Corte penale internazionale: richiesta di arresto per i leader di Hamas e Israele

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La richiesta di arresto al vaglio della Pre Trial Chamber della Corte penale internazionale formulata nei confronti dei leader di Hamas, gruppo terrorista, e di Israele, Stato riconosciuto tra le nazioni democratiche, pone rilevanti questioni giuridiche e di politica internazionale su cui la comunità internazionale sarà chiamata a compiere scelte fondamentali per riaffermare principi fondamentali del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale penale.

Indice

1. Alla base dei principi di indipendenza e imparzialità della Corte penale internazionale


Il procuratore della Corte penale internazionale (CPI) Karim Khan ha annunciato di avere presentato alla Pre Trial Chamber una richiesta di mandati di arresto per i capi di Hamas e nei confronti del premier d’Israele Netanyahu e del suo ministro della difesa Gallant. Oltre alla scontata reazione piccata di Israele, anche il Presidente degli Stati Uniti ha criticato l’iniziativa del prosecutor dell’Aja con parole taglienti: «Vorrei essere chiaro: qualunque cosa questo procuratore possa indicare, non esiste alcuna equivalenza – nessuna – tra Israele e Hamas. Saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza» . La richiesta dei mandati d’arresto è stata formulata in particolare nei confronti dei tre capi di Hamas Yahya Sinwar, Ibrahim Al-Masri e IsmailHaniyeh quali responsabili diretti dei massacri del 7 ottobre, costati oltre 1200 vittime, e della cattura di almeno 245 ostaggi, nonché per il premier israeliano Netanyahu e il ministro della difesaGallant per i bombardamenti indiscriminati su Gaza e il blocco degli aiuti umanitari che hanno causato ad oggi oltre 34.000 vittime civili tra la popolazione palestinese. L’analisi sul tema deve quindi necessariamente essere esaminata nella sua complessità, distinguendo ove possibile  i diversi profili che pure si sovrappongono inevitabilmente: quello riferito al contesto della politica internazionale, certamente rilevante, e quello – che più interessa in questa sede- delle valutazioni tecnico-giuridiche.
In linea generale è opportuno premettere che al sistema della Corte penale internazionale aderiscono 124 Stati, mentre Israele è fra gli Stati che non hanno voluto sottoscrivere lo Statuto della Corte penale internazionale – come pure non lo hanno fatto a Stati Uniti, Federazione Russa e Cina – proprio per il timore di essere sottoposto ad una giurisdizione che lo avrebbe chiamato a rispondere degli eccessi nelle sue reazioni armate e dei crimini commessi nei territori palestinesi anche dai suoi coloni. In proposito va ricordato che la Corte penale internazionale era stata sempre accusata dai suoi detrattori, in specie dagli attori del Global South, di ipocrisia e arrendevolezza quando si trattava di avviare procedimenti nei confronti del mondo occidentale. Le delegittimazioni sono venute anche dall’Occidente: la precedente procuratrice Fatou Bensouda era stata accusata di antisemitismo dallo stesso Netanyahu quando ha avviato procedimenti per ipotesi di crimini commessi dall’esercito israeliano nei territori palestinesi. Addirittura era stata oggetto di un executive order di congelamento di beni e di misure restrittive di accesso negli Usa (le stesse adottate per i terroristi) del presidente Trump per avere avviato accertamenti su soldati americani per fatti riguardanti le missioni in Afghanistan e in altre aree di crisi. Con Biden l’ordine esecutivo era stato revocato, ed erano stati intrapresi seri rapporti di collaborazione dalle agenzie statunitensi con lo stesso ufficio del Procuratore dell’Aja. La credibilità della Corte è poi stata risollevata dal referall – una formale richiesta-denuncia – promosso inizialmente da 40 Stati, fra cui è figurata anche l’Italia, perché si accertassero le responsabilità  della Federazione Russa per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità compiuti in Ucraina.
Alla Corte ha inoltre aderito recentemente anche lo “Stato della Palestina”, per cui il Procuratore della Corte penale internazionale ha potuto richiamare la piena effettività della giurisdizione della Corte sui territori palestinesi: in forza della Decision ICC-01/18-143 del 5 febbraio 2021 della Pre Trial Chamber I (https://www.icc-cpi.int/court-record/icc-01/18-143), la giurisdizione della Corte penale si applica nella «situazione nello Stato di Palestina», e si estende a Gaza e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, con un pieno mandato anche per l’escalation delle violenze dal 7 ottobre 2023 in poi. La Corte in particolare, ai sensi dell’articolo 12 dello Statuto della CPI, ha piena giurisdizione sui crimini commessi sia da cittadini di Stati Parte come anche da cittadini di Stati non Parte (purché commessi sul territorio di uno Stato Parte: si estende dunque a Israele per i fatti commessi sui territori palestinesi, come d’altronde si è sancito per la Federazione Russa, Stato- non parte per i crimini di guerra commessi in Ucraina, posto che questa ha aderito alla Corte).
Il fatto che Israele non abbia aderito al sistema della Corte dunque non esclude la grave portata degli effetti di un eventuale mandato di arresto per i suoi leader: potrebbe aggravare ad esempio l’ isolamento sul piano interno e internazionale del premier Netanyahu, che intanto, come il suo ministro della difesa, se si recasse all’estero in uno dei 124 Stati aderenti alla Corte rischierebbe l’arresto. Certo, in questa fase Netanyahu sembra aver ritrovato un sostegno interno oltre a quello degli Usa per cui non accetterà le decisioni della Corte, come però non sta accettando le intimazioni dell’Occidente a fermare l’attacco su Rafah. È verosimile dunque che la situazione possa evolvere, anche perché occorre non dimenticare che Israele è pur sempre una democrazia, e col tempo l’opposizione, i media e i sussulti democratici potrebbero riprendere vigore, mentre anche gli organi della giustizia interna, ancora sostanzialmente indipendenti, potrebbero riaffermare i principi di diritto contro il governo in carica. Un ultimatum per Netanyahu è stato già lanciato dal membro moderato del governo Benny Gantz: se entro il prossimo 8 giugno non saranno fissate le priorità di un piano per Gaza, abbandonerà l’esecutivo sciogliendo di fatto la maggioranza della destra ultranazionalista per dar luogo a nuove elezioni. Quanto ai capi di Hamas aumenteranno i rischi di essere catturati, ad esempio anche da fazioni “concorrenti” o da qualche Stato Arabo, e la loro definitiva delegittimazione potrebbe consentire proprio all’Autorità palestinese della Cisgiordania, specie se riformata, di riprendere il legittimo controllo su Gaza.

