Cosa comprende il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell’art. 649-bis c.p., ai fini della procedibilità d’ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo

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 (Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 649-bis)

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Il fatto

Con sentenza il Tribunale di Cosenza dichiarava non doversi procedere nei confronti di un imputato per il delitto di appropriazione indebita continuata, aggravata dall’abuso di relazioni di prestazione di opera (art. 61 c.p., n. 11) e dalla recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale, per essere il reato estinto per remissione di querela.

In particolare, all’imputato si contestava di essersi appropriato, in tempi diversi, della merce di campionario di proprietà di una società abusando della sua qualità di sub-agente.

Ciò posto, il Tribunale, dopo la costituzione delle parti e l’apertura del dibattimento, rilevato che il delitto contestato all’imputato non era più perseguibile d’ufficio per effetto del nuovo regime di procedibilità a querela introdotto dal D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, preso atto che nel fascicolo dibattimentale era presente verbale di remissione di querela, sottoscritto dalla persona offesa, e che la remissione era stata accettata dall’imputato, pronunciava sentenza di improcedibilità dell’azione penale.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale decisione proponeva ricorso immediato per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata per violazione degli artt. 646649-bis c.p. rilevandosi a tal proposito che il D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, art. 10, ha effettivamente esteso a tutte le fattispecie di appropriazione indebita il regime di procedibilità a querela ma l’art. 11 dello stesso decreto ha contestualmente introdotto l’art. 649-bis c.p., contenente deroghe al regime di procedibilità a querela, laddove stabilisce che, per i fatti perseguibili a querela previsti dall’art. 640 c.p., comma 3 e art. 640-ter c.p., comma 4, e per i fatti di cui all’art. 646 c.p., comma 2 o aggravati dalle circostanze di cui all’art. 61 c.p.,, comma 1, n. 11, si procede d’ufficio qualora ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale.

Orbene, il ricorrente osservava come nel caso di specie si fosse proceduto per appropriazione indebita aggravata dall’abuso di prestazioni d’opera e dall’essere l’imputato recidivo reiterato, specifico, infraquinquennale.

Secondo il ricorrente, nel dettaglio, la contestazione di questa forma di recidiva che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, è una circostanza aggravante speciale e comporta un aumento di pena superiore ad un terzo, determina la procedibilità d’ufficio del reato in esame.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza la Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, lo rimetteva alle Sezioni Unit, ravvisando la genesi di un contrasto sull’interpretazione dell’art. 649-bis c.p. e sulla riconducibilità della recidiva qualificata (art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4) alla categoria delle aggravanti ad effetto speciale che rendono procedibili d’ufficio taluni reati contro il patrimonio (art. 640 c.p., comma 3; art. 640-ter c.p., comma 4; fatti di cui all’art. 646 c.p., comma 2, o aggravati dalle circostanze di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 11).

L’ordinanza osservava a tal riguardo come il tema del rapporto tra procedibilità e recidiva avesse già dato luogo in passato a soluzioni divergenti tanto da rendere necessario l’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 3152 del 31 gennaio 1987, a componimento del contrasto, avevano affermato il principio di diritto che “la recidiva non è compresa nelle circostanze aggravanti che rendono il reato di truffa perseguibile d’ufficio, in quanto essa, inerendo esclusivamente alla persona del colpevole, non incide sul fatto-reato”.

Questa interpretazione, a sua volta, osservava la sezione remittente, era stata avallata da successive pronunce, anche posteriori alle rilevanti modifiche in tema di recidiva apportate dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 (Sez. 2, n. 1876 del 19/11/1999; Sez. 2, n. 26029 del 10/06/2014; Sez. 2, n. 29529 del 01/07/2015; Sez. 2, n. 2990 del 01/10/2015; Sez. 2, n. 18311 del 28/01/2016; Sez. 2, n. 38396 del 29/04/2016; Sez. 7, n. 42880 del 26/09/2016; Sez. 2, n. 1907 del 20/12/2016; Sez. 2, n. 47068 del 21/09/2017; Sez. 5, n. 30453 del 01/04/2019 e Sez. 6, n. 35880 dell’11/07/2019, le ultime due pronunciate in tema di minaccia grave, realizzata da soggetti ai quali era stata contestata ed applicata la recidiva qualificata) tenuto altresì conto di come tali decisioni evidenziassero la forte connotazione “soggettivistica” della recidiva che, in quanto tale, non incide sul fatto-reato, sulla sua gravità oggettiva e, quindi, non rientra tra le circostanze aggravanti che rendono procedibile d’ufficio un delitto che, nella sua forma semplice, è procedibile a querela oltre al fatto che la riforma della recidiva attuata con la L. n. 251 del 2005 ha acuito i connotati personalistici della recidiva rendendo ancor più peculiare il suo regime e da distinguerlo da quello delle altre circostanze aggravanti sulle quali si radica la ratio della procedibilità d’ufficio.

Ebbene, a fronte di ciò, il Collegio rimettente dubitava della perdurante validità di tale principio in rapporto al nuovo art. 649-bis c.p. che fa espresso riferimento, ai fini della procedibilità d’ufficio di alcuni reati, alle “circostanze aggravanti ad effetto speciale“, categoria in cui pare debba essere ricompresa la recidiva qualificata dopo la ricca elaborazione di principi enunciati dalla Corte costituzionale e i plurimi interventi delle Sezioni unite che hanno dato luogo ad un vero e proprio “diritto vivente”.

