law Commission of England interpreta le “direttive anticipate” come decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita che essa definisce come “la direttiva anticipata concernente il rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio terminale della malattia”. Ma tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito la legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia individuale, e sebbene il documento possa talvolta indicare la scelta di ricevere o meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune, sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del timore di un accanimento terapeutico.

In proposito vale citare una magistrale espressione del Cardinale Dionigi Tettamanzi (riportata da Eugenio Lecaldano nel volume “Bioetica – Le scelte morali”, Laterza 1999, 67) che facendo appello al “morire con dignità umana e cristiana” sottolinea che “l’uomo è “uomo” anche di fronte alla morte e nella morte stessa: questa da “evento inevitabile” è chiamata a divenire per l’uomo un “fatto personale”, un fatto da assumere e da vivere (vivere la morte!) da uomo, ossia coscientemente e liberamente, dunque responsabilmente. In questo senso, morire con “dignità umana” significa affrontare la morte con serenità e coraggio” (Tettamanzi, 1990, p. 461).

RILIEVI  CRITICI ALLA NUOVA LEGGE

In data   14.12.17   il Parlamento italiano licenziava definitivamente  la legge contenente norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.

Se il fine di questa legge era quello di consentire a ciascuna persona di prevenire con una propria manifestazione chiara, precisa, anticipata e consapevole qualunque trattamento medico che potesse in futuro, allorquando le condizioni di vita dovessero diventare, per ragioni di malattia, non più sostenibili in ragione delle sofferenze troppo grandi ed in presenza di prospettive di vita non più sussistenti per diagnosi incontrovertibili, il  procrastinare in accanimento terapeutico delle   sofferenze stesse –   allora la norma  –  che dovrebbe  guidarci nel verificare la corrispondenza dell’azione o omissione di comportamento al fine medesimo, credo debba individuarsi  nell’art. 2  della legge medesima.

“ 1. Il medico, avvalendosi dei mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze…

  1. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.

In relazione a questo fine – centrale diventa ad essere il “consenso- informato” del soggetto come ampiamente descritto nei suoi effetti all’art. 1 della legge.

A questo punto è bene però esaminare due aspetti particolarmente rilevanti:

1 – fino a dove può spingersi la volontà del soggetto nell’esprimere il consenso;

2 – fino a che punto il medico è vincolato alla volontà del soggetto che esprime il consenso.

L’auspicio, lo scopo della legge è quello di prevenire irragionevoli sofferenze ad oltranza del malato, senza alcuna speranza.

Sofferenza che però non è solo fisico – psichica, ma anche tale da esprimersi in un giudizio di valore sulla vita e sul senso per sé della vita stessa.

Attenzione, qui non si parla del senso della vita in generale, ma pur tuttavia il senso generale della vita viene in gioco, per così dire, nel momento in cui questo senso va a coincidere con quello che ciascuno di noi ha della propria vita.

Il comma 2. della norma anzidetta pone una precisa regola di condotta del medico, che comunque già faceva parte del suo bagaglio deontologico e della morale condivisa, con piena approvazione anche da parte della religione cattolica.

Al riguardo – il medico già poteva disporre di una guida normativa, che trovava riscontro nella legge 15 marzo 2010 n. 38  che dettava regole al fine di lenire la sofferenza, attraverso il  ricorso alla terapia del dolore e alle sedazione palliativa profonda, anche in associazione fra loro, ciò anche a prescindere dal consenso del soggetto.

La novità che si coglie nella nuova legge è quella di comunque andare oltre  – sino al punto di condizionare l’atto o il trattamento medico al consenso- informato del soggetto interessato, quale unico criterio di legittimità della condotta sanitaria.

Il condizionamento è chiaramente evidenziato nel comma 6.  dell’articolo 1. rubricato sotto il titolo “Consenso informato”, laddove si precisa che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale.

Talmente vincolante è la volontà del paziente che – anche qualora il comportamento del sanitario, come è in questi casi – determini o acceleri il decorso vitale infausto, quindi il decesso –  lo stesso comportamento sarà esente da alcuna responsabilità.

E’ evidente dunque che  con la nuova legge andiamo ben oltre le cure palliative e la terapia del dolore già previste e regolamentate.

Già vi era una legge che autorizzava il medico all’utilizzo di pratiche palliative e di terapia del dolore, qui c’è qualcosa in più e qualcosa di particolarmente grave.

Qui essenzialmente viene in luce un concetto più ampio e grave di sofferenza.

