La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, co. 7, legge n. 354/1975: vediamo come. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
Indice
- 1. I fatti: la negazione dell’istanza di detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit.1. I fatti: la negazione dell’istanza di detenzione
- 2. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354
- 3. La soluzione adottata dalla Consulta
- 4. Conclusioni: illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, legge n. 354 del 1975, limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»
1. I fatti: la negazione dell’istanza di detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit.1. I fatti: la negazione dell’istanza di detenzione
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna doveva decidere su un’istanza, avanzata da un detenuto, volta a fargli ottenere la misura della detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit., al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli minori.
In particolare, nel caso di specie, i figli del richiedente, a lui affidati dal Tribunale per i minorenni, erano stato attualmente accuditi dalla loro sorella maggiore.
L’istanza del detenuto avrebbe dovuto, pertanto, essere rigettata.
In effetti, da un lato, la madre avrebbe comunque diritto di vedere i figli e di mantenere un rapporto con gli stessi, seppur non continuativo, dall’altro, i figli vivrebbero attualmente in una situazione serena presso la famiglia della sorella, senza che emergano carenze di cura e di assistenza.
Quest’organo giudicante dubitava, tuttavia, della compatibilità con i parametri costituzionali menzionati della disposizione censurata (nei termini che vedremo da qui a breve).
Ciò posto, a sua volta, il Tribunale di sorveglianza di Venezia doveva decidere su una richiesta, formulata sempre da un detenuto, di concessione della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit., per scontare la pena di undici anni, un mese e quindici giorni di reclusione, risultante dal cumulo di due distinte sentenze di condanna per vari reati, tra i quali associazione a delinquere, furto, rapina e ricettazione.
Nel dettaglio, nella fattispecie in esame, il richiedente, che aveva già fruito di permessi di necessità ex art. 30 ordin. penit. e di visite al minore infermo ex art. 21-ter, comma 1, ordin. penit., aveva un figlio minore in una situazione di grave disabilità, con necessità di continua assistenza, dovuta a un trauma cranico commotivo riportato a seguito di un incidente.
Più in particolare, il bambino era «alimentato tramite PEG, comunica attraverso le espressioni del volto e il pianto, usa tutori per gamba e piede e il bustino; subisce periodici ricoveri e visite specialistiche e la sua situazione è ad oggi descritta dai sanitari come caratterizzata da cronicità, irreversibilità e progressiva degenerazione».
Orbene, dall’indagine socio-familiare condotta dall’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE), emergeva altresì come la madre del minore attualmente si occupasse da sola del bambino, non essendo significativamente supportata né dalla propria famiglia di origine, né da quella del marito. La madre riferiva inoltre come il recente peggioramento delle condizioni del bambino ne rendesse sempre più difficoltosa la gestione, anche in relazione alle sue frequenti crisi respiratorie, sottolineando al contempo come il marito nel corso delle esperienze premiali avesse «dimostrato una capacità di gestione della responsabilità genitoriale che permett[e] a lei di riposarsi anche solo per qualche ora».
D’altronde, ad avviso di tale organo giudicante, la documentazione medica acquisita confermava il complessivo recente peggioramento delle condizioni di salute del bambino, che avrebbe reso indicata una terapia antalgica più aggressiva, rispetto alla quale la madre aveva espresso obiezioni, mentre il padre appariva comprenderne la necessità, senza ignorare il fatto che la condotta intramuraria del richiedente fosse stata complessivamente corretta e caratterizzata da una positiva partecipazione alle attività trattamentali e al lavoro presso la cucina dell’istituto; parimenti, la sua condotta durante i permessi speciali di cui aveva sin qui fruito risultava essere stata corretta.
Ciò posto, quanto ai presupposti per la concessione del beneficio richiesto, sempre siffatto Tribunale osservava che, se il detenuto istante non aveva ancora espiato un terzo della pena, ciò che rende inapplicabile il comma 1 dell’art. 47-quinquies ordin. penit., tuttavia, il comma 1-bis della medesima disposizione, in combinato disposto con il successivo comma 7, consente anche ai padri condannati per reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (come nel caso del richiedente) l’accesso alla misura alternativa, laddove non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga: pericoli che si stimavano non sussistenti nel caso in esame, anche alla luce dei benefici di cui il richiedente aveva già fruito in passato.