In relazione a quanto appena esposto, si richiamava, inoltre, a sostegno di questa prospettiva esegetica, due recenti decisioni (Sez. 7, n. 11440 del 24/09/2019; Sez, 2, n. 17281 del 08/01/2019) che avevano attribuito rilievo alla recidiva qualificata quale circostanza aggravante ad effetto speciale determinante la procedibilità d’ufficio, tra l’altro, del reato di appropriazione indebita.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

 

Prima di entrare nel merito della questione sottoposta al loro vaglio giudiziale, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “se il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale, contenuto nell’art. 649-bis c.p. ai fini della procedibilità d’ufficio per taluni reati contro il patrimonio, vada inteso come riguardante anche la recidiva qualificata di cui all’art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4”.

Premesso ciò, gli Ermellini facevano innanzitutto presente che il D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36 aveva tradotto in regole operative le direttive fissate dalla legge delega n. 103 del 2017, ponendo mano al comparto dei reati a tutela della persona e del patrimonio previsti dal codice penale, per introdurre il nuovo regime di procedibilità a querela in luogo di quello officioso previgente.

In particolare, accanto alla sfera dei reati contro la persona attinta dalla riforma (D.Lgs. cit., artt. 2-6), la tecnica di selezione delle fattispecie perseguibili a querela nell’ambito dei reati contro il patrimonio ha riguardato i delitti di truffa (art. 640 c.p.), di frode informatica (art. 640-ter c.p.) e, per quello che più interessa, la fattispecie di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), rispetto alla quale resta ferma la procedibilità a querela anche in quelle situazioni che, in passato, determinavano la procedibilità d’ufficio, quali la realizzazione del delitto su cose possedute a titolo di deposito necessario (art. 646 c.p., comma 2) ovvero con abuso di autorità o di relazioni domestiche o, ancora, con abuso di relazioni di ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità (art. 61 c.p., comma 1, n. 11).

Detto questo, si evidenziava però che l’area della procedibilità a querela subisce una rilevante limitazione in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale in quanto i nuovi artt. 623-ter e 649-bis c.p., introdotti, rispettivamente, del D.Lgs. cit., artt. 7 e 11, dispongono la procedibilità ex officio in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale.

Nella Relazione illustrativa del D.Lgs. n. 36 del 2018, invero, osservavano le Sezioni Unite nella decisione qui in commento, si legge che l’ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela è teso a migliorare l’efficienza del sistema penale e “costituisce un punto di equilibrio e di mediazione fra due opposte esigenze: da un lato, quella di evitare che si determinino meccanismi repressivi automatici in ordine a fatti che non rivestono particolare gravità, tali da ostacolare il buon governo dell’azione penale in riferimento a quelli seriamente offensivi; dall’altro quello di fare emergere e valorizzare l’interesse privato alla punizione del colpevole in un ambito di penalità connotato dall’offesa a beni strettamente individuali. In tale ultimo caso, il ricorso alla procedibilità a querela dipende principalmente dalla necessità di condizionare la repressone penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto della sua gravità da parte della persona offesa. In questi casi, la procedibilità a querela funziona come indicatore della concreta intollerabilità di singoli episodi conformi alla fattispecie incriminatrice” rilevandosi al contempo che in tale relazione si nota altresì che, ampliando l’area della procedibilità a querela, si può ottenere anche l’effetto aggiuntivo, “parimenti importante in una logica di riduzione dei carichi processuali, di favorire meccanismi conciliativi, che spesso si concludono proprio nelle fasi preliminari del giudizio, quando si avverte più impellente l’esigenza di evitare l’aggravio e il pericolo del processo, prima ancora che della condanna”.

In relazione a reati che già prevedono la procedibilità a querela nelle ipotesi base, il legislatore ha quindi provveduto a ridurre il novero delle circostanze aggravanti alla cui ricorrenza è collegato l’effetto della procedibilità d’ufficio (ad esempio art. 612 c.p.) così come il medesimo obiettivo di riduzione dei presupposti della procedibilità d’ufficio è stato perseguito per i reati contro il patrimonio: truffa (art. 640 c.p.) e frode informatica (art. 640-ter c.p.).

Quanto al contenuto specifico dei singoli articoli, per il Supremo Consesso, di particolare importanza, ai fini che qui interessano, è l’art. 10, che estende il regime della procedibilità a querela anche alle ipotesi aggravate del reato di appropriazione indebita, relative al fatto commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità. In tali ipotesi assumono rilevanza interessi e relazioni di carattere strettamente personale per le quali la perseguibilità della relativa offesa non può che essere rimessa a una iniziativa del soggetto privato mentre l’art. 11 prevede la conservazione della procedibilità d’ufficio nei casi in cui ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale “tra cui, la finalità di terrorismo e di eversione di cui al D.L. n. 625 del 1979, art. 1, di mafia di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 o di discriminazione razziale, etnica e religiosa di cui al D.L. n. 122 del 1993, art. 3” (cfr. in tal senso la Relazione illustrativa).

