Diffamazione a mezzo stampa: il diritto di cronaca è escluso se si attribuisce falsamente la qualifica di imputato a chi è solo indagato, o di un reato consumato, anziché soltanto tentato? Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
Indice
- 1. Il fatto
- 2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: ricorre la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca?
- 3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
- 4. Conclusioni: diffamazione a mezzo stampa: niente esimente se si attribuisce falsamente la qualifica di imputato anziché di indagato
1. Il fatto
Veniva citato in giudizio un giornalista redattore di un articolo, pubblicato sull’edizione online di un settimanale, in qualità di direttore responsabile del settimanale, e l’editore del settimanale, sostenendosi come l’anzidetto articolo avesse leso il diritto all’onore, alla reputazione e all’immagine della parte attorea.
Orbene, se l’adito Tribunale di Roma respinse la domanda risarcitoria, reputando che l’articolo non fosse diffamatorio, poiché gli errori in esso contenuti non avevano scalfito l’aderenza al vero della ricostruzione complessiva dei fatti, sussistendo la sostanziale corrispondenza dello scritto alla realtà, invece, l’’impugnazione proposta dalla parte attorea nel primo grado di giudizio, avverso detta decisione, veniva accolta dalla Corte territoriale capitolina, conseguendone la condanna solidale dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale in favore dell’attore.
A fronte di tale provvedimento, in convenuti proponevano ricorso per Cassazione deducendo, tra i motivi ivi addotti, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21 Cost., 2043 c.c., 51 e 595 c.p. e 11 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, “con riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa”, sostenendosi come fosse stata negata l’esimente del diritto di cronaca.
In particolare, secondo i ricorrenti, l’attore non era mai stato indicato come “imputato”, o come “rinviato a giudizio”, anziché di “indagato”, come era all’epoca dei fatti, mentre era “evidenziato il rischio (probabile)” di un rinvio a giudizio e ciò proprio in ragione dell’emissione, prima della pubblicazione dello scritto giornalistico, dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, quale elemento sintomatico della probabile intenzione del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, facendosene conseguire da ciò come i giudici di seconde cure avrebbero erroneamente negato la sostanziale equivalenza tra una richiesta di rinvio a giudizio e la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, di cui all’art. 415-bis c.p.p., mancando di considerare che il pubblico ministero, con detto avviso, ritenendo “di non dover formulare richiesta di archiviazione”, esprimeva l’intenzione di “esercitare l’azione penale”, essendo “assai probabile che al primo segua il secondo, come d’altronde verificatosi nel nostro caso”. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: ricorre la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca?
La Prima Sezione civile, assegnataria de suddetto ricorso, coglieva, nella linea difensiva articolata con il primo motivo di ricorso, l’emergere di una questione di massima di particolare importanza (“per il rilievo mediatico e le ricadute pratiche sull’esercizio del diritto (di e) all’informazione”), la quale, al tempo stesso, a suo avviso, avrebbe palesato l’esistenza di un “contrasto interpretativo tra plessi giurisdizionali (quello penale e quello civile)” in tema di diffamazione a mezzo stampa e, in particolare, sul “rilievo che assume, al fine della ricorrenza della diffamazione o della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, la circostanza che, al soggetto che si assume leso dall’articolo di stampa, sia stata attribuita, direttamente o indirettamente – mediante il richiamo ad atti giudiziari tipizzati o a norme codicistiche – la qualità di imputato, piuttosto che quella di indagato, e la commissione di un reato consumato piuttosto che di un reato tentato”.
In particolare, tale Sezione, nel tratteggiare le coordinate più generali della giurisprudenza di legittimità, sia civile che penale, sull’esercizio del diritto di cronaca giornalistica e, segnatamente, di quella giudiziaria, poneva l’accento in particolare sul requisito della verità della notizia, soprattutto come “verità putativa del fatto”, evidenziando in che termini la notizia “inesatta” manterrebbe una tale connotazione, ossia allorquando – richiamandosi a tal fine Cass. n. 11233/2017 e Cass. n. 7757/2020 – “la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie che non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili”.