Per il Tribunale veneto, pertanto, appariva dunque possibile, sotto questo profilo, un ripristino della convivenza tra padre e figlio, «potendo senz’altro la vicinanza della figura paterna avere effetti positivi quantomeno a livello emotivo-sensoriale del bambino», così come non avrebbe rappresentato un ostacolo a una tale soluzione la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale applicata in una delle due sentenze in esecuzione, dal momento che, ai sensi dell’art. 7 della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), l’applicazione di un beneficio previsto dalla legge determina, per il tempo in cui lo stesso è applicato, la sospensione della pena accessoria.
Ove dunque il giudice ritenga che, come nel caso all’esame, il ripristino della convivenza tra genitore e minore sia effettivamente funzionale alla tutela dei migliori interessi del minore, la pena accessoria dovrebbe considerarsi sospesa, tenuto conto altresì del fatto che, anche in assenza della previsione di cui all’art. 7 della legge n. 40 del 2001, la pena accessoria non farebbe venir meno il generale dovere di cura verso i figli in capo al genitore.
Orbene, a fronte di tale stato delle cose, questo giudice osservava come a impedire, però, la concessione del beneficio richiesto, starebbe la condizione, stabilita dal comma 7 dell’art. 47-quinquies ordin. penit. per i condannati padri, del decesso o dell’impossibilità della madre, e del non esservi modo di affidare la prole ad altri che al padre, e ciò anche in relazione alla interpretazione di tale requisito da parte della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il requisito dell’impossibilità della madre andrebbe inteso in senso oggettivo, in una accezione equivalente alla «impossibilità assoluta» di accudire il figlio (citandosi all’uopo: Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 19 dicembre 2017-5 giugno 2018, n. 25164), non integrata dalla circostanza del mero impegno lavorativo della madre (richiamandosi: Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 15 marzo-12 settembre 2016, n. 37859) e identificabile piuttosto in una situazione che «determina il rischio concreto per la prole di un grave deficit assistenziale e di un’irreversibile compromissione del suo processo evolutivo ed educativo» (si menzionava: Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 10 dicembre 2020-8 febbraio 2021, n. 4796).
Posto che la disposizione in esame considererebbe, dunque, il padre come «fruitore del beneficio solo in funzione “vicaria” rispetto alla madre, ritenuta dal legislatore come il genitore maggiormente “votato” alla cura dei figli in tenera età o disabili», da tale circostanza il Tribunale di sorveglianza di Venezia dubitava della legittimità costituzionale di tale disposizione (nei modi che esamineremo da qui a poco). Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione.
Formulario annotato del processo penale 2025
Il presente formulario è stato concepito per fornire all’avvocato penalista uno strumento di agile consultazione.Attraverso gli schemi degli atti difensivi, sono esaminati i vari istituti processuali alla luce delle novità intervenute nell’ultimo anno, con l’evidenziazione della normativa di riferimento e delle più rilevanti linee interpretative della giurisprudenza di legittimità. La selezione delle formule, accompagnate da suggerimenti per una migliore redazione di un atto, tiene conto degli atti che un avvocato è chiamato a predisporre come difensore dell’imputato, ma anche come difensore delle parti private (parte civile, persona offesa, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria). Il volume contiene sia gli atti che vanno proposti in forma scritta, sia quelli che, pur potendo essere proposti oralmente nel corso di un’udienza, sono di più frequente utilizzo.Un approfondimento particolare è dedicato al fascicolo informatico e al processo penale telematico, alla luce del D.M. 27 dicembre 2024, n. 206, che ha introdotto rilevanti novità in materia di tempi e modi del deposito telematico.Completa il volume una sezione online in cui sono disponibili le formule anche in formato editabile e stampabile. Valerio de GioiaConsigliere della Corte di Appello di Roma.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.
Valerio de Gioia, Paolo Emilio de Simone | Maggioli Editore 2025
89.30 €
2. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna sollevava, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» mentre, in via subordinata, la medesima disposizione era censurata, in riferimento agli stessi parametri, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto se «non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
Infatti, questo giudice a quo dubitava della compatibilità con i parametri costituzionali menzionati della disposizione censurata, anzitutto, in relazione alla «scelta legislativa di operare a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali, padre e madre, nella cura del minore (o del figlio affetto da handicap) stabilendo una cornice normativa evidentemente più favorevole per le detenute di sesso femminile rispetto ai detenuti di sesso maschile, in cui l’elemento discretivo è dato esclusivamente dal genere del genitore» atteso che, a suo avviso, tale scelta si tradurrebbe in una discriminazione irragionevole, tenuto conto dello scopo della disposizione censurata, «in cui l’interesse costituzionale prevalente non è tanto quello della tutela della maternità, bensì quello di garantire assistenza al soggetto bisognoso di cura in modo da non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo».
