Consulta: pena troppo rigida per sfregio al viso è incostituzionale

La Consulta dichiara incostituzionale la pena rigida per sfregio al viso: va prevista un’attenuante e l’interdizione non può essere automatica.

Allegati

La Consulta ha decretato l’illegittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità e dell’art. 583-quinquies, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui dispone «comporta l’interdizione perpetua», anziché «può comportare l’interdizione». Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon

Corte costituzionale -sentenza n. 83 del 20-05-2025

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Indice

1. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies, commi primo e secondo, cod. pen., prevalentemente sotto il profilo dosimetrico della pena


Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Taranto sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies del codice penale, inserito dall’art. 12, comma 1, della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), nella parte in cui punisce con la reclusione da otto a quattordici anni, anziché da sei a quattordici anni – ovvero, in subordine, da quattro a quattordici anni –, la causazione di lesione personale «dalla quale deriva uno sfregio permanente del viso e non una deformazione del viso».
In particolare, fermo restando che questo giudice era chiamato a giudicare una persona imputata del reato di cui all’art. 583-quinquies cod. pen., codesto organo giudicante rammentava che, prima dell’inserimento della norma censurata, che ne ha fatto oggetto di una fattispecie autonoma di reato, lo sfregio permanente del viso integrava la circostanza aggravante del reato di lesione personale, di cui all’art. 583, secondo comma, numero 4), cod. pen., per la quale era prevista la pena della reclusione da sei a dodici anni, il giudice a quo deduce l’eccessività del nuovo minimo edittale di otto anni di reclusione visto che esso sarebbe riferibile anche al «più lieve degli sfregi», molto meno grave della deformazione del viso, sanzionata con uguale pena dallo stesso art. 583-quinquies, nonché delle lesioni tuttora oggetto delle aggravanti di cui ai numeri 1), 2) e 3) del secondo comma dell’art. 583 cod. pen. (malattia insanabile, perdita di un senso, di un arto, di un organo o della capacità di procreare), e altresì della mutilazione degli organi genitali femminili, punita dall’art. 583-bis, primo comma, cod. pen. con la reclusione da quattro a dodici anni.
Ad ogni modo, ad avviso di tale giudice, l’eccessività del minimo edittale per il titolo autonomo di reato di cui all’art. 583-quinquies cod. pen. sarebbe esacerbata dall’impraticabilità delle operazioni di bilanciamento, viceversa possibili per le circostanze aggravanti di cui all’art. 583, secondo comma, cod. pen., rimarcandosi al contempo come «la necessità di combattere vigorosamente il fenomeno della violenza di genere» non possa giustificare «irragionevoli diversità di trattamento», atteso peraltro che le fattispecie di delitto previste dall’art. 583-quinquies cod. pen. possono verificarsi anche al di fuori delle ipotesi di violenza di genere, «o comunque anche laddove la persona offesa non versi in condizioni di particolare vulnerabilità».
Per codesto Tribunale, tra l’altro, sarebbe comunque irragionevole «che il vero e proprio “deturpamento” del volto di un individuo – fatto estremamente invalidante – sia punito con una sanzione minima esattamente pari a quella stabilita per gli sfregi di non particolare entità offensiva», richiamandosi all’uopo quella giurisprudenza costituzionale sul sindacato di ragionevolezza dei trattamenti sanzionatori penali e, in particolare, la sentenza n. 40 del 2019, assumendosi che la «cornice edittale estremamente alta», di cui all’art. 583-quinquies cod. pen., «sia intrinsecamente irragionevole», poiché «inevitabilmente comporta che i più lievi fra i fatti appartenenti alla classe di condotte penalmente rilevanti di “causazione violenta di sfregi permanenti al volto” siano puniti con pene che sarebbero idonee a punire fatti appartenenti alla medesima classe di condotte connotati da ben maggiore offensività».