Ebbene sì – qui è in gioco una volontà del paziente che si spinge fino a chiedere al medico di porre fine o di accelerare la fine della propria vita.

Chiaro e risolutivo al riguardo è il comma 5. dell’art. 1. ove si afferma che “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare …qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”.

“ Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale ….”.

Ciò equivale a dire: io dò il consenso a te medico, una volta informato sulla gravità e irreversibilità della mia patologia, di porre fine alla mia vita.

Certo, tu medico – in quanto depositario della scienza medica – mi dovrai dire correttamente se la diagnosi è tale da determinare una prognosi sicuramente infausta, senza speranza, irreversibile allo stato delle conoscenze attuali, tale da determinare anche possibili, probabili, sicure sofferenze ed inoltre di una certa gravità.

Allora, io paziente – in presenza di queste condizioni –  conferisco a te medico  licenza di uccidermi.

Ma torniamo un attimo indietro.

Nell’animo umano era ed è costantemente presente la volontà, oltre al desiderio – di vivere con la dignità che è o dovrebbe essere propria di chi vive.

Quindi la capacità di autodeterminarsi, di poter esprimere la propria volontà e le proprie scelte, ivi compresa quella di decidere se prolungare o porre fine alla propria esistenza, laddove la sofferenza non fosse più sopportabile, e ciò  indipendentemente dalle più svariate concezioni sulla vita e sul senso di apprezzabilità della stessa.

Ma allora la volontà del malato che la legge valorizza non è  più quella di vedersi alleviate o se possibile eliminate  le proprie sofferenze sino a quella che sarà la fine naturale, come una certa lettura può far intendere, particolarmente nel rimando all’art. 2 c. 1 e 2 – ma quella propriamente di decidere e di consentire  al medico di porre fine alla propria vita in base alla propria esclusiva volontà, pur  in presenza di quelle preliminari condizioni.

Si chiami eutanasia attiva o passiva, questa è in realtà ad essere legittimata.

Ma come sempre la legge è frutto di una nuova coscienza sociale che, nel venir meno progressivo del senso religioso o più propriamente del significato che la dottrina della Chiesa cristiana cattolica ha dato alla vita in quanto dono e bene che primariamente viene da Dio e di Dio è la espressione massima dell’amore per l’uomo –  ha maggiormente valorizzato il significato personale o meglio personalizzato della vita, che nel vissuto è anche sofferenza e dolore, sino al punto da ritenere apprezzabile la vita e degna sino a quando il vissuto non è tale da comprimere le stesse capacità dell’uomo attraverso le quali egli stesso è in grado  di autodeterminarsi e quindi di essere propriamente vita umana.

Non mi sento e non devo esprimere a questo punto giudizio alcuno –  ma certamente si deve avere il coraggio di non celarsi dietro le parole e di cercare in qualche misura di accontentare tutti – Chiesa, politica e coscienza sociale – per dare una giustificazione  accettabile, “politically correct “  della nuova legge.

Essa accoglie un nuovo e più condiviso senso e apprezzamento della vita, che da una dimensione prima sacrale e poi pubblicistica, statuale, della vita – ha assunto e sempre più è destinata ad assumere nel progressivo crollo dei valori tradizionalmente intesi un significato e apprezzamento personalistico, che se –  in certa lettura ha il demerito di togliere alla sofferenza la valenza redentrice – ha però il merito di porre al centro della riflessione la sofferenza stessa dell’uomo nella sua verità più intima, più autentica, più  fragile quindi  più vera.

Cio’  che  rimane.   Riflessioni conclusive

Ricordo che un grande filosofo, Norberto Bobbio, un giorno disse che, “…sì è vero, ho letto una montagna di libri, ma alla fine ciò che rimane sono gli affetti, la famiglia, le cose semplici della vita, il bene fatto, quello ricevuto, il ricordo lasciato…”.

E’ proprio vero, la vita è semplice di per sè, in quanto in fondo si basa su esigenze elementari di sopravvivenza, sia fisica che spirituale, entrambe esigenze fondamentali.

Comunque si consideri il corpo e la mente, sia che si veda il corpo come il tempio dello spirito, o che lo spirito si riduca alla mente, ovvero si consideri che ciò che connota l’uomo è un insieme inscindibile di corpo e mente o spirito, a tal punto che solo con quel determinato corpo lo spirito ovvero la identità personale-spirituale di una persona possa realizzarsi, la vita richiede nutrimento fisico e spirituale, tale quest’ultimo da rendere la vita appagante e  per ciò stesso, degna di essere vissuta.