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    2. Le imputazioni per crimini di guerra e contro l’umanità


    È bene dunque approfondire gli aspetti tecnico-giuridici analizzando l’articolato statement (https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications arrest-warrants-situation-state) con cui il Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha reso nota la sua richiesta di arresto. In esso si richiama il principio di «complementarietà» dell’articolo 17 dello Statuto della CPI: prevale senz’altro la giurisdizione degli Stati nazionali, per cui la Corte penale dell’Aja non interverrà se per gli stessi fatti fosse avviato un procedimento interno agli Stati. Tuttavia il procuratore Khan precisa che le autorità nazionali devono impegnarsi in procedimenti giudiziari «indipendenti e imparziali», che «non proteggano gli indagati e non siano una farsa»: ricorrerebbero altrimenti il “difetto di volontà” (unwillingness) o il “difetto di capacità” (inability) che impongono l’intervento della Corte. Il Prosecutor Khan ha inoltre precisato di essersi avvalso, «come ulteriore garanzia» della legittimità del suo agire, di un «gruppo imparziale» di giuristi di alto profilo, esperti nel diritto internazionale umanitario e nel diritto internazionale penale, tra cui figurano Helena Kennedypresidente dell’Istituto per i diritti umani dell’Associazione internazionale degli avvocati, l’autorevole Theodor Meron, avvocato e giudice israeliano naturalizzato statunitense, visiting professor all’Università di Oxford e già presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nonché il senegalese Adama Dieng già consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio.
    Il Procuratore Khan sottolinea in primo luogo le gravi responsabilità dei capi di Hamas, in particolare dell’ ala militare delle Brigate al-Qassam, per crimini contro l’umanità (articolo 7 dello Statuto della CPI) e crimini di guerra (articolo 8), anche nel contesto della “prigionia” riferita in senso ampio allo status degli ostaggi: si tratta perciò dei reati di sterminio, omicidio,  presa di ostaggi,  stupro e altri atti di violenza sessuale, tortura, altri atti disumani, trattamenti crudeli e oltraggi alla dignità della persona. Al di là del tecnicismo delle imputazioni, il prosecutor dell’Aja si sofferma sul vissuto personale delle indagini: «Parlando con i sopravvissuti, ho sentito come l’amore di una famiglia, i legami più profondi tra un genitore e un figlio, sono stati stravolti per infliggere un dolore insondabile attraverso una crudeltà calcolata e un’estrema insensibilità». E aggiunge: «Vi sono ragionevoli motivi per ritenere che gli ostaggi siano stati tenuti in condizioni disumane e che alcuni siano stati oggetto di violenze sessuali, compreso lo stupro (…). Siamo giunti a questa conclusione sulla base di cartelle cliniche, prove video e documentali, e colloqui con vittime e sopravvissuti».
    Altrettanto gravi sono le imputazioni per Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Si tratta innanzitutto di crimini di guerra: «morte per fame di civili come metodo di guerra; «causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute»; «trattamenti crudeli», e ancora omicidio volontario, e «dirigere intenzionalmente attacchi contro una popolazione civile». Seguono i crimini contro l’umanità: sterminio e omicidio, commessi «anche nel contesto di decessi causati dalla fame»,  persecuzione e altri atti disumani .
    Il procuratore Khan delinea anche un quadro specifico delle gravi responsabilità dei leader israeliani: i crimini commessi da Israele sono stati compiuti «nell’ambito di un attacco diffuso e sistematico» contro la popolazione palestinese, e «in base alla politica dello Stato». L’accusa è perciò rivolta alla «imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez», nonché al blocco arbitrario di aiuti essenziali, tra cui cibo e medicine, risorse elettriche e idriche per periodi prolungati. Il prosecutor rimarca un «piano comune per usare la fame come metodo di guerra» e per «punire collettivamente la popolazione civile di Gaza », ancorché finalizzato ad « assicurare il ritorno degli ostaggi».
    Da qui il richiamo ai principi fondamentali su cui si basa la richiesta di arresto per il leader israeliani:1) Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la sua popolazione, tuttavia «tale diritto non esonera Israele o qualsiasi altro Stato dall’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario»; 2) indipendentemente dall’ obiettivo militare, «i mezzi che Israele ha scelto per raggiungerli a Gaza – vale a dire, causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni al corpo o alla salute della popolazione civile – sono criminali».
    Importante è quindi il richiamo alla responsabilità diretta dei capi, perché i crimini di guerra e contro l’ umanità indagati sono stati commessi «su larga scala», rientrano in un piano esteso e preordinato, e si configurano non come fatti isolati ma quali “leadership crime”,  crimini dei capi – tanto di Hamas quanto di Israele – i quali pertanto ne risponderanno sia come co- autori ai sensi dell’articolo 25 dello Statuto, sia per la “responsabilità da comando” ai sensi dell’articolo 28, per averli ordinati, o per omissioni nel mancato controllo o nell’aver consentito comportamenti illegali compiuti dai sottoposti.
    Hamas e Israele erano stati già ampiamente avvertiti delle conseguenze delle loro azioni quando il procuratore Khan già il 29 ottobre si era recato al  valico di frontiera di Rafah in Egitto, senza riuscire ad entrare a Gaza, e aveva lanciato un primo statement con le sue linee d’azione, riprese in un editoriale del Guardian. Per Hamas aveva indicato che la Corte avrebbe individuato i «responsabili dell’organizzazione e dell’ attuazione delle atrocità del 7 ottobre», mentre ad Israele aveva ricordato che ha un esercito professionale, giuristi militari e un sistema basato sul rispetto del diritto internazionale umanitario, per cui sarebbe stato chiamato a dimostrare che «qualsiasi attacco è stato condotto in conformità con le leggi e le consuetudini dei conflitti armati», a cominciare dalla «corretta applicazione dei principi di distinzione, precauzione e proporzionalità», e dal divieto di «affamare le popolazioni». 