Ciò posto, nell’esaminare, poi, il tema specificamente oggetto di rimessione ex art. 374 c.p.c., la Prima Sezione osservava altresì come la giurisprudenza civile, sempre elaborata in sede nomofilattica, mostrasse di seguire un orientamento piuttosto coeso nell’affermare che integra diffamazione a mezzo stampa, per l’insussistenza dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, l’attribuzione ad un soggetto nell’ambito di un articolo giornalistico della falsa posizione di imputato, anziché di indagato, allorché il giornalista riferisca di un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p. (Cass. n. 12370/2018 e Cass. n. 11769/2022; in precedenza, analogamente, Cass. n. 22190/2009, Cass. n. 18264/2014 e Cass. n. 17197/2015).
Orbene, proprio in relazione ai “punti di divergenza significativi”, rispetto a quanto affermato dalle Sezioni penali, si richiamava all’uopo l’arresto di cui a Cass. pen. n. 15093/2020, secondo il quale si esclude che possa dar luogo a un’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa “la divulgazione di una notizia d’agenzia riportante l’erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio anziché da avviso di conclusione delle indagini preliminari”, ciò integrando “una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d’indagine funzionale alla sua progressione”.
Pur tuttavia, si notava come questo precedente sembrasse in contrasto con i principi espressi dalle decisioni civili n. 12370/2018 e n. 11769/2022 e, al tempo stesso, non collimare neppure con “il più rigoroso precedente di legittimità penale” (Cass. pen. n. 34544/2001) che ha ritenuto configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa “nel caso in cui un organo di stampa abbia diffuso la falsa notizia del coinvolgimento dell’indagato in un procedimento in quanto destinatario di una informazione di garanzia, laddove lo stesso era stata solo iscritto, nella qualità di indagato, nel registro delle notizia di reato”, e ciò dando rilievo alla considerazione che il livello di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sarebbe tale da averla ormai resa “avvezza a valutare il differente grado di coinvolgimento dell’indagato in un procedimento a seconda che egli sia soltanto iscritto nel registro delle notizie di reato o sia anche destinatario di una informazione di garanzia”.
La Prima Sezione civile evidenziava, per di più, che, anche in relazione al profilo della portata diffamatoria, o meno, da “riconoscere alla propalazione di una notizia riguardante un reato consumato, piuttosto che un reato tentato”, si registravano posizioni non armoniche tra la giurisprudenza di legittimità civile e quella penale dal momento che se, per quest’ultima, “non è irrilevante per la reputazione di un soggetto l’attribuzione di un fatto illecito diverso da quello su cui effettivamente si indaga, tale essendo – alla luce degli elementi costitutivi – la fattispecie del reato tentato, rispetto a quella del reato consumato”, dal canto suo, la giurisprudenza civile è, invece, orientata a valutare le “imprecisioni”, al fine dell’accertamento dell’offensività, in funzione del loro peso sull’intero.
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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite
Le Sezioni unite civili, dopo avere esaminato il primo motivo di ricorso sul quale si incentrava la questione di rilevanza nomofilattica alla quale costoro erano chiamate a dare risposta, affrontavano la questione, sottoposta al loro vaglio giudiziale, alla luce della giurisprudenza formatasi in subiecta materia.
Nel dettaglio, si osservava prima di tutto come sia un orientamento affatto prevalente della giurisprudenza di legittimità ordinaria (Cass. pen. 34544/2001; Cass. pen. 13702/2010; Cass. n. 18264/2014; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. n. 12370/2018; Cass. n. 11679/2022) che la rappresentazione dello status giuridico di imputato ascritto ad una persona sottoposta alle indagini sortisce degli effetti pregiudizievoli sulla reputazione del soggetto protagonista della notizia propalata, sottolineandosi, in particolare, il carattere evidente della differenza giuridica tra avviso di conclusione delle indagini preliminari, inoltrato dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., e il rinvio a giudizio da parte del Giudice per le indagini preliminari.
Ebbene, per le Sezioni unite, tale discrasia si riverbera inevitabilmente anche sulla percezione che l’opinione pubblica matura circa lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria, che riguarda un determinato soggetto, la cui progressione tende ad alimentare il convincimento di un effettivo coinvolgimento della persona sottoposta alle indagini nei reati che hanno giustificato la pendenza della vicenda giudiziaria nei suoi confronti, essendo evocativo in tal senso quanto postulato dalla Suprema Corte nella pronuncia n. 12370/2018, là dove segnatamente afferma che “(a)nche secondo il comune modo di pensare, un conto, infatti, è riferire che il Pubblico Ministero dopo aver indagato su di un personaggio politico, ha ritenuto di aver completato le attività investigative, altro è che il Pubblico Ministero abbia richiesto il rinvio a giudizio, esercitando l’azione penale, e soprattutto che il Giudice, organo terzo e imparziale, abbia esaminato il risultato di tali attività investigative e abbia ritenuto che sussistessero sufficienti elementi di prova per la celebrazione del giudizio penale a carico dell’indagato”, essendo proprio questo l’ambito in cui si affronta anche la differenza giuridica esistente tra avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, provvedimento attraverso il quale il pubblico ministero esercita l’azione penale.
Per siffatto approdo ermeneutico, quindi, lo snodo essenziale, tra procedimento e processo penale, è per l’appunto la presentazione della suddetta richiesta, che determina un mutamento di status, in conseguenza del quale la persona sottoposta alle indagini acquista la qualifica di imputato.
A fronte di questo indirizzo interpretativo, la Corte di legittimità evidenziava uno di segno avverso, così come prospettato da una sentenza delle Sezioni penali (Cass. pen. n. 15093/2020), incline a svalutare il contenuto offensivo della discrepanza tra lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria sul piano storico e quello riportato nella narrazione.
In particolare, mentre vi è una concordia nel ritenere macroscopico il carattere dell’errore e la natura diffamatoria della notizia nel caso in cui venga riportato il riferimento al decreto di rinvio a giudizio, atto promanante dal giudice per le indagini preliminari – e, quindi, frutto di vaglio da parte di un giudice terzo e imparziale sulla prospettazione accusatoria -, anziché quello relativo all’avviso ex art. 415-bis c.p.p., atto promanante dal pubblico ministero, una divergente prospettiva si intercetta con riferimento alla propalazione di una notizia che riguardi la richiesta di rinvio a giudizio, piuttosto che l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
In quest’ultimo caso, difatti, l’appena citata Cass. pen. n. 15093/2020 ha ritenuto che l’insussistenza di un’ipotesi di diffamazione a mezzo della stampa si giustifichi in quanto “la divergenza tra quanto propalato e l’effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d’indagine funzionale alla sua progressione”, fermo restando che, a sostegno di tale arresto, si adduce l’attiguità sul piano procedimentale tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, essendo il primo prodromico al secondo, giacché, in base al disposto dell’art. 415-bis c.p.p., l’inoltro di tale avviso è subordinato all’intenzione del pubblico ministero di coltivare l’ipotesi accusatoria e precede l’avvio del processo penale a carico della persona sottoposta alle indagini.
I due atti avrebbero, dunque, la comune derivazione dalla sfera dell’accusa, pur essendo gli stessi autonomi e preordinati all’assolvimento di funzioni diverse.
In definitiva, uno scostamento di tale portata tra la realtà giudiziaria storica e quella narrata rivelerebbe una sostanziale inoffensività, non essendo l’inesattezza in grado di trasmodare in una falsità della notizia di natura diffamatoria.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come sia, poi, affatto prevalente l’indirizzo della giurisprudenza, sia civile, che penale, del Suprema Consesso, consistente nell’escludere l’operatività della scriminate del diritto di cronaca giudiziaria allorquando, anche solo nel titolo dell’articolo, venga impropriamente ascritto alla persona sottoposta alle indagini un addebito per un fatto-reato diverso rispetto al reato in relazione al quale si sta effettivamente svolgendo l’attività inquirente o venga ascritta, del pari impropriamente, una condotta sostanzialmente diversa e più grave rispetto a quella descritta negli atti giudiziari o nell’oggetto dell’imputazione (Cass. pen. n. 8036/1998; Cass. pen. 42155/2011; Cass. pen. n. 5760/2012; Cass. pen. n. 39503/2012; Cass. pen. n. 13782/2020; Cass. 26789/2024), fermo restando che non mancano, tuttavia, affermazioni più rigorose, in forza delle quali si reputa che sia insufficiente, al fine di escludere la natura diffamatoria della propalazione, la circostanza che il reato attribuito risulti, sulla base del raffronto tra cornici edittali, astrattamente meno grave di quello per il quale il soggetto sia effettivamente perseguito.