Ebbene, chiarito ciò, proseguendo la disamina del suo ragionamento argomentativo, il rimettente stimava necessario in secondo luogo ripercorrere dettagliatamente l’evoluzione normativa e gli interventi di questa Corte che hanno, a partire dagli anni Ottanta, introdotto e poi progressivamente esteso misure alternative alla detenzione, benefici penitenziari e misure cautelari specifiche in favore dei genitori di figli in tenera età ovvero con disabilità, nonché il differimento della pena in favore della madre di prole di età inferiore ai tre anni; e ciò parallelamente allo sviluppo della normativa giuslavoristica e previdenziale, parimenti rivolta a tutelare l’«esercizio della genitorialità quale attività di cura ed educazione della prole nell’interesse di quest’ultima».
Peraltro, il legislatore, in un contesto storico in cui ancora «il lavoro di cura era culturalmente prerogativa della madre-donna», avrebbe «scelto di non realizzare una esatta parificazione tra i due sessi, attribuendo al padre un ruolo di mera supplenza rispetto alla madre».
Orbene, per il giudice rimettente, tale scelta normativa risulterebbe oggi inadeguata rispetto alle recenti acquisizioni della letteratura scientifica, che avrebbero «messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente» dal momento che, se è pur vero, «che nella maggior parte delle società umane in genere è una donna – ma non sempre la madre biologica – o un gruppo di donne ad occuparsi dei bambini, si sono registrate anche opzioni sociali differenti, in cui il ruolo di cura della prole (parenting) è o affidato direttamente al padre (raramente) o modellato su una cooperazione tra i genitori, fino a forme di intercambiabilità diffusa tra le figure genitoriali».
Sebbene quindi «non possa negarsi che la madre può avere, quantomeno in una fase iniziale dello sviluppo del bambino, un ruolo di cura primario, legato prevalentemente all’allattamento al seno, successivamente le differenze nel rapporto di interazione tra le figure genitoriali e la prole» sarebbero «più propriamente condizionate da condizioni ecologiche […] e da costrutti sociali-ambientali, piuttosto che dal sesso del genitore», tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, gli studi più recenti evidenzierebbero inoltre che «l’ambiente più confacente all’armonico sviluppo della personalità del minore è quello in cui si realizza il cosiddetto coparenting, vale a dire la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura, piuttosto che su una rigida separazione di funzioni fondata sul genere», dall’altro, tali acquisizioni avrebbero trovato riconoscimento normativo – nel diritto di famiglia italiano e, a livello sovranazionale, nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 – attraverso l’affermazione di un «generale diritto del minore alla c.d. bigenitorialità», quale corollario del dovere di entrambi i genitori di garantire cura ed educazione alla prole.
Del resto, sempre ad avviso di codesto giudice, importanti statuizioni di principio potrebbero trarsi in proposito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale ogni differenziazione di trattamento sulla base del sesso deve essere sorretta da ragioni particolarmente pregnanti, non risultando sufficienti, in particolare, «riferimenti alle tradizioni, ad assunti generali o ad attitudini sociali prevalenti in un dato paese» (sono citate Corte EDU, terza sezione, sentenza 19 marzo 2024, B.T. contro Russia, paragrafo 38; grande camera, sentenze 11 ottobre 2022, Beeler contro Svizzera, paragrafo 113 e 22 marzo 2012, Konstantin Markin contro Russia, paragrafo 127).
Ebbene, alla luce di tutto ciò, per il Tribunale di sorveglianza di Bologna, dovrebbe ritenersi che «la inesatta parificazione del padre e della madre detenuti per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale sia il frutto di una scelta intrinsecamente irragionevole e fondata su una tradizione culturale priva di effettivo portato empirico» dato che, in assenza di pericoli per la collettività, «un’esecuzione penale esterna che mediante il ripristino della convivenza con il figlio bisognoso di cura consenta l’esercizio della genitorialità» sarebbe in via generale «da ritenersi costituzionalmente preferibile ad una esecuzione inframuraria che, irragionevolmente, sacrifichi la tutela della prole in età di sviluppo e dei soggetti affetti da handicap».