Ciò posto, i giudici di piazza Cavour denotavano come l’ordinanza di rimessione nel suo sviluppo argomentativo mostrasse di condividere l’assunto da cui muoveva il ricorso atteso che l’appropriazione qualificata da aggravante ad effetto speciale è perseguibile d’ufficio così come la recidiva qualificata, prevista nelle ipotesi di cui ai art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4 è una circostanza aggravante ad effetto speciale, in quanto comporta un aumento della pena superiore ad un terzo (art. 63 c.p., comma 3), come peraltro espressamente affermato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 20798 del 24.2.2011.

Il Collegio rimettente rileva, però, che nella giurisprudenza di legittimità formatasi dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 36 del 2018 la questione proposta non risultava essere stata risolta con una motivazione che si fosse fatta carico di affrontare tutti i nodi problematici della questione e che dal panorama delle pronunce di legittimità potevano evincersi due differenti linee interpretative che scaturivano a loro volta da diverse concezioni in ordine alla natura giuridica della recidiva ed ai peculiari meccanismi accertativi e valutativi ad essa sottesi.

Difatti, un primo filone giurisprudenziale trova espressione in una pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 3152 del 31/01/1097) che ha affermato il principio secondo il quale la recidiva non è compresa nelle circostanze aggravanti che rendono il reato di truffa perseguibile d’ufficio, perchè, inerendo esclusivamente alla persona del colpevole, non incide sul fatto-reato.

In relazione a tale approdo ermeneutico, gli Ermellini facevano presente come l’ordito motivazionale, che sorregge l’enunciazione di tale principio di diritto, muove dalla modifica dell’art. 640 c.p., introdotta dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 98, che aveva aggiunto il seguente comma: “Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante” fermo restando che, sin dalle prime applicazioni del suddetto comma, la giurisprudenza di legittimità aveva assunto due opposti orientamenti in ordine alla inclusione della recidiva fra le circostanze aggravanti indicate nella nuova disposizione.

Il problema, come indicato nella citata sentenza n. 3152, era quello di qualificare o meno la recidiva, al fine della perseguibilità di ufficio del reato di truffa, quale “circostanza aggravante“.

Sul punto le Sezioni Unite, nella decisione appena citata, rilevavano che il codice penale si occupa della recidiva non nella parte che riguarda il reato ma in quella che si riferisce al reo e, precisamente, nel Capo secondo del Titolo quarto del Libro primo, dedicato anche alla abitualità e alla professionalità nel reato, ossia a quelle condizioni personali alle quali più si avvicina la condizione del recidivo il che, ad avviso delle Sezioni Unite, è coerente con il rilievo che “la recidiva qualifica il soggetto, ma resta del tutto estranea alla fattispecie legale, comunque circostanziata, del reato posto che essa, a differenza di altre condizioni personali che incidono sulla tipicità del reato (ad esempio: la qualifica di pubblico ufficiale per i reati di concussione, abuso innominato di ufficio, ecc.), incide esclusivamente sulla quantità della pena da infliggere in concreto, alla stessa stregua delle condizioni economiche previste dall’art. 133-bis c.p.” fermo restando che, della diversità della recidiva rispetto alle altre circostanze, comuni e speciali, si annota nella predetta sentenza, è stato ben consapevole il legislatore del 1930, che ha escluso la recidiva dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. in base alla considerazione (cfr. Relazione al progetto definitivo del codice penale) che le circostanze inerenti alla persona del colpevole, ossia l’imputabilità e la recidiva, “escono, per così dire, fuori dal quadro della equivalenza o della prevalenza, essendo del tutto eterogenee rispetto alle altre circostanze comuni e speciali” e che “le regole sulla prevalenza e sulla equivalenza sono applicabili soltanto in quanto si rimanga nel campo delle vere e proprie circostanze che modificano esclusivamente la quantità del reato, rappresentandone una accidentalità, una modalità, una causalità” fermo restando che, coerentemente, anche in tema di concorso di persone nel reato, il legislatore ha riservato alle circostanze inerenti alla persona del colpevole una valutazione diversa rispetto alle altre circostanze soggettive (art. 118 c.p. nel testo ratione temporis vigente).

Sempre secondo asserito in questa pronuncia, inoltre, la riforma del 1974 non ha smentito il fondamento della originaria distinzione operata dal legislatore avendo semplicemente eliminato l’evidente antinomia tra il fine del giudizio di bilanciamento, rivolto all’individualizzazione del trattamento punitivo, tenendo anche conto “della particolare personalità del reo considerata sotto ogni aspetto sintomatico”, e la rigida limitazione di tale giudizio ad una valutazione complessiva del disvalore materiale del fatto e, sulla base di tali considerazioni la sentenza giungeva alla conclusione che la recidiva “è una “circostanza aggravante” sui generis, che ha rilevanza solo quando sia presa in considerazione la misura della pena, mentre non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato, al quale resta estranea”.