    3. Conclusioni: riaffermare i principi dello Statuto di Roma


    In conclusione è dunque possibile una valutazione complessiva sulle questioni poste dall’iniziativa promossa dal Prosecutor dell’Aja. Alla Corte penale internazionale negli ultimi anni sono stati compiuti importanti passi in avanti per l’affermazione della giustizia penale internazionale, specie dopo  la forte riprovazione degli Stati di fronte ai gravi crimini commessi nella guerra in Ucraina: il prosecutor della Corte non poteva dunque rimanere inerme nemmeno di fronte alla tragedia umanitaria di Gaza. Come si è visto all’iniziativa sono seguite critiche da parte di Israele e degli Stati Uniti, come anche del Regno Unito, ma vanno registrate anche diverse posizioni di sostegno alla Corte espresse da diversi paesi europei. La Germania, ad esempio, ha sì richiamato implicitamente le indicazioni di Biden precisando che «la richiesta simultanea di mandati di arresto contro Hamas e due funzionari israeliani dà la falsa impressione di un’equazione», ma ha ribadito che «la Corte penale internazionale è una conquista fondamentale». Anche Francia, Spagna e Belgio sono state unite sulla linea espressa dall’Alto rappresentate della politica estera dell’UE Borrell che ha richiamato al rispetto dell’indipendenza e delle decisioni della Corte. Ed è stato netto il comunicato del  Ministro degli esteri francese Catherine Colonna: «La Francia sostiene la Corte penale internazionale, la sua indipendenza e la lotta contro l’impunità in tutte le situazioni». L’auspicio è che anche in Italia maturino presto voci autorevoli  altrettanto chiare nel sostenere il ruolo della Corte penale internazionale.
    Ora sta dunque alla «comunità internazionale» che si identifica nello Statuto di Roma – così è ricordato dai giuristi lo Statuto della Corte penale internazionale che è stato approvato nel 1998 nella capitale d’Italia, nazione che fu tra i suoi principali promotori – ribadire con forza l’assoluta indipendenza e imparzialità della Corte penale internazionale e che in tutti i contesti ai principi del diritto internazionale umanitario nessuno può derogare.  

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    maurizio delli santi

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