La minusvalenza offensiva del reato addebitato dalla narrazione rispetto a quello addebitato dagli inquirenti, per tale approdo ermeneutico, non varrebbe quindi ad erodere la natura diffamatoria della notizia non veritiera, riportata dal giornalista.
In altre parole, la minore gravità del titolo di reato ascritto dalla pubblicazione non rileva che sia nota agli “addetti ai lavori”, bensì alla sfera di utenza alla quale il contenuto è destinato, vale a dire quella del comune lettore (Cass. n. 3340/2009) e, dunque, in questi termini, l’oggettiva non veridicità della notizia sarebbe per ciò solo sufficiente a qualificare in termini di diffamazione la condotta divulgativa del dato non veritiero (Cass. pen. n. 3073/2016), trattandosi, pertanto, di una valutazione a maglie più strette che, però, trova convincente attenuazione in quell’orientamento che dà risalto alla minusvalenza offensiva tra il contenuto della narrazione e l’addebito effettivo, quale circostanza idonea a riverberarsi nella minore lesività della condotta divulgativa rispetto al bene della reputazione, che non può essere vulnerato dal mero fatto dell’infedeltà narrativa.
L’affermazione di una condotta diffamatoria non può, di conseguenza, essere affatto avulsa dal giudizio di offensività che ha come referente il bene giuridico che si assume leso; sicché, la discrepanza tra il titolo di reato riportato nella notizia e quello in relazione al quale si sta svolgendo l’attività inquirente non può comportare, in forza di un automatismo, la natura diffamatoria della divulgazione (Cass. pen. n. 6410/2010; Cass. n. 12903/2020).
In siffatto contesto, le Sezioni unite reputavano oltre tutto necessario rammentare che non si nutrono dubbi sulla qualificazione giuridica del tentativo come fattispecie autonoma di reato, quale delitto strutturalmente perfetto, ma meno grave rispetto alla corrispondente figura criminosa nella forma consumata visto che esso esprime, rispetto a quest’ultima, un disvalore più tenue e viene sanzionato con una pena autonoma e meno afflittiva.
Ebbene, alla luce delle considerazioni sin qui esposte (oltre altre enunciate nella parte introduttiva di questa decisione a cui si rinvia), le Sezioni unite ritenevano di dovere dare seguito all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ma con le puntualizzazioni che trovavano già evidenza nel principio di diritto che si veniva così ad enunciare: “in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori”.
In particolare, le ragioni, che inducevano codeste Sezioni ad addivenire a siffatta considerazione giuridica, erano enunciate nei seguenti termini: “Il profilo critico, ai fini della risoluzione del contrasto di giurisprudenza rimesso dalla Prima Sezione civile, investe non tanto l’attribuzione di un reato diverso e più grave rispetto a quello oggetto di indagine – che, come in precedenza illustrato, si risolve nei termini dell’orientamento prevalente e meno rigoroso (…) -, bensì, piuttosto, l’erronea rappresentazione della falsa posizione di imputato anziché di indagato, attraverso l’evocazione della richiesta di rinvio a giudizio piuttosto che dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, da cui traspare la carica diffamatoria della notizia, che risulta distorta nel suo contenuto informativo essenziale. La differenza, in termini giuridici, che sussiste tra i due status è significativa, riverberandosi sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato. Nell’ambito delle indagini preliminari, l’addebito contestato dagli inquirenti nei confronti della persona sottoposta alle indagini è solo provvisorio, diversamente da ciò che accade nell’ambito del processo, che prende le mosse dall’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, in cui tale addebito si stabilizza, assurgendo a imputazione, e sulla sua fondatezza dovrà pronunciarsi un giudice terzo ed imparziale. Questa evidente diversità di posizione è assunta come postulato della scelta compiuta dal legislatore nell’art. 61 c.p.p., di equiparare espressamente l’indagato all’imputato, al fine di consentirgli di accedere, nella sede procedimentale, ai medesimi diritti e alle medesime garanzie riservate a quest’ultimo nella sede processuale, salvo che sia diversamente stabilito. Essenziale, ai fini che qui specificamente interessano, è anche il momento in cui avviene il mutamento di status che determina la transizione dalla fase procedimentale delle indagini a quella propriamente processuale. Tale snodo si identifica con l’elevazione di una formale imputazione ad opera del pubblico ministero, come risulta dall’art. 60 c.p.p. Dunque, è la richiesta di rinvio a giudizio, atto con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, a determinare il cambiamento della posizione del prevenuto da indagato a imputato. In tal guisa, si comprende la rilevanza di sistema della richiesta di rinvio a giudizio nella vicenda giudiziaria, con le fondamentali implicazioni che essa porta con sé, emergendo con chiarezza la profonda differenza tra questo atto e l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ad esso prodromico. Nonostante la comune derivazione soggettiva dei due atti, entrambi provenienti dalla sfera accusatoria, l’impropria omologazione degli stessi dà luogo ad una infedele riproduzione della vicenda giudiziaria dal punto di vista strutturale e fattuale. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, pur sottendendo l’intenzione del pubblico ministero di far evolvere la propria prospettazione accusatoria in una formale imputazione, non necessariamente viene seguita da una richiesta di rinvio a giudizio, in cui tale proposito effettivamente si materializza. Se è vero che l’esercizio dell’azione penale è preceduto sempre dall’avviso ex art. 415-bis c.p.p., non è parimenti vero che a tale avviso faccia sempre necessariamente seguito l’esercizio dell’azione penale. La norma, infatti, nello stabilire l’obbligo per il pubblico ministero di comunicare la conclusione delle indagini preliminari, palesando alla persona sottoposta alle indagini un proposito, ancora solo potenziale, di elevare un addebito formale di responsabilità che determini l’instaurazione nei suoi confronti di un processo penale, non contempla una mera formalità ritualistica, scevra da qualsivoglia pregnanza assiologica. L’obbligo in esame presenta, invece, una ratio sua propria, che risiede nella garanzia del diritto di difesa della persona attinta dalla vicenda giudiziaria, alla quale è riconosciuta la facoltà di presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle investigazioni difensive, chiedere al pubblico ministero l’espletamento di ulteriori atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di essere sottoposto ad interrogatorio. Attraverso l’esercizio di queste fondamentali prerogative, il proposito accusatorio potrebbe infrangersi piuttosto che essere perseguito attraverso l’esercizio dell’azione penale. Sicché, fino al momento della richiesta di rinvio a giudizio, l’addebito provvisoriamente contestato all’indagato non ha assunto ancora una consistenza tale da accreditare l’ipotesi accusatoria. La diversa natura giuridica degli atti, in definitiva, evoca la diversa posizione giuridica del protagonista della vicenda giudiziaria, che non può essere trascurata al fine di valutare la carica diffamatoria del contenuto informativo inesatto. Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatoria della notizia propalata. Ne deriva che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti. Simili inesattezze rendono inevitabilmente la narrazione non aderente al vero, inficiando l’autenticità del dato informativo e distorcendo l’opinione pubblica circa il grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto, al quale la notizia si riferisce, nel reato contestatogli. In tal guisa, viene gettato su di lui un immotivato discredito, compromettendone la reputazione e l’immagine sociale. La propalazione della notizia trascende la funzione informativa, che dovrebbe giustificarla, pregiudicando anche il diritto della collettività ad un’informazione vera e corretta, in grado di soddisfare il diritto all’informazione nella sua declinazione passiva, inteso come diritto di essere informati. È una prospettiva, questa, che, a fortiori, non consente di condividere neppure quell’orientamento (Cass. n. 11769/2022); che, pur adesivo rispetto alla valenza diffamatoria che assume la qualificazione di imputato in danno di chi risulti solo indagato, assume, però, essere ipotesi differente, e priva di carica lesiva, quella del soggetto che venga indicato come indagato pur essendo soltanto “stato sentito come persona informata dei fatti”. È di tutta evidenza come quest’ultima figura, pur afferente alla fase delle indagini preliminari, ove non coincidente con l’indagato (art. 350 c.p.p.), si palesa come del tutto estranea rispetto al fatto-reato che quelle indagini sono volte a saggiarne la consistenza, potendo addirittura coincidere con la persona offesa dal reato stesso. (…) Ciò detto, la natura diffamatoria dell’anzidetta inesattezza (imputato in luogo di indagato, anche nei termini indiretti innanzi esaminati), così come di quella relativa all’addebito di un fatto diverso rispetto a quello oggetto delle indagini e idoneo a cagionare una lesione della reputazione (reato consumato in luogo di quello tentato), certamente predicabile in astratto, può sfumare nella fattispecie concreta, qualora, all’esito