La sentenza de qua, tra l’altro, percorreva anche un ulteriore e convergente itinerario argomentativo individuando la ratio della perseguibilità a querela del reato di truffa nei suoi sottostanti aspetti civilistici che divengono recessivi rispetto agli interessi pubblicistici nel caso in cui ricorra una circostanza aggravante osservandosi a tal proposito che le ragioni della procedibilità a querela del reato di truffa, introdotta dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 98, fossero state puntualmente evidenziate dalla Corte costituzionale nella ordinanza n. 294 del 1987 nella quale si era sottolineato che la L. n. 689 del 1981 non soltanto ha tenuto conto della non rilevante gravità degli illeciti per i quali si è introdotto il regime della perseguibilità a querela ma ha dato rilievo decisivo alla finalità di conseguire, anche per questa via, una significativa deflazione dei carichi giudiziali, ritenuta necessaria per l’effettiva funzionalità della giustizia penale e, a tale esigenza, si affianca, come si legge nella Relazione di accompagnamento alla legge, quella “di evitare che l’azione penale venga iniziata o proseguita, senza o addirittura contro la volontà di coloro che per essere i titolari degli interessi meritevoli di maggiore protezione sono abilitati a chiedere l’intervento del giudice penale”. Proprio in tale prospettiva, in tale arresto giurisprudenziale, si evidenziava come il legislatore avesse, comunque, voluto escludere dalla punibilità a querela anzitutto il reato di truffa aggravato ai sensi del capoverso dell’art. 640 e, cioè, il caso in cui il fatto assuma la tipicità descritta dalla norma stessa, equiparandovi poi, in seconda battuta, anche le altre circostanze aggravanti.

“La rimarcata equiparazione”, afferma la sentenza n. 3152, in effetti, “deve fare ritenere che il legislatore abbia voluto includere solo le circostanze che, come quelle previste dal capoverso dell’art. 640, incidono sulla quantità del fatto”, ritenendo, per contro, “indifferente la misura della pena” derivante dall’applicazione delle circostanze stesse”.

A queste considerazioni logico-giuridiche, ritenute decisive, sempre siffatta pronuncia ne aggiungeva altre, tutte conducenti alla medesima conclusione.

In particolare, dal momento che non si riscontrano precedenti ipotesi di perseguibilità d’ufficio per effetto della sola aggravante della recidiva, si considerava come sarebbe contraddittorio ritenere che il legislatore avesse voluto attribuire tale effetto alla recidiva nel momento stesso in cui ha ampliato il campo della procedibilità dell’azione penale a querela della persona offesa proprio in relazione al reato di truffa “che, nella forma semplice, il legislatore ha voluto escludere dalla punibilità d’ufficio in considerazione dei suoi aspetti civilistici, i quali non vengono certo alterati dalle condizioni personali del reo”.

Il principio della estensione della querela a tutti i concorrenti, affermato dall’art. 123 c.p., “postula che il reato debba essere individuato sulla base della sua astratta struttura oggettiva, sia in relazione agli elementi costitutivi sia in relazione a quelli accidentali, con nessuno dei quali può identificarsi la condizione personale di recidivo di un singolo compartecipe”.

Infine, sarebbe assurdo sottrarre la perseguibilità penale al potere dispositivo della persona offesa in base ad una mera presunzione di maggiore capacità a delinquere del recidivo la quale può essere esclusa, in concreto, dal giudice del dibattimento.

Ciò posto, si notava inoltre come il principio affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata sia stato espressamente richiamato e condiviso da altre e più recenti pronunce di seguito indicate che, ad eccezione della prima di esse, sono successive alle rilevanti modifiche in tema di recidiva apportate dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 e a due decisioni delle Sezioni unite (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010; Sez. U, n. 20798 del 24/2/2011).

In particolare, la Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 1876 del 19/11/1999, nel ribadire l’orientamento espresso nella sentenza n. 3152, ha affermato che la recidiva è un’aggravante che inerisce esclusivamente alla persona autrice del fatto e non può comunicarsi agli altri compartecipi poichè non incide sul fatto-reato, sulla sua natura e sulla sua gravità oggettiva e, pertanto, non assume rilievo ai fini del regime di procedibilità.

Una seconda e più recente pronuncia (Sez. 2, n. 26029 del 10/06/2014), dal canto suo, nel fare proprio il principio di diritto espresso dall’arresto giurisprudenziale succitato, osservava che la ratio del particolare regime di procedibilità prescelto dal legislatore per il delitto di truffa deve essere ricercata anche nella rilevanza degli aspetti civilistici sottesi a tale reato i quali, però, in presenza di circostanze aggravanti, non possono prevalere sugli interessi pubblicistici tenuto conto altresì del fatto che la truffa è un reato che ha valenza meramente intersoggettiva lesivo di un interesse prevalentemente privato e da qui la logica della avulsione di una aggravante sui generis, come la recidiva, dal novero di quelle per le quali si giustificherebbe il regime di procedibilità ex officio.

Oltre a ciò, veniva fatto presente come tale decisione argomentava anche sulla circostanza che tale approdo interpretativo è da “condividere e ribadire anche alla luce delle più recenti disposizioni dettate dalla L. n. 251 del 2005 le quali hanno acuito i connotati “personalistici della recidiva”, rendendone ancor più peculiare il relativo regime”.