In un siffatto contesto, dunque, una «differenziazione uomo-donna» risulterebbe «ingiustificata rispetto all’oggetto di tutela», dal momento che la figura maschile e quella femminile sarebbero entrambe adeguatamente in grado di assolvere al ruolo genitoriale.
Di conseguenza, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe, così, in contrasto con l’art. 3, secondo comma (recte: primo comma), Cost., poiché disciplinerebbe «situazioni che si ritengono equivalenti in modo diseguale», oltre a violare gli artt. 29, 30 e 31, secondo comma, Cost., in quanto la previsione di favore da essa stabilita non sarebbe giustificabile rispetto alle esigenze di tutela della famiglia, della genitorialità e della parità tra coniugi-genitori, nonché della protezione della gioventù.
In particolare, per il giudice rimettente, effetti discriminatori si verificherebbero nei confronti della madre-lavoratrice la quale, in assenza del padre detenuto, dovrebbe farsi carico tanto della cura della prole quanto del mantenimento economico della famiglia, sacrificando eventualmente la propria capacità lavorativa mentre il padre-lavoratore non si troverebbe mai in questa situazione, potendo contare sulla concessione della misura alternativa per la madre detenuta.
Ciò posto, si ravvisava un ulteriore violazione, per contrasto con l’art. 2 Cost., «laddove si considerino gli effetti della disciplina in esame in relazione alle cosiddette famiglie di fatto o omogenitoriali», la cui tutela sarebbe stata ricondotta del Giudice delle leggi «nell’alveo di quelle formazioni sociali in cui si esplica la personalità degli individui».
In particolare, i figli di una unione civile tra due uomini sarebbero irragionevolmente sottoposti ad una disciplina deteriore di quella riservata ai figli di una unione civile tra due donne, risultando qui «residuale la possibilità per i figli della coppia di avere la presenza di entrambi i genitori».
Infine, sempre a detta di questo organo giudicante, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, così come interpretati dalla Corte EDU nella citata giurisprudenza.
Invero, a fronte della denunciata irragionevolezza del trattamento differenziato tra madre e padre, due opzioni sarebbero «normativamente praticabili e ragionevoli costituzionalmente»: «o omologare la condizione della madre a quella del padre, valutando se l’assenza del genitore donna pregiudichi in concreto lo sviluppo dei figli a fronte della presenza dell’altro partner uomo o di terzi in grado di assicurare assistenza; o (ed è quel che qui si auspica) parificare la condizione del padre a quella della madre, garantendo il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori, laddove non sussistano, in concreto, pericoli per la collettività e consentendo di tutelare massimamente l’interesse di cura della prole di cui all’art. 31 c. 2 della Carta Costituzionale».
La prima opzione comporterebbe una pronuncia additiva in malam partem da parte della Consulta in materia penale, ciò che renderebbe manifestamente inammissibili le questioni prospettate mentre sarebbe invece «preferibile e costituzionalmente vincolata» la seconda opzione, che garantirebbe la massima espansione dell’interesse alla tutela della prole, salvaguardando al tempo stesso la sicurezza della collettività e gli interessi sottesi all’esecuzione della pena.
Le questioni di legittimità costituzionale indicate sarebbero del resto rilevanti ai fini della decisione sull’istanza di detenzione domiciliare speciale, a prescindere dall’accertamento nel caso di specie degli altri requisiti a tal fine necessari, e ciò sulla base della considerazione che la decisione di accoglimento della Consulta influirebbe quantomeno sull’iter argomentativo della decisione sull’istanza del ricorrente.
Ad ogni modo, il giudice a quo segnalava che l’istruttoria svolta suggerisce l’effettiva ricorrenza delle condizioni ulteriori per la concessione della misura in esame, in caso di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.
In via subordinata, codesto giudice sollevava, in riferimento ai medesimi parametri, questioni di legittimità costituzionale sul solo frammento della disposizione censurata che, in caso di decesso o impossibilità della madre, subordina la concessione della misura al padre alla condizione che non vi sia modo di affidare la prole a persone diverse da quest’ultimo.