Insieme all’art. 3 Cost., si riteneva per di più come sarebbe violato anche l’art. 27 Cost., sotto il profilo della funzione della pena, giacché «una pena sproporzionata appare inidonea a sortire validi effetti rieducativi».
In via principale, siffatto giudice chiedeva quindi, per la fattispecie di sfregio permanente non integrante deformazione del viso, un «ritorno» al precedente minimo di sei anni di reclusione, stabilito dall’art. 583, secondo comma, cod. pen. mentre, in via subordinata, costui invocava di estendere alla fattispecie medesima il minimo di quattro anni di reclusione, stabilito dall’art. 583-bis, primo comma, dello stesso codice per le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.
Ciò posto, dal canto suo, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Bergamo sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, commi primo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies, commi primo e secondo, cod. pen., nella parte in cui punisce con la reclusione da otto a quattordici anni, anziché da quattro a dodici anni, la causazione di uno sfregio permanente del viso «privo di efficacia deformante» e nella parte in cui prevede la pena accessoria dell’interdizione perpetua dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno fermo restando che, con la stessa ordinanza, siffatto GUP sollevava, in riferimento agli stessi parametri, questioni di legittimità costituzionale della medesima norma, nella parte in cui prevede la reclusione da otto a quattordici anni, anziché da sei a dodici anni, e nella parte in cui commina la menzionata pena accessoria perpetua, per la causazione di una deformazione o di uno sfregio permanente del viso, qualora il fatto non sia commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
In particolare, fermo restando che tale giudice doveva giudicare gli imputati del reato di cui agli artt. 583-quinquies e 585, commi primo e secondo, cod. pen., codesto Tribunale deduceva che, partendo dal minimo edittale di otto anni di reclusione, pur riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, e applicata la diminuente per il rito abbreviato, agli imputati, tutti incensurati, si sarebbe dovuta irrogare la pena di tre anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, oltre che la pena accessoria perpetua, trattamento sanzionatorio, a suo avviso, manifestamente sproporzionato.
Il minimo edittale di otto anni di reclusione – osservava nel dettaglio il rimettente – è sedici volte superiore a quello del reato-base di cui all’art. 582, primo comma, cod. pen., un terzo superiore a quello delle lesioni gravissime di cui all’art. 583, secondo comma, cod. pen., che pure già sanziona fattispecie di rilevanza almeno pari alla deformazione o allo sfregio del viso, infine superiore del doppio rispetto al minimo previsto dall’art. 583-bis, primo comma, cod. pen. per il delitto di mutilazione degli organi genitali femminili, facendosene conseguire da ciò l’irragionevolezza, sia l’equiparazione sanzionatoria operata dall’art. 583-quinquies cod. pen. tra sfregio e deformazione, sia che una pena tanto elevata, introdotta con finalità di contrasto alla violenza familiare e di genere, si applichi anche qualora i fatti – come nel caso di specie – non siano connessi a dinamiche di tale natura.