La recidiva – si legge nella citata sentenza – è una “circostanza senz’altro “speciale” rispetto a quelle che “ordinariamente” sono chiamate a qualificare in termini di maggior disvalore il fatto-reato” ma, d’altra parte, si aggiunge, “il carattere ordinariamente “facoltativo” della recidiva che continua a contraddistinguere la recidiva (…) e che impone al giudice di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore e di escludere l’aumento di pena, con adeguata motivazione sul punto, ove non ritenga che dal nuovo delitto possa desumersi una maggiore capacità delinquenziale, induce a concludere nel senso che una siffatta “circostanza” mal si presti a “giustificare” (sul piano non soltanto logico ma anche sistematico) la trasformazione della procedibilità in quella officiosa”.

Orbene, le Sezioni Unite osservavano come questa interpretazione sia stata seguita da altre pronunce (Sez. 2, n. 29529 del 01/07/2015; Sez. 2, n. 2990 del 01/10/2015; Sez. 2, n. 18311 del 28/01/2016; Sez. 2, n. 38396 del 29/04/2016; Sez. 7, n. 42880 del 26/09/2016; Sez. 2, n. 1907 del 20/12/2016; Sez. 2, n. 47068 del 21/09/2017) così come principi analoghi erano stati espressi da due pronunce relative al regime di procedibilità del delitto di cui all’art. 612 c.p. (Sez. 5, n. 30453 del 01/04/2019, e Sez. 6, n. 35880 dell’11/07/2019) commesso da soggetti ai quali era stata contestata ed applicata la recidiva qualificata fermo restando che tali decisioni, preso atto della nuova procedibilità a querela anche per il reato di minaccia grave, avevano ritenuto che la contestazione della recidiva qualificata non precluda l’applicabilità della nuova disciplina in tema di procedibilità del suddetto reato.

Ebbene, a fronte di tale orientamento nomofilattico, pur nell’assenza di decisioni che abbiano specificamente sviluppato argomentazioni a sostegno della contrapposta tesi favorevole alla incidenza della recidiva qualificata sulla procedibilità d’ufficio dei reati interessati dalla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 36 del 2018, la genesi di un diverso orientamento, ad avviso del Supremo Consesso, poteva trarsi da due decisioni che, in presenza della contestazione della recidiva qualificata ritenuta sussistente dal giudice, avevano ritenuto che tale circostanze aggravante ad effetto speciale determina la procedibilità d’ufficio del reato di appropriazione indebita (Sez. 7, ord. n. 11440 del 24/09/2019) e di truffa (Sez. 2, n. 17281 del 08/01/2019).

Nel dettaglio, l’orientamento contrario all’incidenza della recidiva sulla procedibilità d’ufficio si fonda sulla natura giuridica della recidiva intesa come aggravante “speciale” che non incide sulla gravità del fatto-reato a differenza di quelle che, “ordinariamente“, sono chiamate a qualificarlo in termini di maggior disvalore.

Precisato ciò, gli Ermellini rilevavano però come una ricostruzione sensibilmente differente della natura giuridica della recidiva sia stata oggetto di particolare valutazione da parte di altre e più recenti decisioni delle Sezioni Unite dalle quali, a loro avviso, potevano trarsi indicazioni utili anche sullo specifico versante della sua rilevanza sulla procedibilità del reato.

In linea con l’interpretazione elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, la natura di circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole ed il carattere discrezionale della recidiva, anche qualificata, invero, erano stati ribaditi con chiarezza dalla giurisprudenza di legittimità tanto che, secondo la Suprema Corte, può ritenersi ormai consolidato l’orientamento secondo il quale non può ritenersi conforme ai principi fondamentali in tema di ragionevolezza, proporzione e funzione rieducativa della pena enunciati dalla Costituzione una concezione della recidiva quale status soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.

Nel 2010, le Sezioni Unite avevano infatti precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e ad ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali e avevano ritenuto che solo qualora la recidiva venga apprezzata come indice di maggiore colpevolezza e pericolosità essa produce tutti i suoi effetti posto che, in tali ipotesi, la recidiva, oltre che “accertata” nei presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), è anche “ritenuta” dal giudice ed “applicata” (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010).

Una successiva decisione delle Sezioni unite (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011), a sua volta, aveva ricondotto la recidiva qualificata alla categoria delle circostanze aggravanti ad effetto speciale atteso che le ipotesi previste all’art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4 comportano un aumento della pena superiore ad un terzo nonché aveva confutato la concezione dell’istituto come status formale del soggetto in base al rilievo che la recidiva produce effetti unicamente ove il giudice non solo verifichi l’esistenza del presupposto formale desumibile dai precedenti penali ma proceda anche al riscontro sostanziale della “più accentuata colpevolezza” e della “maggiore pericolosità“.

La citata sentenza, in particolare, muoveva dalla premessa che le circostanze costituiscono lo strumento giuridico attraverso il quale il legislatore provvede ad adeguare la risposta sanzionatoria alla variabile gravità di fatti criminosi già tipici, correlata alla sussistenza di ulteriori elementi, predeterminati in via generale ed astratta attraverso la previsione legale delle singole e molteplici situazioni circostanziali richiamandosi, quindi, la partizione fra circostanze soggettive ed oggettive e quella fra circostanze definite, caratterizzate dalla descrizione legislativa della situazione circostanziante, e circostanze indefinite che, in assenza di tale compiuta indicazione, affidano al giudice la concreta valutazione degli elementi rilevanti ai fini della variazione della pena (cfr., ad esempio, l’art. 62-bis c.p.) nonchè l’ulteriore distinzione fra circostanze discrezionali ed obbligatorie le quali ultime, a fronte della realizzazione della fattispecie circostanziata, comportano inevitabilmente la variazione di pena.