Tale previsione, difatti, per il giudice rimettente, frusterebbe irragionevolmente il ruolo del padre, «attribuendogli rilevanza solo quale extrema ratio normativa nell’affidamento dei figli», oltre ad essere distonica rispetto ad altre disposizioni assunte a tertia comparationis, quali l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che consente la concessione della detenzione domiciliare “ordinaria” al padre laddove la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, e l’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale il quale, in presenza di tale condizione, esclude che possa essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti del padre, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
In effetti, per il Tribunale bolognese, nessuna delle due disposizioni richiede la dimostrazione dell’assenza di terze persone in grado di prendersi cura dei minori, così come non si potrebbe sostenere che il più restrittivo requisito previsto dalla disposizione censurata valga a «controbilanciare» l’assenza di limiti di pena per l’accesso alla misura da essa prevista, diversamente da quanto avviene per la misura di cui all’art. 47-ter ordin. penit. giacché «prevedere che, nonostante il padre risulti non pericoloso e possa eseguire all’esterno la propria pena, il suo ruolo di cura venga postergato a quello fornito dai terzi» costituirebbe «scelta illogica che sacrifica sull’altare di esigenze securitarie astratte il rapporto genitoriale contro l’interesse del padre (con lesione degli artt. 3 c. 2 e 30 Cost. rispetto alla madre) e del minore-figlio (con lesione dell’art. 31 c. 2 Cost.)».
La stessa giurisprudenza di legittimità sull’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. avrebbe, del resto, sottolineato che la legge non ha riconosciuto una funzione sostitutiva a terze persone rispetto al ruolo del padre, «considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall’assenza di una figura genitoriale, la cui infungibilità deve, pertanto, fin dove possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia che l’articolo 31 Cost. accorda all’infanzia» (si citava a tal proposito: Corte di Cassazione, Sezione sesta penale, sentenza 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355).
Nel caso, infine, in cui fossero accolte le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata, il rimettente sottoponeva all’attenzione della Corte costituzionale l’opportunità di una declaratoria di illegittimità costituzionale consequenziale, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 21-bis, comma 3, ordin. penit., che – nel disciplinare l’assistenza all’esterno dei figli minori – prevede la medesima limitazione, esponendosi così alle stesse censure prospettate con riguardo alla disposizione censurata.
Terminata di esaminare tale questione di legittimità costituzionale, l’altra, presa in considerazione dalla Consulta nel caso di specie come già accennato, seppur indirettamente, in precedenza, riguardava quella prospettata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia.
Difatti, a fronte delle criticità sollevate da codesto Tribunale nei termini già evidenziati prima, questo medesimo giudice sollevava questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, «nella parte in cui prevede che ai detenuti padri può essere concessa la detenzione domiciliare speciale solo “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”».
In particolare, tale rimettente rammentava come il Giudice delle leggi si fosse di recente pronunciato, con la sentenza n. 219 del 2023, sulla disciplina della detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., giudicando non fondate le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate.
Tuttavia, si osservava come in quell’occasione venissero in considerazione i soli interessi del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori, ritenuti non necessariamente prevalenti rispetto alle esigenze sottese alla esecuzione della pena, non essendo stata invece censurata la disciplina «in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre», né essendo stata sollevata «una questione di discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione».
Orbene, proprio alla luce di siffatti profili di criticità, ad avviso del rimettente, la disposizione censurata sarebbe viziata in effetti da una «impostazione discriminatoria», che assegnerebbe alla madre «l’indefettibile ruolo di genitore deputato alla cura della prole», e al padre «un ruolo meramente vicario e subalterno, addirittura rispetto anche ad altre “terze” persone», fermo restando che tale discriminazione si tradurrebbe, d’altra parte, anche in un «vulnus alla tutela del minore (non sotto il profilo della bigenitorialità) ma sotto il profilo educativo e assistenziale in sé, posto che egli di fatto potrà fruire dell’unica figura materna – vulnus che si amplifica solo a considerare le ipotesi in cui vi siano più figli minori da accudire».
Violato sarebbe, anzitutto, il principio dell’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi di cui all’art. 29 Cost..
