Cosa basta per la configurabilità del delitto di cui all’art. 659 c.p.?

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(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 659)

Indice:

Il fatto

Il Tribunale di Rieti condannava l’imputato, nella qualità di amministratore di una società in accomandita semplice, alla pena – riconosciute le attenuanti generiche – di euro seicento di ammenda per il reato di cui agli artt. 81 e 659 cod. pen. mentre alla costituita parte civile erano altresì liquidati il risarcimento del danno e le spese di giudizio.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato il difensore dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di legge in relazione agli artt. 6 par. 1 e 4 Cedu nonché 516 e 521 cod. proc. pen. essendo la condanna intervenuta per un fatto diverso (e segnatamente, la fattispecie delittuosa di cui al primo comma dell’art. 659 c.p., anziché del secondo comma); 2) violazione di legge in relazione all’art. 659 c.p. stante il fatto che, ad avviso del ricorrente, il semplice superamento del parametro acustico stabilito dalla legge non appariva costituire requisito sufficiente ad integrare la capacità di disturbo della pubblica quiete attesa la necessità di un’attitudine al disturbo di numero indeterminato di persone; 3) travisamento della prova visto che l’idoneità del rumore avrebbe dovuto essere accertato indistintamente e indipendentemente dalla singola eventuale lesione, essendo stato invece accertata dai testimoni l’irrilevanza, al riguardo, dell’apertura ovvero della chiusura del locale, trattandosi della zona più frequentata della città; 4) illegittimità dell’ordinanza in forza della quale il Tribunale aveva inteso genericamente ritenere la superfluità degli ulteriori testi in precedenza ammessi, consistenti in altri abitanti della zona, frequentatori del locale ovvero gestori altre attività esistenti nei pressi.

Sull’argomento vedasi:

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era ritenuto infondato per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito innanzitutto che, in ordine al primo motivo di impugnazione, la Corte di legittimità – proprio in fattispecie pressoché sovrapponibile – ha avuto modo di osservare che l’effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all’apprezzamento del giudice di merito il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull’espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015).

Ciò posto, si prendeva atto di come in realtà il primo Giudice avesse dato seguito ad indagini tecniche proprio in ragione degli esiti incerti dell’indagine istruttoria testimoniale, che si era risolta in definitiva nella contrapposizione tra le deposizioni rese dai testi rispettivamente introdotti dalle parti e nell’originaria conflittualità esistente tra parte civile ed imputato (sì da avere reso impraticabile ogni ipotesi di bonaria definizione della vicenda) e, pertanto, al riguardo, ad avviso del Supremo Consesso, alcuna indebita modifica dell’ipotesi di accusa risultava essere intervenuta nel corso del giudizio.

In ordine poi al secondo motivo di doglianza, si faceva presente come sia nozione comune che, in tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex multis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020), così come, del pari, è stato ricordato dalla parte civile nella memoria conclusiva che resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto stante la preclusione per la Corte di Cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito per cui  era stato ritenuto inammissibile il ricorso volto a sindacare proprio l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito circa la diffusività delle emissioni sonore e la loro idoneità ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, in relazione al reato di cui all’art. 659 cod. pen. (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018).

Al riguardo, si riteneva inoltre necessario osservare come in effetti la sentenza impugnata – quasi interamente costruita sulla trasposizione delle dichiarazioni del tecnico incaricato dei rilievi dell’Arpa – avesse dato ampio conto degli esiti degli accertamenti, nonché della situazione dei luoghi e della manifesta rumorosità dell’attività gestita dall’odierno ricorrente in relazione al vociare e agli schiamazzi provenienti dall’esercizio, che in definitiva si poneva come unica fonte del disagio per la parte civile ma non solo per questa, come è emerso dall’istruttoria orale e dalle stesse dichiarazioni del ricorrente, che aveva evocato anche una raccolta di firme organizzata contro di lui e la sua attività commerciale, rilevandosi contestualmente come, in tal senso, sia nozione ribadita che per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo indeterminato di persone e non solo a un singolo, anche se raccolte in un ambito ristretto, come, ad esempio in un condominio (cfr. Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013).

Orbene, a proposito di tale approdo ermeneutico, gli Ermellini consideravano le conclusioni complessivamente tratte dal Tribunale logiche laddove in definitiva era stato dato atto che anche i testi introdotti dalla difesa non avevano in realtà negato i rumori, limitandosi a ricondurli alle altre e diverse attività commerciali che nella zona – deputata in qualche modo alla movida reatina – si affacciavano, tenuto conto altresì del fatto che dette valutazioni, peraltro, erano state smentite dalle risultanze degli accertamenti tecnici che, a loro volta, avevano dato conto della maggiore distanza di tali attività e quindi della loro sostanziale ininfluenza rispetto all’immobile occupato dalla parte civile, tant’è che la sentenza impugnata – contrariamente ai rilievi del ricorrente – aveva parimenti ricordato come le misurazioni effettuate in momenti o periodi di chiusura del pub dell’imputato avevano fornito esiti del tutto opposti, né, sempre ad avviso dei giudici di piazza Cavour, rilevavano, per quanto di interesse, le considerazioni del ricorrente circa una diversa classificazione dell’area ai fini acustici, atteso che esse si erano limitate ad un auspicio futuro, legato alla destinazione della zona all’animazione e al divertimento serali nella città di Rieti.