Infine, sotto il profilo degli effetti applicativi, veniva menzionata la classificazione, delineata dall’art. 63 c.p., tra circostanze che comportano una variazione della pena stabilita per il reato di tipo frazionario, in misura non superiore a un terzo, e circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di “specie diversa” (v. art. 17 c.p.) da quella ordinaria del reato o “ad effetto speciale” intendendosi con tale ultima definizione quelle che comportano un aumento o una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo.

La sentenza, pur tuttavia, non disconosceva che l’istituto della recidiva è connotato da una marcata ambivalenza desumibile dalla stessa sistematica del codice penale ma, nel ripercorrere la complessa ed articolata elaborazione giurisprudenziale maturata dopo l’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, affermava che non è conforme ai principi generali di un moderno diritto penale, espressivo dei valori costituzionali, una concezione della recidiva quale status soggettivo correlato al solo e semplice dato formale della ricaduta nel reato dopo una previa condanna passata in giudicato che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione evidenziandosi che la recidiva, al pari di altri elementi la cui natura circostanziale non è posta in discussione, “esplica un’efficacia extraedittale” permettendo di fissare la sanzione finale oltre i limiti propri della comminatoria edittale e, al contempo, “assolve alla funzione di commisurazione della pena” adeguando la sanzione al fatto considerato sia nel suo obiettivo disvalore, sia nella relazione qualificata con il suo autore.

Sulla base di tali rilievi si giungeva alla conclusione che la recidiva è una circostanza pertinente al reato “che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale”.

Operando in tal guisa, si superava, pertanto, definitivamente l’orientamento interpretativo espresso dalle Sezioni Unite n. 3152 che, pronunziandosi in tema di procedibilità d’ufficio del delitto di truffa, avevano qualificato la recidiva come circostanza aggravante sui generis osservando che la stessa connota il soggetto ma resta del tutto estranea alla fattispecie, comunque circostanziata, del reato,e “non produce alcun effetto sulla quantità del fatto-reato”, assumendo rilevanza “solo quando sia presa in considerazione la misura della pena”.

Secondo quanto postulato nella sentenza n. 20798, l’orientamento fatto proprio dalla precedente decisione del 1987, “dilatando il richiamo alla personalità dell’agente oltre i limiti di immediata e diretta rilevanza per la valutazione dello specifico episodio, mal si concilia con un diritto penale del fatto, rispettoso del principio di colpevolezza fondato sulla valutazione della condotta posta in essere dal soggetto nella sua correlazione con l’autore di essa. Il giudizio sulla recidiva non riguarda l’astratta pericolosità del soggetto o un suo status personale svincolato dal fatto reato. Il riconoscimento e l’applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postulano, piuttosto, la valutazione della gravità dell’illecito commisurata alla maggiore attitudine a delinquere manifestata dal soggetto agente, idonea ad incidere sulla risposta punitiva – sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale – quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell’ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente” espressivo di una maggiore colpevolezza e di una maggiore pericolosità dell’autore del fatto.

Chiarita la natura della recidiva quale circostanza aggravante, sempre nell’arresto giurisprudenziale appena citato, si osservava che l’art. 69 c.p., nel regolare il concorso fra circostanze aggravanti ed attenuanti ai fini del trattamento sanzionatorio, annovera chiaramente la recidiva tra le circostanze ai fini del giudizio di bilanciamento.

Tale approdo esegetico è stato condiviso da una successiva decisione delle Sezioni Unite la quale ha ribadito che la recidiva costituisce “una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore” (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018).

Del resto, anche la Corte costituzionale, più volte intervenuta, a seguito della novella del 2005 in relazione al nuovo regime della recidiva, nel ricostruire i principi sottesi all’istituto, ne ha individuato il fondamento nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo. “Conformemente ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” (sentenza n. 192 del 2007) e tale orientamento ha trovato seguito in successive pronunce (ordinanze n. 409 del 2007, nonchè n. 33, 90, 193 e 257 del 2008, e n. 171 del 2009) con le quali si è definitivamente esclusa la conformità ai principi costituzionali di una lettura dell’art. 99 c.p. basata su qualsiasi forma di automatismo tale da elidere la discrezionalità del giudice.

Detto questo, le Sezioni Unite osservavano come l’adesione alla concezione della recidiva, quale circostanza aggravante, comporti il riconoscimento che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerta i requisiti costitutivi e la dichiara verificando, non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo da accertarsi discrezionalmente, con obbligo specifico di motivazione sia nel caso che venga riconosciuta sia nell’ipotesi che venga esclusa (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011; Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016) tenuto conto altresì del fatto che la recidiva deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri cioè quello di paralizzare un’attenuante impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010) dal momento che una norma può dirsi applicata “se concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso” Sez. U, n. 17 del 18/06/1991).

In tale prospettiva, all’atto del giudizio di comparazione, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, l’applicazione della recidiva si è già verificata perchè altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario (Sez. U. n. 31669 del 23/06/2016) in quanto la recidiva ha esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti in assenza delle quali la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena (Sez. U., n. 17 del 18/06/1991).