Oltre all’art. 3 Cost., sempre ad avviso di siffatto giudice a quo, la sproporzione e la rigidità del trattamento sanzionatorio, altresì aggravato dalle ricadute di cui all’art. 4-bis ordin. penit., violerebbero anche il principio di personalità e la finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27, commi primo e terzo, Cost., tenuto conto altresì del fatto che nemmeno potrebbe scongiurarsi il rischio che il trasgressore, «consapevole della pena draconiana» di cui alla norma censurata, «si determini ad attentare a zone del corpo della vittima differenti dal viso».
Per di più, si assumeva come sarebbero stati violati pure gli artt. 3 e 27 Cost. e, in particolare, la previsione della pena accessoria perpetua di cui al secondo comma dell’art. 583-quinquies cod. pen., il cui carattere automatico, per il giudice rimettente, precluderebbe ogni individualizzazione giudiziale, con conseguente parificazione di fatti-reato tra loro diversi per gravità.
Oltre a ciò, si stimava come sarebbe inoltre ingiustificata la dimensione assistenziale e familiare di tale pena accessoria rispetto alle condotte di cui al censurato art. 583-quinquies cod. pen., che possono verificarsi anche al di fuori dell’ambito domestico e delle relazioni affettive fermo restando che, quanto ai petita, il GUP del Tribunale di Bergamo indicava come soluzione principale l’estensione della cornice edittale prevista dall’art. 583-bis, primo comma, cod. pen. per il reato di mutilazione degli organi genitali femminili (da quattro a dodici anni); in subordine, e qualora i fatti non siano caratterizzati da violenza di genere, l’estensione della cornice edittale prevista dall’art. 583, secondo comma, cod. pen. per le lesioni gravissime (da sei a dodici anni).
Ciò posto, circa il secondo comma dell’art. 583-quinquies cod. pen., tale giudice invocava infine «un rimedio che consenta di calibrare la pena accessoria rispetto al trattamento sanzionatorio principale, rimuovendo la natura “perpetua” della sanzione ovvero ancorandola alle condotte commesse nella qualità di tutore, curatore o amministratore di sostegno».
A sua volta, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catania sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, commi primo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies, commi primo e secondo, cod. pen., nella parte in cui stabilisce il minimo edittale di otto anni di reclusione «senza distinguere il primo tipo di lesione (deformazione) dal secondo (sfregio)» e nella parte in cui prescrive l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno «senza alcuna possibilità di graduazione».
In particolare, considerato che questo Tribunale doveva giudicare una persona accusata di avere commesso il reato di cui all’art. 583-quinquies cod. pen., dopo essere stata richiamata la differenza medico-legale tra i due eventi di danno, siffatto giudice denunciava come irragionevole che lo sfregio, lesione meno grave, sia punito al pari della deformazione, con ricadute sull’idoneità rieducativa della pena, per codesto organo giudicante, vi sarebbe un vizio di sproporzione, in quanto, pur riconosciute le attenuanti generiche prevalenti e applicata la diminuente per il rito abbreviato, dovrebbe irrogarsi la pena di tre anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, preclusiva del beneficio della sospensione condizionale, nonché obbligatoriamente accompagnata dalla pena accessoria perpetua; inoltre, per effetto dell’inclusione dell’art. 583-quinquies cod. pen. nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit., «si aprirebbe comunque la strada della carcerazione anche per un soggetto, allo stato, incensurato». Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon

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2. La soluzione adottata dalla Consulta


La Corte costituzionale – dopo avere rilevato che i giudizi summenzionati avevano a oggetto questioni largamente sovrapponibili e dovevano essere pertanto riuniti ai fini della decisione, e ritenuto le eccezioni prospettate dalle parti costituite inammissibili – reputava siffatte questioni fondate.
In particolare, il Giudice delle leggi osservava prima di tutto che l’inasprimento sanzionatorio operato dal legislatore, con la trasformazione dello sfregio e della deformazione da circostanze aggravanti del reato di lesione a fattispecie delittuosa autonoma – trasformazione non posta in discussione dagli stessi rimettenti –, corrisponde a una valida ratio di tutela della persona, attesa la dimensione relazionale e identitaria del volto di ciascuno, osservando contestualmente come non possa d’altronde sottovalutarsi il rilievo che gli eventi in questione, quali elementi costitutivi di un autonomo reato doloso, sono oggi imputabili esclusivamente a titolo di dolo (per quanto generico), mentre, da circostanze aggravanti, lo erano anche a titolo di colpa, ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen..
Chiarito ciò, i giudici di legittimità costituzionale facevano altresì presente che l’obiettivo, di assicurare una protezione specifica al tratto della personalità e della stessa identità che si manifesta nei lineamenti del viso, è in grado di giustificare – dall’angolatura della discrezionalità legislativa – l’uguale trattamento penale riservato, sul piano delle misure edittali, a eventi di differente gravità, quali sono lo sfregio e la deformazione, tanto più se si considera che il fatto stesso, che tale unificazione sanzionatoria non sia stata operata dalla legge n. 69 del 2019, ma risalga alle origini del codice penale del 1930, e abbia quindi vissuto pacificamente nell’ordinamento giuridico per quasi un secolo, conferma, sempre a giudizio della Corte costituzionale, che, per il legislatore, sulla distinzione interna tra i due eventi lesivi, prevale ciò che li accomuna, ovvero l’incidenza di entrambi sull’immagine sociale dell’individuo e sulla percezione da parte sua della propria identità.
Precisato pure tale aspetto, la Consulta evidenziava che se, sul piano della comparazione esterna, la particolare severità della pena detentiva di cui al primo comma dell’art. 583-quinquies cod. pen. non si espone a un rilievo di manifesta irragionevolezza o sproporzione, dal momento che quanto appena esposto vale sia nel raffronto con le lesioni tuttora oggetto della circostanza aggravante di cui ai numeri 1), 2) e 3) del secondo comma dell’art. 583 cod. pen., sia in rapporto alla mutilazione degli organi genitali femminili punita dall’art. 583-bis cod. pen., fattispecie tutte che, pur incidendo pesantemente sull’integrità e finanche sulla dignità della persona, non ne investono tuttavia quel connotato peculiare – il volto – che il legislatore ha inteso proteggere con speciale vigore, proprio per il rilievo che esso assume nella percezione della identità da parte della persona, le doglianze dei rimettenti venivano tuttavia stimate fondate perché attinenti alla rigidità dell’inasprimento sanzionatorio realizzatosi nella disposizione censurata.
In effetti, per la Corte, il minimo di otto anni di reclusione, sancito da tale disposizione, ha un tratto indubbio di particolare asprezza, che, in ragione dell’innesto su un titolo autonomo di reato, non è neppure modulabile tramite bilanciamento, com’era invece per lo sfregio e la deformazione nell’anteriore regime circostanziale, trattandosi, invero, di una misura sedici volte superiore a quella stabilita dall’art. 582, primo comma, cod. pen. per il delitto di lesione personale, che, nel predetto regime, costitutiva il reato-base delle lesioni gravissime al volto.
Orbene, a fronte di ciò, il Giudice delle leggi sottolineava come, in sede di giustizia costituzionale, sia stata più volte affermata la necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, che consenta al giudice di moderare l’applicazione di pene edittali di eccezionale asprezza, onde evitare che, nel caso concreto, esse risultino sproporzionate rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, quindi contrarie al principio di personalizzazione e inidonee alla funzione rieducativa, e ciò tanto più riguardo a ipotesi di reato che avevano registrato interventi legislativi di significativo aumento degli estremi edittali della pena.