Tutto questo richiede poche cose:

Il cibo e i liquidi che necessitano al corpo per vivere e la possibilità per l’essere umano di esprimersi liberamente in tutte le facoltà che possiede, realizzandosi poco alla volta attraverso lo sviluppo e il tempo come persona, cioè quale soggetto cosciente e autocosciente di sè.

Era importante quel lungo excursus storico-filosofico che nelle pagine che precedono è stato fatto, perché la lunga ricerca dell’uomo, anche se deviata nelle diverse specificità della scienza, della tecnica, dell’arte, alla fine si traduce in un sentimento profondo della vita.

E’ come se alla fine di un lungo viaggio, ci si metta da parte, seduti, a riflettere sul senso della vita.

E allora, è come se la vita stessa  fosse contenuta in un calice, fosse appunto il vino che vi è dentro di noi e che noi, ad un certo punto o momento, provassimo a gustarlo, approfondendone il gusto, il  sapore.

Allora ci chiediamo che vita abbiamo fatto o facciamo, se questa è davvero vita, se ha senso che facciamo questo o quest’altro, ed infine la domanda esiziale è:  quale è la vera vita, quale la felicità, se davvero esiste.

Troveremmo quindi un inscindibile legame fra il concetto di vita e quello di gioia di vivere, tale da  coniugare le diverse espressioni del vivere con le gradazioni sfumate dell’ appagamento gioioso.

Anche la morte determinerà una graduazione di valori; sarà infatti la morte a dare un senso alla vita, perché intanto essa sarà accettabile, in quanto accettabile sarà  stata  la vita vissuta.

L’uomo si è disperato attraverso i secoli nel ricercare un senso alla vita e alla morte che provenga al di fuori della vita stessa, al di fuori di sè stesso, una ricerca consolatoria che inevitabilmente confluisce in un Dio esterno e immanente.

Ciò deriva dalla capacità che l’uomo ha di chiedersi il perché delle cose sentendosi in mezzo alla cose e agli esseri del mondo, in un mondo di cui egli percepisce l’esistenza e la presenza,  quali necessariamente  dotate di un senso che trascende il puro fatto di esistere.

Così per l’uomo la morte non è un puro fatto o dato materiale.

Come possiamo allora  noi, esseri finiti,   discutere di una vita oltre alla morte, se in quanto esseri finiti, solo nozioni finite possiamo avere?

Perché dunque argomentiamo intorno a nozioni di vita eterna?

Ecco il bisogno di dare un senso alla vita, perché solo così possiamo accettarla e viverla.

Ecco allora che  il senso della vita sarà direttamente proporzionale a ciò che noi riterremo essere vita da vivere, e quest’ultima a sua volta sarà intimamente connessa alle potenzialità che la vita, in senso fisico e spirituale e/intellettuale potrà offrire.

Diventa quindi  fondamentale capire l’importanza della Libertà.

La libertà è quella condizione che ci consente di sperimentare la vita nella sua interezza e profondità ( non parlo qui di una libertà ancorata o disgiunta dal concetto di valore, in senso etico o religioso);

la facoltà quindi di  sondare e sperimentare le enormi potenzialità che la vita offre e di giungere alla conclusione su ciò che nella vita è degno di essere vissuto.

Questo concetto di libertà, in ciascuno di noi sarà inevitabilmente influenzato dalle  idee e convinzioni etico-religiose, ma ciò che realmente conta è che sarà la persona, quella persona, a prendere la decisione.

Il significato sul valore e qualità della vita, e  la decisone sulle scelte che la vita porrà innanzi, non potranno quindi che essere assolutamente personali.

Solo così l’uomo – persona potrà essere un essere libero, come libera nelle sue possibilità/ potenzialità è la vita, che solo attende il singolo uomo decidere.

L’altro concetto fondamentale  è la dignità del vivere, su cui la attuale ricerca  molto  si è spesa.

Il sentimento della dignità del vivere è tutt’uno con quella della coscienza di sé, cioè si immedesima propriamente nella “autocoscienza” che fa di un soggetto, una persona.

Il mio pensiero  è che la dignità del vivere può esistere solo laddove vi è l’ amore, nella vita e per la vita.

Allora la vita, nella gioia e nella sofferenza, sarà degna di essere vissuta.

Ma perché l’amore?

Perché amare significa andare oltre il limite, seguire il sentimento che ci vuole eterni, riluttanti ad una vita che per necessità deve finire;

significa la volontà di lasciare un segno che non si cancella, abbracciare con il pensiero e il cuore oltre la persona, un firmamento di stelle.