Nel dettaglio, dopo avere brevemente ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, il rimettente osservava che, se il ruolo genitoriale, di madre e di padre, dovrebbe oggi ritenersi parificato, nel senso di possibilità di accesso di entrambi i genitori alle misure che nei vari settori dell’ordinamento mirano ad assicurare l’effettività dei rapporti con i figli, la differente disciplina dettata in materia di detenzione domiciliare speciale si tradurrebbe così in una «duplice discriminazione: ai danni della donna in quanto, come madre, le viene attribuito un ruolo primario ed indispensabile anche a scapito del rispetto del suo essere come donna o in generale come “persona” (pretendendosene di fatto un annullamento in nome della cura ed assistenza alla prole), ma altresì ai danni del padre poiché la norma ne ritaglia un ruolo vicario e suppletivo, anziché paritario ed autonomo».
Una simile disciplina, d’altronde sarebbe basata su «dati e tradizioni culturali» che non sarebbero più giustificabili di fronte ai mutamenti sociali che hanno interessato l’ambito familiare, e da ciò deriverebbe altresì, sempre ad avviso di codesto Tribunale, il contrasto della disciplina medesima con l’art. 3, secondo comma (recte: primo comma), Cost., «posta la palese violazione dell’uguaglianza tra persone in ragione del sesso di appartenenza», nonché con l’art. 2 «volendo riguardare alla parità tra le persone da riconoscersi anche nell’ambito delle formazioni sociali oltre che nell’ambito del rapporto coniugale (art. 29 Cost.)», fermo restando che la disciplina censurata sarebbe, altresì, incompatibile con gli artt. 30 e 31 Cost., per le ragioni già evidenziate dalla sentenza n. 215 del 1990 di questa Corte, con la quale fu esteso anche al padre – nel caso in cui la madre manchi o sia assolutamente impossibilitata ad espletare il compito di cura e assistenza al minore – l’accesso alla misura della detenzione domiciliare allora prevista dall’art. 47-ter, primo comma, numero 1), ordin. penit.
In definitiva, la mancata parità di condizioni di accesso alla misura, per il giudice a quo, violerebbe, al contempo, «l’uguaglianza tra uomo e donna, la parità tra i genitori e lo stesso interesse primario del minore», tenuto conto altresì del fatto che la disposizione de qua sarebbe, inoltre, incompatibile con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, stabilendo una ingiustificata «differenziazione del trattamento normativo in base al sesso» (sono citate le sentenze Konstantin Markin contro Russia, paragrafo 127; Beeler contro Svizzera, paragrafi 93 e seguenti; B.T. contro Russia, paragrafi 40 e seguenti), anche alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132, a tenore del quale «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio».
Il rimettente dava conto, peraltro, di talune pronunce con cui la Corte EDU non ha ritenuto sussistere una violazione dell’art. 14 CEDU in materia di discriminazioni tra uomo e donna nel trattamento sanzionatorio e penitenziario (sono citate Corte EDU, grande camera, sentenza 24 gennaio 2017, Khamtokhu e Aksenchik contro Russia; sezione quarta, sentenza 3 ottobre 2017, Alexandru Enache contro Romania; sezione quinta, sentenza 10 gennaio 2019, Ēcis contro Lettonia), ma osservava come, nel caso all’esame, si discutesse, non di un bambino in tenerissima età, specialmente bisognoso delle cure della madre, ma di un «minore afflitto da grave disabilità rispetto a cui il ruolo genitoriale appare del tutto intercambiabile».
Infine, si reputavano violati il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – «funzione a cui devono evidentemente tendere in generale anche le misure alternative alla pena e dunque anche l’art. 47 quinquies co. 7 o.p., e che non sarebbe realizzata negando al padre detenuto l’accesso alla misura, ponendosi ciò anzi in termini tutt’altro che rieducativi, perpetrando una concezione oggi non più accettabile (né rispondente alla realtà) dei ruoli sociali e all’interno della famiglia (lato sensu intesa)».
La disposizione censurata, per il rimettente, sarebbe dunque costituzionalmente illegittima tanto con riferimento all’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata»; quanto con riferimento all’inciso successivo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», che «assegna al ruolo di padre-genitore una posizione assolutamente marginale e residuale», con scelta distonica rispetto a quella compiuta, ad esempio, dall’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che non contempla una simile condizione rispetto al divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti del padre, salvo il ricorrere di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, in caso di assoluta impossibilità della madre a prendersi cura dei figli.