Ciò posto, i principi enunciati da queste Sezioni Unite sono stati ulteriormente sviluppati da Sez. U n. 20808 del 25/10/2018, in relazione all’ipotesi di subvalenza della recidiva rispetto ad una o più circostanze attenuanti all’esito del giudizio di comparazione ex art. 69 c.p..

La citata decisione, in effetti, osservava la Suprema Corte nella decisione qui in commento, ribadisce che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato se non per quegli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore, tanto sul piano normativo che su quello logico.

Del resto, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva atteso che, diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all’origine delle regole poste dall’art. 69 c.p. posto che quest’ultima disposizione indica chiaramente che esito del giudizio di bilanciamento non è la dissolvenza della circostanza subvalente – che in quanto fatto compiuto non può più essere negato – ma la paralisi del suo effetto più tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena (Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016).

Orbene, per le Sezioni Unite, le considerazioni sinora svolte consentivano di giungere alle seguenti conclusioni.

In primo luogo, si faceva presente che l’art. 649-bis c.p., ai fini della procedibilità d’ufficio, attribuisce specifico rilievo alle “circostanze aggravanti ad effetto speciale” visto che l’art. 12 preleggi, nel dettare le principali regole di interpretazione, dispone che nell’applicare la legge “non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” fermo restando che costituisce, ormai, un vero e proprio diritto vivente l’affermazione che la recidiva costituisce una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato e che la stessa, nella sua espressione “qualificata“, è una circostanza aggravante ad effetto speciale.

In secondo luogo, veniva osservato che la recidiva, ove ritenuta sussistente dal giudice, rientra, in quanto circostanza aggravante, nel giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti previsto dall’art. 69 c.p. in quanto il giudizio di equivalenza o di subvalenza della recidiva rispetto alle circostanze attenuanti nell’ambito del giudizio di bilanciamento ai sensi dell’art. 69 c.p. non elide la sussistenza della recidiva stessa e gli effetti da essa prodotti ai fini del regime di procedibilità e non rende il reato perseguibile a querela di parte, ove questa sia prevista per l’ipotesi non circostanziata (Sez. 2, n. 37482 del 06/06/2019; Sez. 5, n. 14648 del 12/02/2019; Sez. 5, n. 10363 del 06/02/2019; Sez. 2, n. 24754 del 09/03/2015).

Precisati tali profili di criticità di ordine giuridico, la Cassazione riteneva come rimanesse da verificare se la discrezionalità della valutazione giudiziale circa la sussistenza dei presupposti (sostanziali) della recidiva possa determinare ricadute negative sulla individuazione del regime di procedibilità e possa conciliarsi con le esigenze deflattive perseguite dal legislatore.

Ebbene, in relazione a tali quesiti, si evidenziava come una parte della dottrina, pur riconoscendo la natura circostanziale della recidiva, argomenti che essa non può incidere sul regime di procedibilità dovendo le deroghe all’obbligatorietà dell’azione penale fondarsi su dati certi e di tempestiva riscontrabilità.

La concreta possibilità di verificare la sussistenza del fondamento reale dell’aggravante ex art. 99 c.p. solo in una fase avanzata del processo, invero, rischia di introdurre una sorta di procedibilità d’ufficio “provvisoria” e sub iudice finendo inevitabilmente per affidare lo stesso esercizio dell’azione penale a criteri incerti e di natura sostanzialmente valutativo-prognostica e, a riprova di ciò, le Sezioni Unite denotavano, a titolo esemplificativo, che il pubblico ministero, prima di scegliere se dare avvio al procedimento, dovrebbe pronosticare se l’esistenza di precedenti penali di cui non è sufficiente la mera formale ricorrenza possa essere ritenuta, in sede giudiziale, indice di maggiore colpevolezza e di più accentuata pericolosità fermo restando che tutto questo viene ritenuto incompatibile con il carattere di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost..

Oltre a ciò, si notava come fosse stato altresì evidenziato che, qualora la valutazione giudiziale abbia esito negativo, il risultato non potrà che essere quello di dichiarare “non doversi procedere” per l’eventuale mancanza della querela ma solo a processo pressochè ultimato con frustrazione delle stesse finalità di deflazione dei carichi processuali che ha ispirato l’estensione dei casi di procedibilità a querela da parte del legislatore del 2017-2018, non dissimilmente da quello del 1981, fermo restando che altri Autori avevano rilevato, poi, che un effetto potenzialmente pregiudizievole per l’autore del reato, qual è la procedibilità di ufficio rispetto alla perseguibilità a querela, “non può farsi dipendere dalla previa contestazione” – pur necessaria “del solo presupposto formale” dato dalle (o dalla) precedenti condanne e che non appare plausibile che tale contestazione dia luogo ad una procedibilità d’ufficio provvisoria, suscettibile di lasciare eventualmente il passo, a giudizio del tutto (o pressochè) ultimato, ad una riemergente perseguibilità a querela atteso che esiste una sostanziale incommensurabilità tra il giudizio discrezionale su cui si fonda l’accertamento della recidiva e quello – preventivo ed astratto, a carattere legale e non giudiziale – riguardante la gravità “tipizzata” del reato che deve fondare il regime di procedibilità.