Del pari, quanto al terzo motivo di censura, gli Ermellini notavano come sia stato già ribadito dalla Corte di Cassazione che risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica (Sez. 3, n. 14750 del 22/01/2020).

Orbene, in relazione al caso di specie, preso atto altresì della totale indisponibilità della parte civile ad accettare soluzioni di compromesso che la coinvolgessero (atteggiamento che aveva espressamente indotto il primo Giudice a particolare moderazione nel trattamento sanzionatorio e nella definizione delle statuizioni civili), per la Corte di legittimità, incombeva semmai comunque all’odierno ricorrente assumere autonome adeguate iniziative per adempiere all’obbligo di controllo della propria clientela e dette iniziative si erano concretizzate con la posa di ombrelloni che in qualche modo avrebbero dovuto separare l’area dell’esercizio pubblico dall’appartamento della parte civile, che ivi si affacciava e, dunque, per il Supremo Consesso, non illogicamente siffatta condotta non era stata ritenuta esimente, al pari dei blandi richiami alla moderazione rivolti alla clientela più rumorosa, tant’è che comunque il ricorrente risultava essere stato sanzionato anche in via amministrativa.

In relazione infine al quarto motivo di censura, veniva osservato, con rilievo all’evidenza assorbente, una volta fatto presente che la revoca dell’ordinanza ammissiva di testi della difesa, resa in difetto di motivazione sulla superfluità della prova, produce una nullità di ordine generale che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., con la conseguenza che, in caso contrario, essa è sanata (Sez. 6, n. 53823 del 05/10/2017), come, nella specie, ciò fosse stato correttamente rilevato dalla parte civile nella memoria di conclusioni mentre alcuna eccezione risultava essere stata sollevata in proposito all’udienza istruttoria, come si evinceva dalla lettura del verbale del Tribunale (cui la Cassazione aveva avuto accesso in ragione della natura processuale della questione).

In ogni caso, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, per vero il Giudice – senza suscitare reazioni processuali – aveva comunque ritenuto la superfluità della prova assumendo che le deposizioni dei restanti testi della difesa riguardavano i medesimi capitoli di prova.

Di conseguenza, a fronte di ciò, la violazione del diritto di difesa, sub specie di mancata ammissione delle prove dedotte, esigeva che ne fosse precisata la portata indicando specificamente le prove che l’imputato non aveva potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell’imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti ex art. 495 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015).

In definitiva, per la Corte di legittimità, il ricorrente – anche a tacere dell’assorbente rilievo processuale – non aveva comunque neppure specificato l’apporto probatorio che sarebbe stato arrecato dai testi non ammessi in quanto superflui, limitandosi ad affermare, in maniera all’evidenza apodittica, che l’emersione definitiva dei fatti avrebbe comportato una pronuncia di assoluzione per insussistenza del fatto.

Anche l’ultima doglianza proposta, pertanto, non appariva essere meritevole di accoglimento.

Ciò posto, alla stregua di quanto precede, l’impugnazione era stimata complessivamente infondata sotto tutti i profili, col conseguente rigetto del ricorso, e da ciò se ne faceva derivare quindi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, liquidate nei termini di cui al dispositivo.

Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito cosa basta per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659 c.p..

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma che, per la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo indeterminato di persone e non solo a un singolo, anche se raccolte in un ambito ristretto.

Di conseguenza, è sconsigliabile intraprendere una linea difensiva che, al contrario, deponga per l’insussistenza di siffatto illecito penale sol perché, per effetto della condotta prevista in seno all’art. 659, co. 1, c.p., non siano state interessate da questa condotta criminosa una vasta area ovvero un numero rilevante di persone.

Precisato ciò, il provvedimento in esame è del pari rilevante anche nella parte in cui, citandosi precedenti conformi, si postula che risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica.

E’ richiesto quindi al gestore di un pubblico esercizio adottare tutte le cautele necessarie per far si che una situazione di tal genere non si venga a verificare non potendo addurre, come esimente, il semplice fatto che i continui schiamazzi, causati dai clienti, non siano avvenuti dentro il locale, ma nelle adiacenze di esso.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a chiarire come e in che termini è applicabile codesta norma incriminatrice, non può che essere positivo.

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