Tale orientamento, infatti, è stato per la prima volta affermato con la sentenza n. 68 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, che la pena da esso comminata fosse diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità, così come, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 167, primo comma, del codice penale militare di pace, dove non prevedeva che la pena fosse diminuita qualora il sabotaggio militare fosse di lieve entità, la sentenza n. 244 del 2022 ha fatto riferimento alla disciplina del sabotaggio comune, osservando che, in essa, la «possibilità di una diminuzione della pena fino a un terzo, rispetto a una pena minima eccezionalmente elevata come quella di otto anni di reclusione, opera come una valvola di sicurezza» mentre, ancora, la sentenza n. 120 del 2023, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva, in relazione al delitto di estorsione, che la pena da esso comminata fosse diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità, ha sottolineato che «la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di moderare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza».
Le medesime argomentazioni, d’altronde, sono state poste sempre dalla Corte costituzionale a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 628 cod. pen. – e, in via consequenziale, del primo comma dello stesso articolo – riguardo al reato di rapina (sentenza n. 86 del 2024).
Infine, la sentenza n. 91 del 2024, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., dove non prevedeva, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori, che nei casi di minore gravità la pena fosse diminuita fino a due terzi, ha ribadito «la necessità di una “valvola di sicurezza” che, fermo il minimo edittale elevato che il legislatore nella sua discrezionalità ha voluto porre, consenta al giudice comune, attraverso la previsione di un’attenuante speciale, di graduare e “personalizzare” la pena da irrogare in concreto con riferimento ai casi di minore gravità, al fine di assicurare la proporzionalità della sanzione in una con la individualizzazione della pena e la sua finalità rieducativa».
Ebbene, concluso tale excursus giurisprudenziale, la Corte osservava tra l’altro che, oltre all’asprezza del minimo edittale, il tratto comune delle fattispecie oggetto di queste pronunce è la latitudine tipica del fatto-reato, tale da abbracciare «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore» (ancora sentenza n. 68 del 2012 e, analogamente, sentenze n. 91 e n. 86 del 2024, n. 120 del 2023) fermo restando che il rilievo in questione concerne pure l’art. 583-quinquies cod. pen. che, quantomeno per l’evento alternativo meno grave, ovvero per lo sfregio, può riferirsi anche a lesioni relativamente modeste, talora procurate in contesti di aggressività minore e occasionale, e senza dolo intenzionale, come bene illustra la varietà delle imputazioni nei giudizi a quibus.
Ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, il primo comma dell’art. 583-quinquies cod. pen. viola dunque i principi costituzionali di proporzionalità, personalizzazione e finalità rieducativa della pena, in quanto, per l’assenza di una “valvola di sicurezza”, al cospetto di un minimo edittale di eccezionale asprezza e di una gamma multiforme di condotte punibili, determina il rischio di irrogazione di una sanzione eccessiva in concreto, pertanto insensibile al giudizio sulla personalità del reo e inidonea allo scopo della sua risocializzazione.
D’altronde, sebbene il petitum espresso nelle ordinanze di rimessione attinga direttamente gli estremi edittali della pena, la riscontrata lesione dei principi costituzionali evocati, per la Consulta, può e deve allora essere sanata tramite l’introduzione di una circostanza attenuante, che, senza stravolgere la dosimetria legislativa, restituisca alla norma la flessibilità applicativa della quale difetta atteso che spetta alla stessa Corte costituzionale, ove ritenga fondate le questioni, individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, non essendo vincolata dalla formulazione del petitum nell’ordinanza di rimessione, che ha solo la funzione di indicare il contenuto e il verso delle censure (da ultimo, sentenze n. 53 del 2025, n. 128, n. 90 e n. 46 del 2024).
Del resto, in mancanza di una differente grandezza di riferimento (qual era, per la sentenza n. 91 del 2024, l’attenuante a effetto speciale fino a due terzi della pena, di cui agli artt. 609-bis e 609-quater cod. pen.), riguardo all’art. 583-quinquies cod. pen. il temperamento costituzionalmente imposto per i fatti di lieve entità deve essere limitato all’attenuante a effetto comune, fino a un terzo della pena (in linea con le sentenze n. 86 del 2024, n. 120 del 2023, n. 244 del 2022 e n. 68 del 2012).
Chiarito ciò, il Giudice delle leggi reputava altresì fondate anche le questioni relative alla pena accessoria, di cui al secondo comma della disposizione censurata.
In effetti, secondo la Corte, se il GUP del Tribunale di Bergamo riteneva come non vi fosse alcuna correlazione tra il reato di cui all’art. 583-quinquies cod. pen., che è un reato comune, realizzabile anche tra estranei, e l’interdizione dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno, normalmente attinenti a rapporti affettivi e familiari, in senso contrario, può tuttavia affermarsi che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, e senza eccedere i margini della ragionevolezza, ha creduto opportuno interdire da uffici implicanti cura e assistenza chi si sia reso responsabile di condotte dolose in pregiudizio di un essenziale bene pertinente alla persona, qual è l’identità rappresentata dal volto, in guisa tale che, se non sotto il profilo della pertinenza all’oggettività giuridica della fattispecie delittuosa, la censurata disposizione sulla pena accessoria è tuttavia viziata sul piano dell’automaticità, fissità e perpetuità della sanzione, avendo la medesima Consulta più volte segnalato che, impedendo l’individualizzazione rispetto alla concreta gravità del fatto-reato, ogni previsione di sanzione fissa è indiziata di illegittimità costituzionale (sentenze n. 195 del 2023, n. 266 del 2022 e n. 222 del 2018).
Fin dalla sentenza n. 50 del 1980, si è fatto invero ricorso, ai fini del sindacato di legittimità costituzionale sulle disposizioni di pena fissa, a una prova di resistenza: «il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (in senso analogo, sentenze n. 195 e n. 40 del 2023, n. 266 del 2022 e n. 222 del 2018).
Orbene, per i giudici di legittimità costituzionale, la notevole latitudine della descrizione tipica del reato ex art. 583-quinquies cod. pen. – già sottolineata riguardo alla pena principale – induce a ritenere che possano a essa ricondursi condotte, più tenui delle altre, rispetto alle quali l’applicazione automatica e la durata indefinita della pena accessoria risultino ingiustificate nel senso che la perpetuità della pena accessoria è priva di giustificazione, una volta riconosciuta la necessità costituzionale della valvola di moderazione della pena principale, tranne ipotizzare un nesso – che sarebbe tuttavia incompatibile con la finalità rieducativa della pena – tra la permanenza dello sfregio e la permanenza della sanzione.
La riconduzione a legittimità del secondo comma dell’art. 583-quinquies cod. pen. è quindi assicurata dall’elisione dei tratti di rigidità – obbligatorietà e perpetuità – contrari ai canoni di proporzionalità, personalizzazione e funzione rieducativa della pena.
Accertata la commissione del reato in questione, la pena accessoria dell’interdizione dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno, ad avviso della Corte, può dunque essere irrogata dal giudice, nella misura determinata in base ai criteri discrezionali di cui all’art. 133 cod. pen., nel rispetto del limite massimo di dieci anni, stabilito dall’art. 79, primo comma, numero 1), cod. pen. per l’interdizione temporanea dai pubblici uffici (tali essendo gli uffici assistenziali di che trattasi: Corte di Cassazione, Sesta sezione penale, sentenze 12 novembre-3 dicembre 2014, n. 50754, e 4 febbraio-4 giugno 2014, n. 23353).
La Corte costituzionale, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava quindi l’illegittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies cod. pen., per violazione degli artt. 3 e 27, commi primo e terzo, Cost., nella parte in cui: 1) al primo comma, non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità; 2) al secondo comma, dispone «comporta l’interdizione perpetua», anziché «può comportare l’interdizione».

3. Conclusioni


Con la decisione in esame, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies cod. pen. che, come è noto, prevede il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso in relazione al primo comma, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità e, a proposito del terzo comma, nella parte in cui dispone «comporta l’interdizione perpetua», anziché «può comportare l’interdizione».
Tal che ne consegue che per effetto di tale pronuncia: 1) per il reato di cui al comma primo di questa norma incriminatrice, e quindi allorché sia cagionata ad alcuno una lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso, è ora prevista, qualora, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità, una diminuzione della pena, normalmente contemplata da siffatto comma nella reclusione che va da otto a quattordici anni, in una misura non eccedente un terzo; 2) la condanna per questo illecito penale non determina più obbligatoriamente l’interdizione, potendo essere adesso questa pena accessoria applicabile solo in via facoltativa (nei termini prospettati dal medesimo provvedimento in esame).
Queste sono dunque le novità che contraddistinguono la sentenza in commento.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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