Quindi non si può amare senza la libertà, quella vera, che è credere in se stessi, nelle proprie risorse inimmaginabili, coscienti della grandezza e magnificenza della vita, che potrà uscire dal nulla – ma una volta uscitane non potrà più in quel nulla ritornare.

Ecco allora la domanda, per giungere al tema vero del presente lavoro: questa libertà e questo amore possono spingersi fino alla decisione di porre fine alla propria vita, quando in un dato momento la sofferenza e il disfacimento del corpo e della mente è tale da far dubitare ragionevolmente “ se questo è un uomo”?

Quando allora la vita non è più degna di essere vissuta?

Potrà mai esserci un tale momento?

Chi dovrà e potrà decidere?

La vita richiede totalità di essere, richiede tutto se stessi, perché nell’interezza delle nostre potenzialità fisiche e psichiche, morali, spirituali, possiamo avere il senso preciso della grandezza e della bellezza della vita.

La vita è quindi degna d’essere vissuta se veramente è questa totalità, se veramente in questa totalità possiamo essere e  donare, a ciò che  esiste,  la totalità del nostro essere.

Perché la vita chiama la vita, perché la vita nostra e quella dell’universo sono della medesima sostanza e unico principio, perché coessenziale alla evoluzione è  uno scambio incessante di vita e di morte, dove la vita si dona, attraverso la morte, come noi – attraverso il nostro organismo decomposto – deponiamo nelle mani, nel cuore e nelle menti dei nostri figli, ciò che siamo stati e ciò che avremmo voluto essere.

Questa è la legge e il senso più veri della vita e della morte, inscindibilmente legate perché la vita continui  sul palcoscenico dell’universo, come un film nel quale gli attori mutano apparentemente ma tutti formano un’unica Storia, che può realizzarsi solo nella libertà e nell’amore.

Questo moto incessante di onde che giungono a riva e ritornano al mare, icona gradita alla filosofia di stampo orientale –  avrà il suo centro nella persona, quale soggetto capace di autodeterminarsi in modo cosciente e volontario,  consapevole di essere vita nella vita, anche oltre il limite.

E allora, se la vita vera e piena è libertà e amore, solo quando questa vita non sarà più libera, perché la malattia o il dolore sarà così forte da impedire  la propria capacità di pensiero e volizione, la propria possibilità di dare il proprio essere alla consapevolezza di se stesso e degli altri – quando quel dolore sarà così forte da impedire di cogliere la bellezza di un mattino o di un sorriso, la bellezza di una carezza sul viso rugato dalla sofferenza, allora, solo allora – la propria vita potrà non essere più sentita degna di essere vissuta.

Certo, la decisione dovrà essere presa nella pienezza delle facoltà, quindi dovrà essere libera.

Sarà poi compito del diritto creare le condizioni e le salvaguardie affinché tale diritto del tutto personale possa essere espresso e conosciuto nella sua genuinità.

A se tu non potessi esprimere e dovessi farlo io per te?

Nel decidere per te, penserò a quanto ti amo e a quanto tu hai amato il mondo,  la vita,

penserò alla sofferenza che ti impedisce di sentire la mia mano, la mia carezza, il mio pianto.

Ecco cosa farei.

Certo non dico nulla di nuovo, nulla di decisivo; il mio è solo un tentativo di dare un senso, una base razionale, filosofica forse, al vivere e al morire.

La dignità dell’uomo al centro di tutto, quella che  rende a ciascuno la propria specificità e individualità  inalienabile.

La libertà e l’amore, condizioni imprescindibili per vivere nella pienezza l’esistenza, la dignità più autentica, la realizzazione completa  dell’ essere “qui ed ora”.

Libertà, anche oltre il limite della nostra finitudine.

Andare oltre il limite significa superare l’ atavico egoismo, donando agli altri  la propria umanità, consapevoli che solo in questo interscambio potrà realizzarsi la piena vitalità di una società che voglia sopravvivere.

Di questa libertà e amore, dovrà farsi carico il diritto, l’ordinamento che giuridicamente regolerà i rapporti secondo il volere libero di un popolo che sceglierà i valori cui informarsi, i diritti da rispettare, i doveri da esigere.

Per questo ho voluto dedicare un capitolo alla “purezza “ del diritto, seguendo l’insegnamento kelseniano, che separa nettamente il diritto dalla morale, dall’etica  e dalla religione.

Libertà e amore, la vita quale “poiesis”, creazione ogni giorno dal non senso al senso del tutto, alla gioia di vivere  per la vita stessa.

La nostra vita, drammaticamente sospesa tra  l’ardimento creativo e la tragica sfiducia, attraverso la libertà e l’amore si rivela unica e irripetibile, a tal punto degna da giustificare la morte.

Lo so, sono parole che il vento porta lontane dalle case dove il dolore si fa carne e sofferenza, e la vita chiede alla morte la parola fine benefica.

La sofferenza è solo personale e merita solamente rispetto.

Non vi è ideologia, non vi è etica, non comandamento, che possa violarne il silenzio.

La sofferenza domanda libertà e amore.

La libertà di scegliere nella consapevolezza e volontà, l’amore per comprendere quanto  la vita è meravigliosamente degna di essere vissuta e quanto profondo è il dolore di non viverla.

Questo è ciò che rimane.

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Ciao   Papà

Ci sorridevamo, ci abbracciavamo,

poi ci salutavamo anche in lontananza

e le nostre mani alzate ricongiungevano le linee irregolari

delle  crepe vive lungo i muri delle case.

 

Il tempo cresceva a misura dello spazio che colmavamo.

Lasciando lo sguardo, sopraggiungeva la scure fredda

che distrugge l’immortalità  silente

dentro il corpo vulnerabile.

 

Ora  prendo la tua mano forte e nodosa,

la stringo, attendo il tuo morso.

Cerco una felicità  residua negli occhi semichiusi,

l’acqua  che  lenisca l’arsura.

 

Il capolinea non ha segnali,  qui nessuno ti aspetta.

Sei solo, in mezzo al deserto.

E non l’hai voluto tu.

 

Appoggiati a me.

Nessuno può farti del male,

perché le mie spalle hanno il favore del vento

le mie braccia la forza del sole .

 

Vedrai,

dimenticheremo i colori fasulli del giorno,

saremo la  volontà che ci fa liberi,

la vita  oltre il pianto.

 

Sei il più grande uomo che abbia mai conosciuto.

La cosa più bella è questo Orgoglio

di sentirmi tuo figlio.

 

Ciao Papà.

 

 

 

 

 

 

 

INDICE:

 

CAP 1.   La Dignità dell’Uomo: percorso storico, filosofico e giuridico;

CAP 2.   L’  ”Autocoscienza”. Excursus storico-filosofico;

CAP 3.   Diritto e morale;

CAP. 4.  La Filosofia e il tema della Morte;

CAP.5.   Il Diritto difronte alla Morte.

CAP. 6   La novità del testamento biologico. La nuova legge sul fine vita.

CAP. 7   Rilievi critici alla nuova legge.

CAP. 8  Ciò che rimane. Riflessioni conclusive.

 

 

L’autore

 

FRANCO  GUIDONI

Avvocato, Giudice di Pace presso l’Ufficio di Verona e Legnago,

autore di numerose pubblicazioni di poesie, nonché di saggi sulle problematiche della malattia di Alzheimer, sia con riguardo alla vita vissuta, che nella ricerca dell’ amore quale autentica e sicura medicina per affrontare e seguire i pazienti afflitti da questa patologia.

Autore anche di un saggio filosofico che contiene riflessioni intorno al concetto di “Essere” .

Conseguì la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Parma con il massimo dei voti ed una tesi in Filosofia del Diritto dal titolo: “Persona e Comunità”, nonché  la specializzazione quale “ Consulente legale di Parità”.

Per un certo periodo tenne una rubrica che trattava diverse problematiche giuridiche su quotidiani locali, in particolare in tema di responsabilità sanitaria e tutela del consumatore.

Quale avvocato è dal 1983 consulente legale del Centro per i diritti del malato e della salute.

Già consulente legale della Unione Nazionale Consumatori.

Dal 2003 svolge funzioni di giudice di pace.

Per diversi anni e attualmente è componente della Commissione per la Formazione Distrettuale della Magistratura Onoraria.

Diverse furono a livello nazionale le premiazioni concernenti  gli scritti poetici.

Sottotenente della Croce Rossa Italiana, ricevette la croce commemorativa per la partecipazione al terremoto de L’Aquila e la Benemerenza della Protezione Civile;

Fu nominato socio benemerito della Associazione Alzheimer Italia.

 

Nel 2016 gli fu consegnato il Sigillo dell’Amicizia dal Comune di Calvi (Bn), quale riconoscimento per l’attività poetica e per l’umanità dimostrata nello svolgimento del proprio lavoro.

 

 

 

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Franco Guidoni

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