di un giudizio di merito – nei termini assunti dalla giurisprudenza affatto coesa richiamata (…) [in precedenza ndr.] -, si riscontri che, dal contesto complessivo della narrazione, emerga in maniera affatto chiara ed inequivocabile la verità sostanziale della notizia, non contraddetta, quindi, né opacizzata da elementi di composizione dell’articolo assumenti un rilievo lesivo di per sé dirimente. Tale soluzione è il naturale corollario del principio, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, in base al quale la valutazione del significato diffamatorio di un’affermazione va condotta valorizzando il contesto in cui si colloca (tra le tante citate: Cass. n. 12903/2020; Cass. n. 7757/2020). In questa prospettiva, la valenza semantica di un elemento atomisticamente considerato può trascolorare ove quest’ultimo venga inserito in un contesto narrativo più ampio. In tal guisa, nel contesto della narrazione, l’elemento astrattamente diffamatorio può assumere un peso specifico inconsistente rispetto al risultato comunicativo effettivamente raggiunto ove esso corrisponda alla verità sostanziale della notizia. Ed è in questi termini che, come in precedenza ricordato, la giurisprudenza di questa Corte ha inteso orientare il giudice di merito nella delibazione, di sua spettanza, in ordine alla sussistenza dell’esimente del diritto di cronaca affermando che sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto ‘vero’ in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo ‘falso’ e, oltre che tale, diffamatorio. Valutazione che deve maturare nel rispetto della regola di giudizio – come tale suscettibile di sindacato di legittimità in guisa di error iuris se mal governata – per cui l’inesattezza di per sé non può comportare la diffamazione, ma ha quell’effetto solo se trasforma il fatto da ‘vero’ a ‘falso’ e in guisa tale che quest’ultimo sia diffamatorio. Peraltro, nella delibazione in concreto alla quale deve attendere il giudice di merito non è dato trascurare, come in precedenza evidenziato, che il contesto narrativo, sotto lo spettro del quale scrutinare la portata diffamatoria dell’affermazione, può assumere anche una fisionomia diversa a seconda che si tratti di pubblicazioni on line o di stampa cartacea, nei termini dianzi delineati”.
Terminata questa disamina, i giudici di piazza Cavour stimavano il motivo summenzionato infondato, ritenendo come la Corte di Appello avesse fatto una corretta applicazione dei principi suesposti, avendo la decisione, emessa da tale Corte, ravvisato il contenuto diffamatorio della narrazione, propalata tradendo la funzione informativa che avrebbe dovuto assolvere visto che la Corte territoriale capitolina aveva escluso che l’errore (ossia, aver dato per certa la richiesta di rinvio a giudizio, allorquando era stato depositato soltanto l’avviso di conclusione delle indagini), reputato evidente e inescusabile per essere stato commesso proprio da un giornalista di “cronaca giudiziaria” (e, dunque, da ritenersi culturalmente attrezzato sugli anzidetti concetti giuridici), potesse giustificare l’operatività dell’esimente del diritto di cronaca, collocandosi la pubblicazione oltre il limite della verità, anche ragionevolmente putativa.
4. Conclusioni: diffamazione a mezzo stampa: niente esimente se si attribuisce falsamente la qualifica di imputato anziché di indagato
La decisione in esame è di sicuro interesse in quanto, con essa, è stato risolto il seguente contrasto giurisprudenziale: se, ai fini della diffamazione o della scriminante del diritto di cronaca, rileva l’attribuzione, anche indiretta, della qualifica di imputato anziché di indagato, o di un reato consumato invece che tentato.
Le Sezioni unite, infatti, come appena evidenziato, hanno fornito una risposta negativa (sebbene, come vedremo da qui a breve, a date condizioni) a siffatto quesito, postulando per l’appunto che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, non opera l’esimente del diritto di cronaca se si attribuisce falsamente la qualifica di imputato (per chi è solo indagato) o si altera il fatto contestato (reato consumato, anziché soltanto tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori
Quindi, in assenza di un accertamento di questo genere, l’attribuire erroneamente a taluno la qualifica di imputato, laddove costui sia solo indagato, oppure attribuirgli di avere commesso un reato consumato, qualora, all’opposto, sia soltanto tentato, impedisce che possa rilevare la causa di liceità riguardante il diritto di cronaca.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, poiché fa chiarezza su tale tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.
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