Potrebbe interessarti anche: Provvisoria detenzione domiciliare per il genitore che deve accudire il figlio
3. La soluzione adottata dalla Consulta
La Corte costituzionale – dopo avere stimato le eccezioni prospettate dalle parti infondate – riteneva infondate quasi tutte le questioni suesposte, ad eccezione di quelle enunciate dal Tribunale di sorveglianza di Bologna in riferimento agli artt. 3, 30 e 31, secondo comma, Cost., sulla base dei principi già enunciati nella sentenza n. 219 del 2023, che per l’appunto erano considerate invece fondate.
In particolare, i giudici di legittimità costituzionale osservavano prima di tutto che, in tale sentenza, si è affermato che il principio dell’interesse preminente del minore – desunto dalle citate previsioni costituzionali, interpretate alla luce delle pertinenti norme internazionali e dell’Unione europea (ampiamente sul punto sentenza n. 102 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto) – richiede che gli interessi sottesi all’esecuzione intramuraria della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.
Ebbene, di tale esigenza si è fatto carico il legislatore in numerose discipline, tra cui le due evocate dal rimettente quali tertia comparationis: – l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che ammette il detenuto padre alla misura, strutturalmente analoga, della detenzione domiciliare “ordinaria” nel caso di decesso o assoluta impossibilità della madre a far fronte alla propria responsabilità genitoriale, senza richiedere l’ulteriore condizione dell’assenza di altre persone in grado di prendersi cura dei figli; e – l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che stabilisce tra l’altro il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere a carico del padre del figlio di età non superiore a sei anni, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, in presenza delle medesime condizioni previste dall’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.
In particolare, il primo tertium è certamente omogeneo rispetto alla disciplina ora censurata, come la medesima Consulta ha più volte sottolineato, evidenziando l’identità di ratio della detenzione domiciliare “ordinaria” e speciale, allorché siano disposte in funzione della cura dei figli minori o con disabilità (ex multis, sentenze n. 30 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 18 del 2020, punto 3.3. del Considerato in diritto).
Orbene, a fronte di ciò, per il Giudice delle leggi, la sola circostanza, che i condannati ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare speciale debbano scontare una pena detentiva (anche residua) più lunga rispetto a quelli ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare “ordinaria”, vale a giustificare il sacrificio addizionale imposto a soggetti estranei rispetto al reato (i figli minori del condannato). Per effetto della disposizione censurata, invero, essi si vedono attualmente, senza eccezioni, privati della possibilità di vivere una relazione continuativa con l’unico genitore ancora in vita, o comunque in condizioni di assolvere le proprie responsabilità di cura.
Al contrario, per la Consulta, ciò che resta fondamentale è, piuttosto, l’attento accertamento, da parte del giudice della sorveglianza, con il necessario supporto dei servizi sociali, non solo che il padre condannato non manifesti «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (e di fuga, nelle ipotesi del comma 1-bis), ma altresì che il ripristino della convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi, alla cui tutela è finalizzata la misura alternativa in esame; e che tale rispondenza sia poi concretamente verificata durante l’esecuzione della misura, attraverso i controlli stabiliti dall’art. 284, comma 4, cod. proc. pen. (richiamato dal comma 3 dell’art. 47-quinquies ordin. penit.), nonché dal comma 5 dello stesso art. 47-quinques ordin. penit., e ciò al fine, in particolare, di evitare ogni impropria strumentalizzazione dei minori al solo scopo di ottenere il beneficio da parte di un padre in realtà non idoneo alla cura degli stessi.
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
4. Conclusioni: illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, legge n. 354 del 1975, limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»
Fermo restando che l’art. 47-quinquies, co. 7, legge, 26 luglio 1975, n. 354, prima che intervenisse la Consulta nel caso di specie, prevedeva che la “detenzione domiciliare speciale può essere concessa, alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”, per effetto della pronuncia qui in commento, essendo state espunte, all’interno di tale dettato normativo, le parole “e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”, ne discende che adesso è possibile concedere la detenzione domiciliare speciale, alle medesime condizioni riconosciute alla madre, pure al padre detenuto nel caso di decesso della madre o nell’ipotesi di impossibilità di costei a provvedere alla cura e all’assistenza dei figli.
Non è più invece richiesta l’ulteriore condizione venuta meno, come appena visto, alla luce di quanto statuito nella decisione qui in esame, ossia l’impossibilità di affidare la prole ad altri che al padre.
Questa è dunque l’importante modifica normativa introdotta dalla pronuncia qui in commento.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento