Dalla violenza alla responsabilità regressiva nella sfiducia

Scarica PDF Stampa

“Per questo la critica incisiva e il pensiero non regolamentato sono destabilizzanti, mentre restano leciti ed esaltati i discorsi puramente tecnici, settoriali” (Bodei, La filosofia del novecento, 82-83)

Lo sprofondare delle illusioni sulla fiducia in un progresso illimitato dal radioso futuro della “bella epoque” nei gorghi fangosi della Grande Guerra, creò le premesse attraverso la manifestazione delle sofferenze imposta dall’uso della meccanica e della chimica alle tragedie che si sarebbero manifestate per tutto il corso del ‘900, dove la vita umana sarebbe diventata semplicemente numeraria sottoposta alla creazione di nuovi idoli pagani; la violenza nell’essere premessa di ulteriore violenza si reggeva nel culto di una responsabilità negativa tesa alla distruzione di gruppi di oppositori, la fiducia artificialmente creata altrettanto velocemente diventa sfiducia e cinismo.

Il culto delle rappresentazioni violente tende a creare assuefazione e  giustificazione morale per l’uso di ulteriore violenza, come la responsabilità può essere intesa in termini positivi e quindi cooperativi ma altrettanto negativamente come sua negazione, rifiuto di essere coinvolti rifacendosi a puri aspetti formali, sì che la fiducia nell’uso della violenza si risolve in una sfiducia sociale pervasiva.

L’esaltazione della violenza quale forza creatrice del nuovo, che nel distruggere le vecchie strutture sociali ormai stantie permette la nascita di nuove forze (Sorel), non può negare l’aspetto più propriamente neurobiologico della violenza esercitata con costanza nel tempo, come la meditazione viene ad attivare determinate aree del cervello riorientandole e creando nuovi collegamenti sinapsici (Ricard, Lutz, Davidson), altrettanto avviene con la violenza che determina sia una modifica fisiologica che psicologica, si crea pertanto, se non imposta e mantenuta in termini repressivi, una responsabilità regressiva nel non assumersi responsabilità attive senza adeguati utili a breve termine, la sfiducia che si crea nei rapporti viene a riflettersi nelle strutture sociali dove segue uno scollamento e una lotta per gruppi tribali, una sostanziale incapacità di cooperazione spontanea nella comunità, avviene sull’individuo una doppia azione sia da parte dell’architettura sociale in cui agisce che del luogo in cui impatta e delle forze che in quel momento in esso agiscono, vi è in altri termini il recupero della forma quale anima aristotelica di tutti i soggetti viventi (Ingber) .

La violenza è insita quale parte del processo di passaggio dal localismo al processo globale di mutamento, dove subisce una trasformazione da  fisicamente diretta all’immaterialità indiretta in una ulteriore sofisticazione del processo kafkiano, creando “conflitti privati nell’esistenza e nella psicologia di milioni di persone, che sperimentano su se stesse la potenza e l’incidenza degli eventi collettivi” (Bodei) , ma la demoralizzazione è nella violenza che R. Luxenburg definisce nell’allora immaginario politico del nuovo: “regno del terrore” (1917), essa si radica anche nei bisogni più intimi dell’uomo di sicurezza, identità, famiglia, patria dove, come osserva Bloch, un multiversum di dislivelli crea un processo non lineare in cui i bisogni sopra enunciati fanno riemergere, come nel nazionalismo, pulsioni arcaiche di un uomo primitivo ancora ancorato alla sua savana, una volta disvelata nella sua essenza, priva della propaganda, annichilisce il sorgere di desideri collettivi riducendoli all’individualità.

La violenza rientra in economia, in quella che è definita come una distruzione creativa propria dei cicli economici di cui Schumpter individua una causa nell’introduzione a grappoli di innovazioni tecnologiche, che nel permettere vigorose espansioni contengono in sé le premesse di future recessioni necessarie al riequilibrio del flusso circolare, tuttavia il prolungarsi delle crisi da elemento di premessa creativa si trasforma nell’accettazione esistenziale di una violenza diffusa quale sistema di sopravvivenza, tale da potere sfociare nella caoticità economica e al probabile successivo blocco nell’incapacità di una mediazione politica e quindi culturale  necessaria, tuttavia a  questo stadio la stessa violenza diventa uno strumento politico di controllo non solo e tanto diretto quanto indiretto, attraverso la modifica della visione del mondo e la creazione di una nuova scala gerarchica in cui l’informazione acquista nuove letture e nuovi valori.

 

BIBLIOGRAFIA

  • D. E., Ingber, L’architettura della vita, in Le Scienze, n. 355, 3/1998;
  • M. Ricard, A. Lutz, R. J. Davidson, La mente che medita, in Le Scienze, n. 557, 7/2015;
  • R. Bodei, La filosofia del novecento. Donzelli ed. 2006;
  • E. Bolch, Principio speranza, Garzanti 1994;
  • R. Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi, 1975.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento