CORTE DI CASSAZIONE – Sez. III Civile – Sentenza del 17 febbraio 2011, n. 3847

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  Responsabilità civile – Responsabilità del medico – Ipossia perintale – Tetraparesi spastica – Struttura sanitaria – Carenze – Obbligo di informare il paziente.

 

La sentenza n. 3847 del 2011 della Suprema Corte ha statuito il principio secondo cui quante volte l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento, il difetto di accertamento di un fatto astrattamente idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia “più probabile che non”, da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non abbia effettuato.

Per quanto concerne la violazione dell’obbligo d’informazione circa i limiti della struttura sanitaria, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato, delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico con il quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica.

 

RITENUTO IN FATTO – S.P. nato in una struttura sanitaria privata, accusò immediatamente dopo la nascita sindrome asfittica ed encefalopatia atossico emorragica. Trasportato presso l’ospedale S. di N., ne fu dimesso con la diagnosi di “ sindrome di West in bambino con ritardo psicomotorio”. I genitori citarono la clinica privata H.V.D.S. e il ginecologo G.A. al fine di richiedere il risarcimento dei danni per non aver diagnosticato l’ipossia intra partum in feto megalosoma e non aver ricorso immediatamente al taglio cesareo.

I convenuti resistettero e chiamarono in causa le rispettive società assicuratrici, chiedendo di essere garantiti per l’ipotesi di condanna al risarcimento.

La consulenza tecnica collegiale riscontrò che il bambino era affetto da “ paralisi cerebrale infantile ed espressione tetraparetica di tipo prevalentemente spastico di grado severo con epilessia e deficit cognitivo”, comportante un’ invalidità permanente del 100%.

Il tribunale di Salerno condannò solidalmente i convenuti al risarcimento dei danni. La sentenza fu appellata e la Corte territoriale respinse i gravami della società H.e di G.A. con sentenza n. 408 del 2006 ritenendo che la paralisi cerebrale fosse conseguenza di un’imponente, prolungata asfissia intra partum; che la sofferenza fetale non era stata diagnosticata a causa di inadeguati ed insufficienti rilevamenti cardiotografici durante il travaglio; che il ritardato intervento di rianimazione del neonato tramite intubazione aveva determinato l’aggravamento di una situazione già fortemente pregiudicata in ragione del mancato ricorso al cesareo, concorrendo a cagionare l’evento nella misura del 25%.

La sentenza emessa dai giudici territoriali è stata impugnata dal ginecologo dinanzi alla Suprema Corte.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO – Il ricorrente, tra i motivi di impugnazione, ha indicato la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto sul nesso di causalità e sull’erronea commistione fra nesso causale e colpa, motivazione insufficiente e contradditoria su fatti decisivi e controversi nonchè la deduzione degli stessi vizi in punto di distribuzione dell’onere probatorio e di valutazione delle prove sul nesso causale.

Le censure sono infondate.

La Cassazione ha individuato nel mancato accertamento dell’acidosi metabolica il punto fondamentale dell’intera questione sebbene il ginecologo sostenga che tale esame poteva essere effettuato solo presso l’ospedale. In ricorso non è detto quale fosse la ragione per la quale l’indagine non poteva essere fatta nella stessa struttura dove il parto era avvenuto; come invece ritenuto dalla Corte d’Appello la quale ha precisato che l’analisi non era stata nemmeno tentata, quindi la sua mancanza non poteva valere a favore di chi non vi aveva proceduto.  I giudici di legittimità hanno ritenuto le conclusioni della Corte d’Appello conformi a diritto, statuendo il principio secondo cui quante volte l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento ( nella specie, paralisi cerebrale da ipossia intra partum ), il difetto di accertamento di un fatto astrattamente idoneo ad escludere il nesso causale tra condotta ed evento ( nella specie, ipotetica presenza di una paralisi cerebrale anteriore al travaglio da parto ) non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia “più probabile che non”, da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non abbia effettuato ( nella specie, dell’acidosi metabolica in prelievo dello scalpo, in arteria del cordone ombelicale o in un campione molto precoce di sangue neonatale ). Costituisce consolidato e condivisibile approdo dottrinale e giurisprudenziale che la probabilità statistica consente solo di affermare con quale frequenza eventi di un certo tipo si verificano ma non ha nessuna capacità esplicativa e non può perciò garantire la spiegazione causale di un singolo evento.

 La sentenza  della Corte d’Appello conclude nel senso della dipendenza dalla paralisi cerebrale dalla anossia intrapartum  “ non solo alla stregua delle conoscenze mediche disponibili e generalmente accettate all’epoca dei fatti, ma anche alla luce dei successivi sviluppi della scienza e dell’arte medica”, non senza aver prima rilevato l’assenza di qualsiasi condizione indicativa di paralisi ante partum.

La conclusione è riferita al nesso causale e non alla colpa, la quale va valutata alla stregua delle conoscenze scientifiche proprie del momento storico in cui cade la condotta, com’ è stato esattamente fatto dalla Corte d’Appello. La Corte chiarisce, affrontando il problema della colpa, che si fa carico al ginecologo di aver imprudentemente usato lo strumento diagnostico costituito dai tracciati cardiotocografici, sottovalutandone le implicazioni e discostandosi dai criteri scientifici di settore in quel momento generalmente accertati e comunque non superati, se non in parte, neppure nelle elaborazioni successive.

La Suprema Corte ha chiarito che la sentenza impugnata ha correttamente individuato il nesso causale della dipendenza della paralisi cerebrale dalla anossia intra partum, dando conto della presenza di criteri discretivi per l’attribuzione all’asfisia intra partum della paralisi cerebrale e rilevando l’assenza di qualsiasi condizione indicativa di paralisi ante partum.

La Suprema Corte ha inoltre affermato l’esistenza di un contratto trilaterale tra paziente, medico e casa di cura privata quindi, così come rilevato dalla Corte d’Appello, la clinica aveva l’obbligo d’ informare il paziente sui rischi di eventuali dimensioni o entità del suo equipaggiamento non idonei a fronteggiare situazioni patologiche. L’obbligo d’informativa grava anche sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa che abbia concluso con la paziente un contratto di assistenza al parto presso la casa di cura in cui sarebbe stata ricoverata. E’ ciò non solo per la natura trilaterale del contratto, ma anche in ragione degli obblighi di protezione che, nei confronti della paziente e dei terzi che con la stessa siano in particolari relazioni, come l’altro genitore ed il neonato, derivano da un contratto che abbia ad oggetto tale tipo di prestazioni.

Ne deriva che, in caso di violazione dell’obbligazione d’informare, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato ( secondo uno schema analogo a quello descritto, in tema di consenso informato, da Cass., n. 2847/10 ), delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico con il quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica.

Nella specie non si affermato che l’obbligazione informativa fosse stata adempiuta dal ricorrente; ed è rimasto di conseguenza estraneo al thema decidendum il punto relativo alla dimostrazione che la partoriente avrebbe partorito altrove se fosse stata informata sui rischi che poteva correre presso la casa di cura privata dove prestava la propria opera il ginecologo che la seguiva.

Il ricorso è conclusivamente respinto. La Corte ha rigettato il ricorso e compensato le spese.

 

 

Faggioni Roberta

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