Con riguardo alle sollevate perplessità le Sezioni Unite ritenevano necessario ricordare come la Corte costituzionale avesse più volte affermato, con specifico riguardo alla perseguibilità a querela costituente, nel nostro ordinamento, una deroga alla obbligatorietà dell’azione penale che la scelta delle forme di procedibilità coinvolge la politica legislativa e deve, quindi, rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore, presupponendo bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità (cfr., ex plurimis, ord. n. 324 del 2013; n. 91 del 2001; n. 354 del 1999; n. 204 del 1988; n. 294 del 1987; sent. n. 274 del 1997; n. 7 del 1987; n. 216 del 1974).

Sempre la Corte costituzionale, tra l’altro, aveva, inoltre, osservato che la scelta legislativa di escludere l’influenza del giudizio di comparazione tra le circostanze sul regime di procedibilità del reato, operata nell’ambito della disciplina generale che regola il regime di valutazione delle circostanze, non è da considerare arbitraria (ord. n. 354 del 1999).

La natura della recidiva quale circostanza del reato rende, inoltre, evidente, per la Suprema Corte, che, in presenza della sua contestazione, il giudice, chiamato a valutarne la sussistenza, compie un giudizio ontologicamente identico a quello che effettua in rapporto ad altre circostanze del reato e, in quanto investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione.

La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, sia pure con riguardo all’istituto della prescrizione, aveva avuto modo di escludere potenziali aspetti di frizione fra la previsione di un regime differenziato per il soggetto recidivo ed i principi desumibili dalla Costituzione in considerazione del maggior allarme sociale provocato dal comportamento di chi, rendendosi autore di reiterate condotte criminose, mette maggiormente a rischio la sicurezza pubblica (Sez. 2, n. 31811 del 02/07/2015, omissis; Sez. 5, n. 31064 del 02/11/2016, dep. 2017, omissis; Sez. 5, n. 57694 del 05/07/2017, omissis; Sez. F, n. 38806 del 27/07/2017, omissis).

Orbene, all’obiezione che la necessaria certezza processuale verrebbe a dipendere da una provvisoria contestazione, su base meramente formale, della recidiva, destinata magari in seguito a venire meno in ragione della valutazione del giudice, per le Sezioni Unite, era possibile rispondere che la questione coinvolgeva non solo la recidiva, contestata dal pubblico ministero e successivamente ritenuta insussistente dal giudice, ma, allo stesso modo, qualsiasi altra aggravante che abbia incidenza sulla procedibilità in quanto tali situazioni trovano una risposta fisiologica in sede processuale, ove l’art. 129 c.p.p., impone, in ogni stato e grado del procedimento, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità fra le quali rientra anche la mancanza di una condizione di procedibilità mentre, in ordine alla ventilata frustrazione delle finalità deflattive, secondo il Supremo Consesso, non può che richiamarsi la Relazione illustrativa del D.Lgs. n. 36 del 2018 in cui viene affermato che l’art. 11 prevede la conservazione della procedibilità d’ufficio per i reati contro il patrimonio oggetto dell’intervento normativo nei casi in cui ricorrano “circostanze aggravanti ad effetto speciale“, categoria questa che, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, ricomprende indubbiamente la recidiva qualificata.

Da ultimo, l’obiezione che la rilevanza della recidiva qualificata ai fini della procedibilità del reato verrebbe ad incidere sulle posizioni dei coimputati, i quali si troverebbero ad essere assoggettati a un diverso regime di procedibilità per un fatto a loro totalmente estraneo, per la Cassazione, è del tutto superata alla luce della riformulazione dell’art. 118 c.p. secondo cui le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono.

Tal che se ne faceva conseguire che la perseguibilità d’ufficio opererebbe solo nei confronti dei coimputati recidivi considerato che essa è una circostanza aggravante attinente alle condizioni e qualità personali del colpevole tenuto conto che una disciplina diversificata della procedibilità rispetto a coimputati del medesimo reato non è peraltro estranea al sistema penale.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo cui il riconoscimento giudiziale, con specifica motivazione, della sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale quale la recidiva qualificata, determina la procedibilità d’ufficio per i reati indicati nell’art. 649-bis c.p..

Alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, veniva pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell’art. 649-bis c.p., ai fini della procedibilità d’ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo, comprende anche la recidiva qualificata – aggravata, pluriaggravata e reiterata – di cui all’art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4“.

Conclusioni

La sentenza in esame è assai interessante in quanto in essa si afferma il principio di diritto secondo cui il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell’art. 649-bis c.p., ai fini della procedibilità d’ufficio, per i delitti menzionati nello stesso articolo, comprende anche la recidiva qualificata – aggravata, pluriaggravata e reiterata – di cui all’art. 99 c.p., commi 2, 3 e 4.

Tal che ne discende che il riferimento alle aggravanti speciali contenute nell’art. 649-bis c.p. che, come è noto, comporta la procedibilità d’ufficio per le ipotesi di reato ivi previste, deve intendersi comprensivo pure dell’ipotesi di recidiva contemplate dall’art. 99, c. 2, c. 3 e c. 4, c.p..

Tale decisione, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare se l’art. 649-bis c.p. sia applicabile o meno ove venga contestata la recidiva.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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